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Il Manoscritto Scarlatto
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E-book514 pagine6 ore

Il Manoscritto Scarlatto

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Info su questo ebook

Fiamma non è una ragazza come le altre, in lei è racchiuso il potere di richiamare gli spiriti: è una medium ed una strega. Cresciuta con questa caratteristica e aiutata da nonna Emma, anch’essa strega di campagna, Fiamma dovrà superare vari ostacoli tra cui il suo stesso dono. Decisa a controllare la propria vita, entra in contatto con l’Ordine di Mag Mell: un antichissima congregazione che raccoglie in tutto il mondo giovani con poteri magici e doni particolari come il suo. Dopo un lungo periodo di formazione presso l’Ordine, Fiamma viene mandata a Verona, nella sua città natale. Il suo potere è di fondamentale importanza per la riuscita della missione di salvataggio dell’Eletta appartenente all’Ordine di Salomone. Un’antica setta che costudisce e protegge da millenni le conoscenze magiche di Re Salomone, racchiuse nel suo scritto: la famosa Clavicola Salomonis.

Ma ad attenderla c’è una realtà che supera ogni sua aspettativa e segreti che non immaginava di incontrare. Tra nuove amicizie e creature paranormali, Fiamma dovrà superare innumerevoli ostacoli e sofferenza, alla ricerca della luce necessaria per sovrastare le tenebre che incombono. In gioco non c’è solo la sua vita ma anche il suo cuore e presto sarà costretta a prendere una scelta radicale che cambierà per sempre il suo destino.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2014
ISBN9786050339758
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    Anteprima del libro

    Il Manoscritto Scarlatto - Cristina Benedetti

    utilizzo. 

    Cap. 1 Il viaggio dei ricordi

    Era una giornata davvero deprimente per fare un lungo viaggio; se in più comportava l’abbandono di persone, amici, realtà conosciute, per approdare in un luogo dove tutti erano tasselli ignoti nella mia mente, ovviamente avrei preferito il sole anziché il diluvio universale.

    Da un’ora la pioggia cadeva così fitta che l’autista aveva dovuto rallentare per non sbagliare l’uscita dell’autostrada. Fuori dal finestrino si vedeva poco o nulla, il paesaggio era grigio e triste.

    Pensare che a Firenze ieri c’era il sole, mentre qui acqua a catinelle.

    Non aveva importanza, dovevo smetterla di deprimermi in quel modo, in fin dei conti stavo tornando nella mia città natale: Verona.

    Avevo molti ricordi della mia infanzia e successivamente della mia adolescenza, ma era meglio non soffermarsi su quest’ultima sezione della mia vita, visto che era stata proprio quella a farmi fuggire lontano.

    La maggior parte della gente che diceva di conoscermi pensò che a portarmi lontano fosse stata una delusione d’amore.

    Non si rendevano conto di quanto la verità fosse in realtà lontanissima dai loro pettegolezzi.

    Ero andata via per dimenticare qualcosa che mi apparteneva, per cercare di eliminare per sempre un potere insito nella parte più profonda di me stessa, ma fu tutto inutile. Il mio dono è ancora qui, dentro di me, non mi abbandona mai e, ora, mai lo abbandonerei.

    «Dove siamo più o meno? Con questa pioggia non riesco proprio a orientarmi!» chiesi ansiosa.

    «Dovremmo essere vicini all’uscita di Verona Nord, non manca molto».

    «Ok… grazie!».

    Mi riaccoccolai sul sedile dell’auto.

    Strano come quel tempo facesse riemergere ricordi, momenti del passato, emozioni sopite.

    Forse non era il tempo, forse ero io a essere particolarmente malinconica e quindi la mia mente prendeva il largo.

    Non posso dire che gli anni trascorsi a Verona furono anni brutti, li avevo trascorsi vivendo sempre con nonna Emma. I miei genitori, Silvia e Massimo, erano archeologi specializzati nell’antico Egitto, sempre in viaggio alla scoperta di nuovi tesori.

    Si conobbero all’università e non capii mai se a unirli fosse stato l’amore o la passione per la storia.

