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Il Predestinato
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E-book395 pagine5 ore

Il Predestinato

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Info su questo ebook

Dopo il successo di "Ti odio da morire", ecco l'atteso ritorno di Alessandro Nardone con "Il Predestinato", il cui protagonista è Alex Anderson, giovane membro del Congresso degli Stati Uniti, che diventa l’obiettivo numero uno di Chuck Dillinger, ex agente della Cia assurto agli onori delle cronache per aver divulgato decine di documenti top secret e particolari scottanti riguardo all’attività della National Security Agency.

Una storia avvincente oltre ogni aspettativa, che vi soprenderà, vi prenderà per mano e vi trascinerà via con sé fino a quando non avrete scoperto il terribile segreto che si nasconde dietro alla misteriosa Maggie Jones.

Il nostro viaggio insieme ad Alex, Veronica e Matt sta per cominciare. E voi, siete pronti a salvare il Mondo?

www.ilpredestinato.it
LinguaItaliano
Data di uscita19 giu 2014
ISBN9788891145932
Il Predestinato

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    Anteprima del libro

    Il Predestinato - Alessandro Nardone

    Titolo | Il Predestinato

    Autore | Alessandro Nardone

    ISBN | 9788891145932

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma, 73 – 73039 Tricase (LE) – Italy

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    A Irene e Vittoria Amelia

    Quando gli elefanti combattono

    è sempre l’erba a rimanere schiacciata.

    Proverbio Africano

    Prefazione

    Dovreste vedere la mia scrivania: è letteralmente invasa da libri, ritagli di giornale, documenti, mappe e fotografie stampate al computer. Tutto in rigoroso ordine sparso, of course.

    Avete presente gli uffici degli agenti della Cia o dell’Fbi mentre stanno lavorando ad un caso? Li avrete certamente visti in decine di film. Ecco, con buona pace di Irene, la mia stanza li ricorda molto da vicino. Si tratta del materiale che ho utilizzato per dare vita al libro che avete tra le mani e che, voltata questa pagina, vi catapulterà dritti dritti in California, a Los Angeles.

    Ma veniamo a noi. Nei mesi scorsi vi sarà senz’altro capitato di leggere e sentire dello scandalo che la stampa italiana ha ribattezzato con il nome Datagate, dal quale emerge una realtà tanto scontata quanto inquietante: siamo, di fatto, tutti intercettati. Conversazioni telefoniche, e-mail, social networks, fa poca differenza. La National Security Agency ha il potere di sapere tutto di tutti, capi di stato compresi.

    Quanto c’è di vero nelle rivelazioni di Snowden e Assange? Qual è il confine tra giusto e sbagliato, quando c’è in ballo la sicurezza nazionale? La nostra privacy, ovvero una parte sostanziale della nostra libertà individuale, è sacrificabile sull’altare del concetto teoricamente più alto (ma anche più astratto) di libertà generale? Che ruolo hanno, in tutto questo, le potentissime lobbies che, nelle tesi di qualcuno, tirano i fili del potere?

    Ebbene, nulla di quanto ho scritto ne Il Predestinato risponderà a queste domande ché, poi, altro non sono che i quesiti sui quali ancora oggi io stesso continuo ad interrogarmi. Come dicevo all’inizio - pur contenendo alcuni nomi reali - questo libro non è che un viaggio puramente fantastico e quindi, come scritto da un certo Stephen King nella postfazione del suo 22/11/63, «solo un’interessante simulazione» sbocciata nella mia mente durante una conversazione avvenuta in circostanze del tutto casuali, a bordo di un treno diretto a Zurigo.

    A confidarsi con me fu la donna che mi stava seduta affianco e che, guarda caso, attaccò bottone proprio mentre leggevo un articolo riguardante le rivelazioni di Snowden. Tra le tante che mi raccontò in quelle tre ore, la cosa che mi colpì maggiormente se ne stava racchiusa nell’ultima frase che pronunciò poco prima che ci salutassimo.

