La Grotta delle Ostriche
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Anteprima del libro
La Grotta delle Ostriche - Alessia Oliveri
I PARTE
Il richiamo di un gabbiano lacerò il silenzio della notte. «Zia Lauren! Ho sentito di nuovo quella donna che urlava là fuori.»
Nel sogno di Nora bambina, le persiane verdi della camera sbattevano all’unisono con le onde del mare. Quell’incubo la ossessionava dalla sera dell’incidente aereo in cui Harry Holton aveva perso la vita.
I
Tenby, 16 maggio 1998
Mi presentai alla reception scandendo a chiare lettere anche il cognome di mia madre. Me lo aveva insegnato lei, fin da bambina, per timore che il destino potesse separarci e infliggerci una pena ancor più crudele di quella che ci era toccata. Un uomo sulla sessantina compilò un modulo con i miei dati prima di porgermi la chiave e indicarmi con un cenno il corridoio. Odorava di salsedine e il suo aspetto ricordava quello del capitano di una réclame. Chinai la spalla per sistemare lo zainetto, presi la valigia e mi avviai.
Le stanze, corredate di piccoli giardini privati, si sviluppavano tutte al piano terra. Sulle porte spiccavano targhe ricavate da vecchie assi di legno sulle quali erano stati dipinti nomi di uccelli marini. La chiave numero nove corrispondeva alla White Cormoran. Aprii la porta e mi trovai in un ambiente più accogliente delle anguste camere di periferia che di solito prenotava la redazione.
La pensione The Seagull Inn si trovava a pochi metri dal frangersi delle onde sugli scogli, con la sua grossa insegna a luce intermittente. Era ancorata alla rinomata Carmarthen Bay, riparo naturale per migliaia di piccole imbarcazioni ed era raggiungibile a piedi attraverso un sentiero dal porto. Era un edificio nello stile di Tenby, semplice ma curato in ogni dettaglio, dove i colori pastello tipici dell’architettura locale risaltavano in contrasto con il blu del mare.
Quel pomeriggio, dopo aver atteso che il battello concludesse le manovre di attracco, avevo percorso la stretta passerella fissata al pontile. Un’insegna scolpita nel legno riportava l’effige di San Davide e il nome della cittadina in gallese, Dinbych-y-Pysgod. Di fronte a me, la grande collina faceva da cornice al villaggio come in una cartolina.
Lungo la breve traversata, la voce rauca di un megafono aveva informato i passeggeri che la vegetazione del Pembrokeshire da più di un secolo era tenuta sotto controllo dall’ostinato lavoro dei pony di montagna, una razza molto resistente, discendente da quella un tempo utilizzata nelle miniere di carbone. Per tutto il viaggio ero rimasta quasi ipnotizzata dagli stormi di gabbiani che avevano scortato l’imbarcazione. Alcuni volteggiavano battendo forte le ali, per poi scendere planando. Altri dormivano sull’acqua o lasciavano cadere vongole e molluschi sugli scogli per aprirli e mangiarne il contenuto. A prua, rondini di mare si inabissavano col lungo becco in veloci scorribande.
Sistemai i vestiti nell’armadio: un giubbotto di jeans nero, dei fuseaux, una giacca verde oliva acquistata a un mercatino di abiti usati, alcune T-shirt con i simboli di gruppi che neanche conoscevo. Per ultima tirai fuori la scatola che mi accompagnava ovunque, piena di elastici per capelli e lucidalabbra. Mi sfilai i pesanti anfibi e mi sdraiai sul letto.
Ripassai mentalmente la lista delle cose da fare: il fascicolo che avevo trovato il lunedì precedente, sulla scrivania che mi avevano assegnato in redazione, mi era parso da subito piuttosto scarno. Mentre ne analizzavo il contenuto, percepivo gli sguardi dei colleghi fissi su di me. Il rapporto della polizia scientifica riguardava il rinvenimento, avvenuto da un paio di mesi, di uno scheletro ormai datato. Il decesso risaliva infatti a più di quarant’anni prima. Non ci voleva molto a capire che si trattava di un caso irrisolto e che i giornali di cronaca non avevano dedicato grande spazio alla notizia. Ossa dimenticate da così tanto tempo e, per di più, in una grotta sconosciuta del Pembrokeshire. Ovvio che quel caso non poteva che essere assegnato a me, l’ultima arrivata, la bamboccia ancora da svezzare, nulla in confronto ai loro primi incarichi, e bla bla bla. Ma niente di tutto ciò poteva fermarmi: le regole del basso giornalismo professionale nel quale mi ero imbattuta rappresentavano per me uno stimolo ad andare avanti.