    Sta di fatto che si sposarono e dalla loro felice unione nacqui io.

    Nonna Emma mi raccontò che mia madre cercò di sottrarsi alla sua passione per qualche anno, finché non resistette più e ripartì per nuove avventure.

    Avevo solo tre anni quando venni lasciata con la nonna e fu traumatico. Non capivo perché mia madre non mi volesse o perché non potessi andare con loro in quei paesi esotici di cui parlavano continuamente.

    Con il tempo accettai la situazione e i miei genitori divennero figure lontane ed estranee; ovviamente non mi fecero mai mancare nulla, ma rimasero sempre ai margini della mia vita.

    Fui comunque una bambina felice, trascorrevo le mie giornate all’aria aperta e a leggere libri. Nonna Emma viveva in una vecchia casa di campagna in mezzo ai campi della Valpolicella. L’abitazione era grande e fresca, con grossi muri in pietra e finestre alte che illuminavano le stanze fino a sera, tutto profumava di lavanda e sulla stufa c’era sempre qualcosa di buono e caldo.

    Attorno alla casa c’era un grande giardino, ricco di fiori e piante aromatiche, un bell’orto, una piccola stalla, un pollaio e tanti animali: oche, anatre, galline, conigli e un paio di maialini.

    Dopo il primo traumatico periodo di distacco, la nonna riuscì a riempire senza problemi le mie giornate.

    La sveglia per me suonava alle 7, trovavo sempre latte caldo e una torta appena sfornata ad aspettarmi, poi via in stalla a dare da mangiare a tutte le bestiole, a curare l’orto e le piante con la nonna, e a sera si prendeva la bicicletta e si andava a fare un giretto in paese, per prendere latte fresco, formaggio, frutta e qualunque cosa che mancasse nella dispensa.

    La scuola occupava il resto del mio tempo, ero abbastanza brava e mi piaceva studiare.

    Ovviamente avevo tanti momenti di gioco e le mie giornate trascorrevano rapide e felici fino a quando, all’età di tredici anni, ebbi il primo contatto.

    Non fu così terribile, anche se rimasi parecchio traumatizzata e, il ricordo si impresse saldamente nella mia mente.

    Ero seduta sugli scalini della porta della cucina, leggevo un libro e a intervalli regolari controllavo che Argo, il nostro cane, fosse sempre in zona.

    Improvvisamente un brivido mi percorse la schiena e l’aria intorno a me si fece fredda e immobile.

    Non capivo cosa stesse accadendo, era un caldo mezzogiorno di giugno, come poteva fare così freddo?

    Mi guardai intorno alla ricerca di una spiegazione, quando vidi un uomo venirmi incontro dai campi: era vecchio, sui settant’anni, con i capelli grigi e il viso abbronzato e rugoso, gli occhi erano azzurri e risplendevano di una luce bellissima, in mano teneva qualcosa.

    Il freddo aumentava in maniera notevole man mano che si avvicinava, , finché arrivò a un metro da me.

    Non disse nulla, mi guardò sorridente e con movimenti fluidi mi porse una busta.

    Mi allungai per prenderla e, nel momento in cui l’afferrai, con uno scatto velocissimo, lui mi ghermì il polso.

    Iniziò a girarmi la testa.

    La sua mano era ghiaccio bollente sulla mia pelle.

    Ricordo solo il suo sguardo e le uniche parole che mi disse «Dai la busta a Emma!», poi svenni.

    Mi risvegliai dopo qualche ora.

    Ero gelata, il freddo aveva raggiunto le ossa, il sangue, me lo sentivo ovunque e non riuscivo a scaldarmi e a smettere di tremare.

    Per giorni mi chiusi in un mutismo profondo, non piansi nemmeno quando la nonna medicò la scottatura che la mano di quell’uomo mi aveva lasciato sul braccio.

    Dopo qualche mese, ebbi un’altra visione. Quella volta però scappai in casa in preda al panico e, dopo alcuni giorni, la nonna decise di parlarmi.

    «Signorina?» chiamò l’autista.

    «Sì?» risposi sporgendomi verso lui.