    «Se lo lasci dire da una che al progetto Prism lavora da anni: molto di quanto scrivono i giornali corrisponde al vero. Io stessa trovo che non tutto sia giusto ma, in questo caso, l’ingiusto è un male necessario.».

    Mettetevi nei miei panni. Una rivelazione sconcertante come quella, non vi avrebbe incuriosito? Beh, a me sì, ed anche parecchio, al punto che mi azzardai a chiederle di lasciarmi il nome, una mail, un numero di cellulare o se l’avrei trovata su Facebook.

    Niente da fare.

    Quando scese dal treno me ne rimasi per qualche secondo accanto al finestrino, ad osservarla mentre passava sotto di me, a passo spedito. Una manciata di passi e si voltò, dandomi l’impressione che fosse in cerca della conferma che la stessi seguendo con lo sguardo.

    Doveva sentirsi i miei occhi addosso, pensai.

    Quel suo rifiuto mi lasciò l’amaro in bocca. Dannazione, ero curioso, volevo sapere. Afferrai il mio zaino, accorgendomi che sul sedile c’era un vecchio taccuino. Strabuzzai gli occhi. Era suo, non avevo dubbi. Lasciai cadere lo zaino e presi subito a sfogliarlo.

    Su quei fogli scritti a mano si parlava di una bambina sfuggita ad un attentato e di una giovane agente addestrata in segreto, in Inghilterra. Poi, molte pagine strappate. Infine, con grafia confusa, più larga e incerta.

    La Svizzera mi piace... il mio nuovo nome no.

    Ma ne ho cambiati tanti...

    L’importante è che LORO non mi scoprano.

    Per questo, d'ora in poi, userò solo una matita!

    Incipit

    C’è chi passa la vita ad inseguire i propri sogni, e chi fa di tutto per scacciarli, per fuggire da loro. Ma andiamo con ordine. Adoro i gabbiani. Ricordo che da piccolo passavo ore ed ore ad osservarli, giù al molo di San Pedro.

    Adoravo perdermi nelle loro traiettorie, e mi sembrava di cogliere il senso delle loro grida, al punto da riuscire a distinguerle, a seconda del momento della giornata. Ad esempio, verso sera, quando le luci del tramonto coloravano l’oceano di un rosso sfavillante, loro amavano rincorrersi e sfidarsi a chi riuscisse a compiere le evoluzioni più temerarie, esattamente come facevamo noi bambini in sella alle nostre Bmx. Passavamo giornate intere a scorrazzare su e giù per il porto, ci divertivamo come matti, io e Matt. Stavamo sempre insieme, dalla mattina alla sera. Ogni tanto, però, sentivo il bisogno di starmene un po’ per i fatti miei, e me ne andavo su una panchina del Fish Market, ad osservare i miei amici gabbiani. Sue, la cameriera del locale, trovava sempre cinque minuti per portarmi qualche marshmallow e starsene lì con me, a raccontarmi le storie di quando era piccola, e passava le giornate in barca con suo padre, che faceva il pescatore. Mi diceva sempre che le sarebbe piaciuto trovare un ragazzo della sua età a cui piacesse starsene lì sul molo, a godersi quello spettacolo insieme a lei, ma che erano tutti bacati e quindi preferiva starsene da sola. Adoravo passare quel momento della giornata insieme a lei, anche se i miei amici mi prendevano in giro e dicevano che era roba da femminucce, starsene lì a guardare il tramonto ed i gabbiani.

    Già allora me ne fregavo, di quello che dicevano gli altri, anche se erano i miei amici per la pelle. Anzi, siccome gli volevo bene, mi auguravo per loro che un giorno avrebbero capito quanto sia importante riuscire a cogliere la bellezza e l’importanza di alcuni, semplici, momenti della nostra vita. Poi venne quello stramaledetto giorno, quando mia madre mi disse che nel giro di qualche settimana avremmo lasciato la California, perché papà aveva ricevuto, direttamente dal Presidente Reagan, un importante incarico nel consolato americano in Italia. «Alex, in Europa staremo benissimo, Roma, poi, è una città fantastica, ti piacerà. Vedrai, ti farai un sacco di nuovi amici».