Misi lo zainetto sul letto e tirai fuori la cartellina sulla quale era riportato a chiare lettere il mio nome. Tra le altre cose, conteneva diverse fotografie e alcune note tecniche sullo stato di conservazione dei resti attribuiti a una giovane donna deceduta alla fine degli anni Cinquanta. Il cranio fratturato in più punti non lasciava dubbi sul fatto che non si trattasse di morte per cause naturali: fratture dell’osso del naso con irradiazione verso le strutture adiacenti, fratture mandibolari, fratture multiple dell’orbita, frattura del piano anteriore della base cranica.
Il rapporto sul macabro ritrovamento sottolineava la totale assenza di denunce di persone scomparse o di collegamenti con delitti verificatisi nella zona. L’unica strada per venirne a capo sembrava quella di armarsi di santa pazienza, visitare i luoghi circostanti e ottenere qualche risposta superando le barriere di diffidenza degli abitanti del posto.
Secondo un trafiletto ritagliato da un numero del Daily Post era stata una scoperta del tutto casuale: ossa umane, con qualche lembo di stoffa attaccato, erano state ritrovate da un gruppo di speleologi irlandesi impegnati nell’esplorazione di un pozzo naturale nelle vicinanze della grotta. Strano – commentava il giornalista – che, pur risalendo i resti a decine di anni prima, nessuno li avesse mai trovati. Quel luogo era infatti il punto di partenza per diverse escursioni.
Dalla finestra il vento portava il richiamo degli uccelli. Mi ricordai che non avevo telefonato a mia madre.
Presi il cellulare e composi il numero.
«Mamma?»
«Sarah tesoro, ero in pensiero. Hai mangiato?» mi guardai il polso, era l’ora di cena, tagliai corto. «Grazie per Elvis mamma, ricordati di abbassare la suoneria del telefono altrimenti si spaventa quando ti chiamo.»
«Non morirà di fame con quel poco cibo che gli dai? Dall’ultima volta non è cresciuto per niente.»
«Mamma, ti ho già detto che è un coniglio nano. Più di tanto non cresce. E non ti dimenticare di cambiargli l’acqua. Scusami, ora è tardi, è meglio che vada.»
Mi sforzavo di non essere sgarbata con lei, ma ogni volta che mi allontanavo da casa per lavoro la sua ansia diventava palpabile. Mi ero fatta in quattro per guadagnarmi quel contratto da giornalista freelance e non avevo nessuna voglia di rinunciarci per le preoccupazioni di una madre in preda a continui esaurimenti. Mi ero preparata per anni a sua insaputa, contravvenendo a tutti i suoi divieti. Da bambina fingevo di essere una piccola detective e cercavo di carpire alle mie compagne di classe segreti che nemmeno loro conoscevano. Le interrogavo di continuo, velatamente, con la speranza che si lasciassero sfuggire particolari a cui non attribuivano valore. Una volta raccolti, cercavo di mettere in ordine tutti gli elementi procedendo per gradi e individuavo l’anello mancante della catena. Avevo poi passato la mia adolescenza a leggere romanzi intrisi di violenza, scene rivoltanti, delitti. Mi ero innamorata di personaggi mossi da ragioni morbose e da stravaganti perversioni. Ogni dettaglio diventava, per me, un particolare vitale per la soluzione di un caso. E alla fine, era inevitabile, mi ero lasciata trasportare dalla passione per la cronaca nera e per i casi irrisolti, nei confronti dei quali mi sentivo come una falena attratta da un’irresistibile fonte di luce.
Verso l’ora di cena mi spazzolai i capelli e mi diressi verso la reception. Un suono squillante accompagnava l’apertura della porta in stile saloon che collegava l’ingresso della pensione a una piccola taverna con terrazza. Alcuni ospiti parlavano a bassa voce con lo sguardo perduto verso il mare. Mi sedetti a un tavolo vicino alla finestra, scendeva la sera e si accendevano le luci della città in lontananza.