    «Stiamo uscendo dall’autostrada, siamo ad Affi, vedrà che tra circa mezz’ora saremo arrivati» spiegò gentile.

    «Grazie mille».

    Il casello dell’autostrada si ergeva grande davanti a noi, dico grande perché con quell’acqua era l’unica cosa che si poteva distinguere con facilità.

    Dopo pochi minuti ci trovammo di fronte a un grande centro commerciale.

    Le insegne luminose al neon sembravano sbiadite in mezzo a tutto quel grigio; famiglie con uno o due bambini scendevano dalle auto e con l’ombrello correvano dentro i negozi, pronti a fare shopping o a comprare qualche regalo.

    Subito dopo superammo un ponte e una zona industriale, la campagna si vedeva a tratti tra una fabbrica e l’altra.

    La pioggia cadeva senza tregua rendendo il paesaggio fosco e triste.

    I miei occhi si persero nel cielo cinerino e i ricordi tornarono a riaffiorare.

    Rivedevo come fosse stato ieri una delle conversazioni più importanti della mia vita.

    La nonna stava preparando la cena. L’aria profumava di patate arrosto e carne alla griglia, spezie e dolci, nel forno un grosso strudel alle mele si stava cuocendo.

    Per me la nonna era la miglior cuoca del mondo.

    Sarei mai diventa brava come lei?

    Sdraiata sul divano e avvolta nel mio morbidissimo plaid giallo limone, stavo leggendo un libro sui Celti. Mamma e papà mi spedivano sempre tomi di storia antica per i miei compleanni: amavo leggere, ma qualche volta avrei apprezzato un gioco, un souvenir dai luoghi in cui stavano facendo gli scavi archeologici, qualcosa di speciale. Ma cosa potevo pretendere se non mi conoscevano nemmeno?

    «A cosa pensi? Hai sempre la testa tra le nuvole!».

    Nonna si preoccupava molto per me dal giorno in cui quell’uomo strano era venuto a consegnarmi la busta.

    Era come se avesse paura che io potessi smettere di parlare un’altra volta.

    Un pomeriggio avevo sentito le stesse sensazioni di freddo e mi ero precipitata in casa, ero corsa a infilarmi sotto le coperte e vi ero rimasta per metà giornata.

    «Nulla… stavo riflettendo sul perché mamma e papà mi mandano sempre libri come regalo. Non so, vogliono che diventi come loro? Perché mi dispiace deluderli, ma non ho intenzione di diventare un’archeologa e continuare a girare per il mondo!» -sbuffai bellicosa.

    Nonna Emma posò il mestolo e venne a sedersi sul divano accanto a me, sorrise e il suo viso si illuminò d’amore e comprensione.

    Era una donna graziosa e minuta, con brillanti occhi azzurro-verde, come quelli di papà e come i miei; aveva lunghi capelli biondi, ormai tendenti al grigio, che raccoglieva sempre in una crocchia sulla testa.

    Ogni sera, prima di andare a letto, scioglieva la folta chioma e la spazzolava con forza, permettendomi a volte di pettinarla.

    I suoi capelli erano morbidi e setosi, scivolavano tra le mie dita . Quando finivo, mi sedevo sulle sue ginocchia e lei spazzolava con cura i miei.

    Nonna Emma era una donna decisa, le mani piccole e forti non smettevano mai di lavorare.

    La pelle leggermente abbronzata dimostrava quanto amasse lavorare all’aria aperta.

    Le rughette che le segnavano il viso erano il segno che aveva provato emozioni forti e che la vita non era sempre stata facile.

    «Fiamma, non pensare che vogliano farti diventare una loro copia, ti vogliono bene così come sei» rispose tranquilla. «E poi se quei libri non ti piacessero non li leggeresti!»

    «Sì, lo so». Posai il libro nervosa. «Comunque non voglio andare lontano e lasciarti qui sola, senza di te sarei sola anch’io».

    Mi accarezzò il viso.

    «Prima o poi anche tu dovrai partire» sospirò malinconica. «Tornerai, ma so che il tuo viaggio sarà lungo». I suoi occhi si puntarono nei miei. «Per questo motivo ho deciso che questa sera dopo cena ti farò vedere alcune cose e, da questo momento, oltre a essere la mia adorata nipotina, sarai anche la mia nuova allieva!».