    Non trovai la forza per piangere e nemmeno quella per risponderle, niente di niente. L’unica cosa che, d’istinto, riuscii a fare, fu quella di saltare in sella alla mia bicicletta e di andarmene giù al porto.

    Me ne stavo rannicchiato su una panchina, con le braccia attorno alle ginocchia, e non volevo saperne di niente e di nessuno. Mentre guardavo i gabbiani provavo un immenso senso di nostalgia, come se quei posti, quegli odori e quei colori non mi appartenessero già più, mi sentivo fuori luogo, anche se quella era ancora casa mia. Poi pensavo ai miei amici, alla scuola, ed a quei tramonti passati insieme a Sue. Tutto finito. No, non era giusto. Ad un certo punto mi sentii toccare sulla spalla, girandomi speravo di trovare Sue, invece era la piccola Maggie, la figlia dei nostri vicini di casa, che aveva un anno in meno di me. Non avevamo mai parlato tanto, io e lei, però ci sorridevamo spesso, ogni volta che ci vedevamo.

    Era strano. Anche quella volta non mi disse niente, si mise a sedere di fianco a me, e mi prese per mano.

    Restammo a guardare il tramonto ed i gabbiani, in silenzio, insieme.

    Era il 10 ottobre del 1986.

    1

    11 Settembre

    Se dovessi camminare in una valle oscura,

    non temerei alcun male, perché tu sei con me.

    Salmo 23

    New York, 11 settembre 2001

    "…adesso ascoltiamo in diretta l’appello del Sindaco di New York, Rudolph Giuliani: allontanatevi dal distretto finanziario a sud di Manhattan, dirigetevi verso nord…"

    Dannazione, ma che ore sono? Avevo la sensazione di essermi addormentato da appena cinque minuti, com’era possibile che la radiosveglia fosse già accesa? In camera, poi, era buio pesto. Non ricordavo nemmeno a che ora fossi rientrato, sapevo soltanto che la serata allo Yale Club era stata davvero pesante, per via di quel vino italiano che avevo portato ai miei ex compagni di università. Eccellente a tal punto da non renderti conto, mentre lo bevi, di quanto sia forte. Così, una volta arrivato a casa, prima di buttarmi a letto, tolsi la suoneria al telefono ed abbassai le tapparelle di tutte le finestre, fino in fondo.

    Di solito non lo facevo mai, mi è sempre piaciuto svegliarmi di buon mattino, ma quel giorno non avevo particolari impegni, quindi puntai la sveglia piuttosto tardi, qualche minuto dopo le undici. Me la sarei presa con calma, insomma. Doccia veloce, giornali, e poi passeggiata a piedi fino al Landmark Coffee Shop, sulla centocinquattottesima, dove mi sarei gustato in santa pace il miglior pancake di tutta Manhattan.

    Dopo essermi stropicciato per l’ennesima volta gli occhi, decisi di alzarmi dal letto, per controllare che ore fossero. Ero ancora intorpidito dal sonno, e percepivo le parole che uscivano dalla radio come un semplice brusio di sottofondo. Mi trascinai in bagno, e m’infilai subito sotto la doccia. L’acqua tiepida che mi scorreva addosso aveva un non so che di miracoloso, riuscendo a coccolarmi ed a svegliarmi al tempo stesso.

    Sarei rimasto lì molto più a lungo, se non fosse stato per il mio stomaco, che aveva cominciato a brontolare con sempre maggiore insistenza, e per la voglia matta di quel pancake con burro e sciroppo che non mangiavo da mesi. Una vera e propria bomba calorica, ma chissenefrega, ogni tanto si può fare, pensai. Dopo essermi asciugato tornai in camera, accesi la luce e, prima di cominciare a vestirmi, presi il telefonino, che era in carica, sul comodino di fianco al letto.

    Dodici chiamate senza risposta.

    Ma che diavolo era successo? Una volta entrato nell’elenco delle chiamate vidi che, di queste, quattro erano di mia madre, sei arrivavano dall’ufficio di mio padre, una di Matt e l’altra da un numero che non avevo in rubrica. Lì per lì pensai che qualcuno si fosse sentito male, e tentai immediatamente di richiamare, ma il telefonino mi diceva che la rete era assente e che era possibile effettuare soltanto chiamate d’emergenza. Provai a spegnerlo e riaccenderlo, controllai che la sim fosse inserita bene, ma non c’era niente da fare, quel maledetto telefono non ne voleva sapere di andare. Le mani cominciarono a sudarmi. Andai verso la finestra e, mentre alzavo nervosamente la tapparella, d’istinto, cominciai ad ascoltare le voci concitate che provenivano dalla radio. In quel momento capii tutto.

    "… entrambe le Torri del World Trade Center sono crollate, Manhattan è nel caos, ed anche il Pentagono è sotto attacco. La Casa Bianca è stata evacuata. Ripetiamo che il sindaco Giuliani ha invitato la cittadinanza ad allontanarsi da…"

    Afferrai il telecomando della televisione, premetti l’uno, e mi trovai di fronte a quella sequenza di immagini agghiaccianti, che riprendevano una colonna di fumo uscire dal fianco della Torre Nord e, un istante dopo, un aereo che andava a schiantarsi contro la Torre Sud, immediatamente avvolta dalle fiamme.

    L’urlo di una giornalista fuori campo, la scritta a caratteri cubitali America under attack, esseri umani che pur di non essere divorati dalle fiamme si gettavano nel vuoto. Magari – pensavo in quei momenti di panico e follia – quelle persone amavano i gabbiani, esattamente come li amo io e forse, in quegli attimi disperati in cui si sentivano irrimediabilmente braccati da morte e distruzione, devono aver implorato Iddio di trasformarli in gabbiani, salvandoli da un destino troppo atroce e crudele per essere vero. Poi il crollo, prima della Torre Sud e poi della Torre Nord. In loop. Non ho parole, diceva il commentatore della Cnn. Beh, non riuscivo a trovarle nemmeno io, ero impietrito, inebetito, immobile. Inconsciamente, tra la miriade di pensieri che mi attraversavano la testa come la lama affilatissima di una katana, speravo di trovarmi nel bel mezzo di un brutto sogno, o davanti al trailer del sequel di Independence Day. Insomma, mi rifiutavo accettare quanto stava accadendo.

    Tutt’a un tratto, tornai in me. Mi vestii infilandomi in fretta e furia la stessa camicia e gli stessi pantaloni che avevo indosso la sera prima, presi il portafogli, il telefonino ed uscii di casa. Volevo assolutamente vedere con i miei occhi cosa stava succedendo. Il mio appartamento era sulla Broadway, all’altezza della Stazione di Lafayette, e generalmente, a piedi, mi bastava poco più di mezz’ora per raggiungere la zona di Lower Manhattan, dove si trovava il World Trade Center.