    «Allieva? E cosa mi dovresti insegnare?».

    «Ora no, dopo… dopo ti spiegherò tutto. Adesso devo finire di preparare la cena».

    Si diresse verso la stufa e ricominciò a cucinare sussurrando una dolce melodia tra le labbra.

    La cena trascorse veloce e la curiosità mi fece mangiare ancora più in fretta.

    Era tutto buonissimo e finito iniziai a sparecchiare mentre la nonna lavava i piatti.

    Quando finimmo di pulire la guardai ansiosa di conoscere quello che doveva dirmi, lei sorridendo mi prese per mano e mi portò in soffitta.

    Arrivate in cima alla scala estrasse dalla tasca del grembiule una grossa chiave di metallo dorato, la infilò nella toppa della porta e la girò più volte.

    L’uscio si aprì cigolando.

    Nonna premette l’interruttore della luce che si accese illuminando tutta la stanza di un caldo color ambra.

    La soffitta era ordinata e pulita.

    Non avevo mai avuto il permesso di salire a curiosare, ci avevo provato, ma la porta, con mio grande dispiacere, era sempre chiusa a chiave.

    La seguii emozionata.

    Un’enorme scrivania piena zeppa di libri, pergamene e candele riempiva un angolo della stanza.

    Sopra il tavolo erano state appese due grandi mensole, su cui si trovavano parecchi vasi di vetro contenenti polverine di vari colori. Ogni vaso aveva un’etichetta ed erano ordinati in ordine alfabetico: Abete, Achillea, Aglio, Agrifoglio, Alloro, Artemisia, Belladonna, Biancospino, Camomilla e tante altre.

    Di fianco alla scrivania c’era un tavolino basso e rotondo, coperto da una tovaglia decorata con simboli particolari che non avevo mai visto.

    Al centro si trovavano due candelabri: uno nero con una candela bianca e uno bianco con una candela nera.

    Inoltre c’erano un incensiere, che emanava un dolce profumo; un piattino pieno di acqua e uno pieno di terra; una bottiglietta contenente sale e una statuetta che rappresentava una donna molto robusta; un coltello con l’impugnatura bianca e un pugnale con l’impugnatura nera molto più lavorato del primo; un bastoncino della lunghezza di un mestolo da cucina intagliato e decorato con nastrini; un piccolo calderone di rame, una campanella e una scopetta.

    Non sapevo cosa fossero tutti quegli oggetti, ma avevo l’impressione che il tavolino assomigliasse a un altare.

    «Fiamma, cosa pensi?».

    Riflettei qualche minuto prima di rispondere, non volevo deludere la nonna, desideravo farle capire che comprendevo il significato di quelle cose.

    L’aria era densa di elettricità, come prima di un forte temporale e sentivo tintinnare in un angolo un acchiappasogni.

    «Penso che la soffitta mi piace» sorrisi soddisfatta. «Non so di preciso cosa fai qui, ma so che è una cosa bella».

    «Ottima risposta, ora sediamoci».

    La nonna si diresse verso un grande armadio, lo aprì, prese due cuscini morbidi e li posizionò davanti al tavolino.

    Mi sedetti in attesa.

    «Allora Fiamma, quello che sto per raccontarti non sarà facile da capire e ancora meno da accettare, ma, mi auguro con tutto il cuore, che tu ti metterai in una condizione di apertura mentale verso quello che ti verrà detto. Ok?» chiese premurosa.

    «Certo».

    Ero curiosa, volevo sapere.

    «Bene» sospirò leggermente agitata. «Possiamo cominciare. Visto che hai letto così tanti libri di storia antica, mi sai dire quale fu la prima religione a nascere sulla Terra?».

    «Sicuro. Il primo culto a cui l’uomo diede origine fu quello della Grande Dea Madre».

    «Bravissima! E sai come si evolse questo culto?».

    Ci pensai per qualche minuto e poi decisi di mettere insieme più informazioni possibili.