    Una volta varcata la soglia del portone, mi trovai proiettato in uno scenario surreale. Innanzitutto il silenzio. Già, perché nel bel mezzo di quello che sembrava possedere tutti i connotati dell’attacco terroristico più sconvolgente della storia moderna, ci si aspetterebbero urla e caos. Invece no. C’era una moltitudine di gente intenta ad allontanarsi il più possibile dalla zona degli attentati, avvolta da un silenzio che oserei definire irreale, quasi tombale, extraterreno. Sembravano tutti venirmi incontro, perché ero una delle pochissime persone che camminava verso sud. Alcuni tentavano, tanto nervosamente quanto inutilmente, di telefonare o anche solo d’inviare un sms, altri erano completamente coperti di polvere bianca, altri ancora rinunciavano a camminare e si sedevano ai bordi della strada, in molti casi scoppiando in lacrime. Ad un certo punto, una ragazza mi si gettò tra le braccia, supplicandomi di farle provare a chiamare il suo ragazzo con il mio telefonino, perché il suo non funzionava. Piangeva a dirotto, e non me la sentii di dirle di no, di negarle quella speranza, anche se sapevo che solo un miracolo, avrebbe fatto partire quella telefonata.

    Mentre componeva il numero mi disse che il suo fidanzato lavorava in una delle due torri, ma che era sicura che fosse riuscito a mettersi in salvo prima del crollo. Preso atto che nemmeno dal mio cellulare fosse possibile telefonare, mi ringraziò sussurrandomi «Si è salvato, vero?», io le appoggiai una mano sulla spalla destra e, sforzandomi di essere credibile, tentai di rassicurarla rispondendole con un sì.

    Giusto il tempo di alzare lo sguardo, lo spazio di due o tre passi, e mi resi conto che da quel punto in poi, l’asfalto era completamente coperto da uno strato di polvere bianca, e che sulla mia camicia azzurra cadevano quelli che a prima vista potevano sembrare coriandoli, ma che altro non erano che brandelli di carta bruciata, proprio come l’aria che stavo respirando.

    Improvvisamente venni urtato violentemente all’altezza delle gambe dal carrello della spesa di un clochard di colore vestito di una pesante giacca a vento color verde militare che, guardandomi dritto negli occhi, mi disse: «Hey ragazzo, dove pensi di andare? c’è l’inferno laggiù! Gesù Cristo si sta vendicando, questo è il Giorno del Giudizio ragazzo, il Giorno del Giudizio!».

    Accennai uno scatto, riuscendo a togliermelo di torno e, voltandomi, vidi che quel tizio tentava di fermare chiunque camminasse nella direzione opposta alla sua. Gli angoli delle strade erano presidiati da militari dell’esercito, che distribuivano bottigliette alcune d’acqua ai passanti, invitandoli ad andare verso nord, ma io riuscii a proseguire ancora.

    Il cielo era scuro, sembrava che quella coltre bianca l’avesse inghiottito, lasciando appena intravvedere un sole talmente pallido da non riuscire nemmeno a proiettare le nostre ombre. Ad ogni passo ci lasciavamo dietro le nostre orme, lo strato di polvere che si era depositato per terra era diventato alto almeno un paio di centimetri, dando l’impressione di camminare sulla sabbia. Avevo completamente perso la cognizione del tempo e dello spazio. Ma qualcosa mi diceva che dovevo spingermi il più in là possibile, che i miei occhi dovevano vedere.

    Nel frattempo continuavo a pensare ai miei genitori, che sicuramente stavano vivendo ore di panico, visto che non erano riusciti a sentirmi, e mi auguravo che a Los Angeles e Roma, dove stavano loro, non fosse successo nulla di simile a quanto stava accadendo a New York, ero terribilmente preoccupato. D’altra parte erano ore, ormai, che non avevo notizie. Cercavo di concentrarmi e fare mente locale, per ricordarmi se qualcuno dei miei amici si trovasse all’interno delle Twin Towers. Ma non ci riuscivo.

    Guardandomi intorno, vedevo capannelli di gente ferma a pregare, negozi e bar vuoti, macchine abbandonate in mezzo alla strada, ed un istante dopo focalizzavo l’immagine della sera prima, quando quelle stesse strade erano illuminate e piene di gente. Sembravano passati secoli, invece era trascorsa soltanto qualche ora.

    Giunto a Wall Street venni fermato, insieme ad un gruppo di presone che procedevano, come me, verso sud, da alcuni militari: «Da qui è tutto bloccato, è zona di guerra». Molte delle persone che mi stavano vicine, cominciarono ad obiettare che dovevano andare al World Trade Center a soccorrere i loro familiari che si trovavano lì, che li dovevano assolutamente cercare, ma i soldati furono inflessibili: «Ci dispiace, ma sta crollando tutto, mettereste a repentaglio la vostra vita». In quegli istanti capii, per la prima volta nella mia breve esistenza, che volto avesse la disperazione. La potevo vedere, scolpita nelle facce e negli occhi di quelle donne e di quegli uomini distrutti dal dolore, che intendevano sfidare la morte per tenere vivo anche soltanto un briciolo di speranza. Il marito, la moglie, il figlio, l’amico, il genitore. Ognuno di loro aveva un pezzo della sua vita al di là di quel blocco, in mezzo al più enorme mucchio di detriti che il mondo abbia mai conosciuto, ognuno di loro voleva soltanto andare lì, a scavare tra quelle macerie ancora fumanti, sperando di sentire in lontananza la voce del proprio caro ancora in vita. Ero attonito, di fronte a tanto dolore. Improvvisamente, quando gli animi di qualcuno cominciavano a surriscaldarsi, sentii un telefono squillare. Era il mio.

    Infilai immediatamente la mano nella tasca dei pantaloni e, sul display, vidi che era lo stesso numero da cui avevano tentato di chiamarmi qualche ora prima, quello che non avevo in rubrica. Chi poteva essere? Pigiai il tasto verde e risposi:

    «Pronto!»

    «Alex, grazie a Dio sei vivo! Sono io, Maggie.»

    «Maggie? Ma come… sono anni che non ci sentiamo, come hai fatto ad avere questo numero? Dove sei?», le domandai.

    «Adesso non importa, volevo solo assicurarmi che non ti fosse successo nulla. Pensa a metterti al sicuro, ci sentiamo nei prossimi giorni.», tagliò corto lei.

    «Maggie, aspetta!», esclamai.

    Non feci in tempo a rendermi conto di quanto fosse appena accaduto, che un uomo di mezza età cominciò a chiedermi con educazione, ma anche con una certa insistenza, di fargli usare il mio telefonino. In quello stesso istante, una donna mi urtò accidentalmente, facendomi perdere, per un attimo, l’equilibrio. Riuscii a rimanere in piedi, ma il telefonino mi scivolò via dalle mani, cadendo tra i piedi di tutta quella gente che se ne stava lì, nella speranza di riuscire a passare.

    L’uomo e la donna si resero immediatamente conto di quanto accaduto, scusandosi per la loro irruenza e chinandosi immediatamente insieme a me per aiutarmi a cercare il telefonino. Impresa disperata. Quella dannata polvere bianca continuava ad entrarmi negli occhi e, a malapena, riuscivo a vedere i piedi delle persone che mi stavano intorno. Come se non bastasse, i militari chiesero a tutti di fare qualche passo indietro portandoci, di fatto, ben più in la rispetto al punto in cui il telefono era caduto. Cazzo, proprio adesso! Esclamai tra me e me. Intanto, l’uomo e la donna che, involontariamente, avevano fatto sì che perdessi l’unico mezzo con cui potevo sperare di mettermi in contatto con il resto del Mondo, continuavano ad implorarmi di perdonarli.

    D’altra parte, come potevo biasimarli? Lo squillo di quel telefono, per un attimo, aveva riacceso anche le loro, di speranze. Così li abbracciai entrambi, li pregai di non scusarsi più, e tentai di confrontarli dicendo che avrebbero ritrovato i loro cari.

    Preso dallo sconforto e dalla consapevolezza che, tanto, non avrei potuto raggiungere il World Trade Center, decisi d’incamminarmi verso casa dove, almeno, avrei potuto tentare di collegarmi ad internet. Mentre percorrevo a ritroso quel percorso apocalittico, per qualche minuto non feci altro che pensare alla telefonata della piccola Maggie. Erano trascorsi moltissimi anni, ormai, dall’ultima volta che ci eravamo sentiti.

    Ricordo che telefonò a Roma per farmi gli auguri di compleanno, poi più nulla, fino ad oggi. L’ultima sua immagine che avevo in mente, poi, era quella del giorno in cui lasciammo Los Angeles per trasferirci in Italia. Erano passati quindici anni, non sapevo nemmeno più che aspetto avesse, dove vivesse o cosa facesse, eppure, in un certo qual modo, ho sempre avvertito la sua presenza, molto più della maggior parte delle persone con cui avevo a che fare tutti i giorni. Pazzesco, davvero pazzesco, pensavo.

    Dopo un lasso di tempo indefinito, tornai con i piedi per terra realizzando che avevo perso il mio cellulare e, con esso, anche il suo numero di telefono. Come avrei fatto a ritrovarla? Avrei avuto tutto il tempo per pensarci. Una volta arrivato davanti alla porta del mio appartamento tirai un sospiro di sollievo, ero al sicuro ma, al tempo stesso, se pensavo al terrore che serpeggiava per le strade della città, provavo un forte senso di colpa, mi sentivo un privilegiato. La televisione, che avevo lasciato accesa, continuava a trasmettere le immagini di quel disastro sconvolgente, alternandole con alcune riprese effettuate per le strade di Manhattan, tra quella moltitudine disperata e silenziosa di cui, fino a qualche minuto prima, anch’io facevo parte. Avevo un grandissimo desiderio d’infilarmi sotto la doccia, per levarmi di dosso quella tremenda mistura di sudore polvere bianca, ma prima dovevo tentare di contattare i miei. Così, andai alla scrivania ed accesi il mio computer, che non mi era mai sembrato così lento. Una volta entrato in Windows, accesi il modem e tentai di connettermi, anche se in televisione avevano appena detto che accedere alla rete era molto difficile. Andiamo, dai, connettiti! Socchiusi per un attimo gli occhi e, appena li riaprii, vidi che il computer era connesso. Sì! Senza esitare nemmeno un istante, con il timore che la connessione potesse abbandonarmi da un momento all’altro, aprii subito Outlook e scrissi una mail a mamma e papà, in cui gli dicevo che stavo bene e che, purtroppo, avevo perso il telefonino, ma che li avrei chiamati io in serata. Poi ne mandai una alla mailing list di cui facevano parte amici ed ex compagni dell’università, una settantina di contatti in tutto:

    Per prima cosa intendo dirvi che sto bene, almeno dal punto di vista fisico. Per il resto mi sento distrutto. Sono appena rientrato a casa, ho tentato di raggiungere il WTC a piedi, ma non ce l’ho fatta. Quello che ho visto oggi lo ricorderò per il resto dei miei giorni: la disperazione che ho letto negli occhi di tutta quella gente, delle persone che mi hanno fermato per strada implorandomi di aiutarle a trovare i loro cari. No, una simile tragedia non si può spiegare. Non esistono parole per descrivere l’odore della morte, quello che ho respirato per le strade di New York e che ora mi sento appiccicato addosso. L’inferno è qui, oggi. Beh, mi auguro con tutto il cuore che i bastardi che hanno fatto questo alla nostra gente ed alla nostra Nazione, possano vivere ogni minuto della loro rivoltante esistenza nella consapevolezza di essere dei morti che camminano. Dovranno sentirsi braccati e pagare, pagare caro.

    Scusatemi per questo mio sfogo, ma è tutto troppo forte, oggi.

    Rispondetemi subito, vi voglio bene.

    Dopo essermi fatto la doccia, mi concessi una mezz’ora per ascoltare i primi commenti alla Cnn, e poi uscii per strada. Alla televisione avevo sentito che, a pochi metri da casa mia, era stato allestito uno dei punti di raccolta dove era possibile donare il sangue. Mi accodai a quella lunghissima coda formata da gente che, come me, intendeva dare il suo piccolo aiuto alle decine di migliaia di feriti che ne avevano bisogno.

    Eravamo tutti storditi ed impauriti, certo, ma stavamo ancora in piedi.

    2

    In prima persona

    Dov'è la libertà, lì è il mio Paese.

    Benjamin Franklin

    Università di Yale

    New Heaven

    15 agosto 2004

    «Avanti, Alex, sei davvero convinto che la tua generazione sia migliore della mia? Mi spiace contraddirti, ma io vedo solo tanto disinteresse e troppa disillusione, di ideali, quelli veri intendo, ben pochi». Quello che avevo di fronte era il professor Swenson, con cui ero rimasto in contatto anche una volta terminati gli studi. Era una delle poche persone con cui mi piaceva confrontarmi, non tanto perché, in fondo, condividevamo le stesse idee, ma per la sua innata capacità di tirare fuori il meglio di me, regalandomi spunti di riflessione sempre nuovi. Quando stavo a New York andavo spesso a trovarlo in ufficio, ed i nostri scambi d’opinione potevano durare cinque minuti come cinque ore. Negli ultimi anni mi ero avvicinato alla politica attiva, frequentando gli Young Guns del Gop ed organizzando qualche evento per i Tea Party, ma si trattava di un impegno in fase embrionale e, per questo, assai superficiale.

    Non che intendessi sfuggire agli oneri di quella che ritenevo la mia grande passione ma, mi dicevo, mi ci sarei gettato con anima e cuore solo una volta che avessi trovato le condizioni giuste per fare realmente qualcosa di buono per la collettività. Non avevo mai fatto nulla tanto per farla, nemmeno le cose più banali. In questo avevo preso da Ron, mio padre. Ricordo ancora quando, la sera, tentava di farmi capire la matematica e, attraverso essa, il principio per il quale il risultato finale dipende anche e soprattutto dalle operazioni più elementari. Il problema è che oggi tendiamo a dare troppe cose per scontate tralasciando, spesso e volentieri, quelle operazioni elementari in luogo di cose a cui attribuiamo maggiore importanza. Errore fatale: nella massa è il dettaglio, a fare la differenza. Con il passare degli anni, andava via via rafforzandosi, in me, la convinzione che gran parte dei mali del nostro tempo, fossero addebitabili anche e soprattutto al pressappochismo di chi aveva avuto la responsabilità di governare il Mondo fino ad allora, compromettendo seriamente benessere e libertà in ragione di potere e controllo. Così, quella mattina, decisi di far visita al professor Swenson per comprendere se anche lui, che pure veniva da una generazione precedente alla mia, condividesse quel mio sentimento di frustrazione. Volevo capire. «Gli ideali si devono anche trasmettere! Trovo che sia troppo comodo puntare il dito contro le nuove generazioni, mentre tutto va a rotoli. Oggi, invece, politici come Kerry tentano di fare propaganda anche sui morti dell’11 settembre. Sarebbero questi gli ideali veri a cui si riferisce, professore?». Swenson tacque per un istante, che impiegò per riposizionare i suoi occhiali, spingendoli indietro con l’indice.

    «Ecco Alex, è proprio questo il punto. Davvero credi che di fronte a certi atteggiamenti sia sufficiente indignarsi? Cos’è che ti spinge ad essere tanto supponente da pensare che voi siate migliori degli altri, e che quindi non dobbiate giocarvi la partita insieme a loro?», mi domandò lui.

    «Okay, ma non basta, Peter! Si guardi intorno, Roma brucia, e noi, sia pur lentamente, ci stiamo nuovamente dividendo. Qui non si tratta soltanto di vincere una guerra contro un nemico di cui sappiamo poco o nulla, la posta in palio è terribilmente più alta…», risposi io, infervorandomi.

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