    «Il culto della Dea Antica ha accompagnato l’uomo per moltissimi anni. Ebbe la sua origine circa nel 30.000 a.C. e durò fino al 3.000 a.C. Lei era considerata tutto e l’origine di tutto, in essa erano racchiusi il mare, il cielo e la terra. Con il tempo l’uomo primitivo associò a questa divinità femminile un Dio, due facce della stessa medaglia, si completavano l’un l’altro. Così abbiamo la Dea della Natura e il Dio della Caccia». Presi fiato euforica della mia esposizione. «Questa religione rimase viva sino all’avvento del Cristianesimo, che la sradicò con l’aiuto dell’Inquisizione e della Caccia alle Streghe».

    La nonna mi guardò orgogliosa. «Vedo con gioia che hai imparato molte cose leggendo tutti quei libri. Hai fatto un ottimo riassunto».

    Arrossii felice di averla compiaciuta.

    «Come hai appena detto, la Caccia alle Streghe fu un tentativo malvagio e violento di sradicare questa religione con le sue tradizioni e i suoi rituali. Quello che però forse non sai è che la Chiesa non riuscì nel suo intento e che quella religione così antica vive tutt’ora» spiegò.

    «Davvero?».

    «Sì, ciò che la Chiesa non riuscì a eliminare lo inglobò in se stessa, ma nonostante tutti gli sforzi non riuscì a cancellare l’Antica Religione».

    La guardai meravigliata.

    «Nascoste nel buio, le streghe, le seguaci di questo culto, accumularono il loro sapere e tacquero i loro segreti più importanti». La nonna parlava piano, creando un’atmosfera magica, di attesa. «Ora, dopo molti secoli, la nostra storia giunge a noi. A me e a te».

    Seguivo quello che mi stava dicendo ma non capivo cosa centrassimo noi in tutto questo.

    «Fiamma… io sono una strega! Una figlia dell’Antica Religione, capisci?».

    La guardai affascinata.

    «Sì, penso di sì» risposi perplessa. «Ma cosa fa di preciso una strega?».

    «Una strega è colei che, entrando in comunicazione con la parte più profonda di se stessa, entra in unione con il divino e, grazie alla sua forza di volontà e alla sua energia interiore, plasma le energie dell’universo per ottenere dei risultati ben precisi. È chiaro?» chiese la nonna fiduciosa.

    «Sì…insomma!». Era un concetto troppo complicato per me.

    «Vedrai Fiamma, con il tempo capirai! Ora comincia la tua istruzione». Mi mise le mani sulle spalle. «Anche tu diventerai una figlia della Dea. Ti insegnerò molte cose e negli anni padroneggerai sempre di più le tue capacità inconsce».

    Iniziò così il mio addestramento nel mondo della magia, la nonna mi istruì su tutto: come fare un incantesimo; quali formule era meglio conoscere; la differenza tra magia bianca, rossa, verde e nera; come tracciare un cerchio di potere; come difendermi dalla negatività; la sapienza delle piante, delle candele e delle pietre… lessi tanto e imparai ancora di più e ora sono anch’io una Strega.

    Fuori dal finestrino la strada correva veloce. Eravamo arrivati a Pescantina, conoscevo quel paese, lì ero andata alle elementari e alle medie, avevo frequentato un gruppo di ragazze e ragazzi prima di partire, ma non era stato uno dei periodi più felici della mia vita.

    La magia mi regalò un po’ di equilibrio e, nonostante, a volte, vedessi delle persone venirmi incontro o cercarmi tra la folla e provassi quella sensazione di gelo dentro il corpo, non avevo mai più avuto incontri ravvicinati con queste entità.

    Capivo che non erano reali, le vedevo e sentivo solo io e mi sentivo pazza per questo. Ciò che mi fece scappare lontano da Verona fu la seconda apparizione di quel signore anziano. La visione avvenne di notte, nella mia stanza, e fu proprio il suo tocco e il suo parlarmi nell’orecchio a svegliarmi.

    Ero rimasta pietrificata nel vederlo vicino a me seduto sul letto. Questa volta non aveva nulla da darmi, ma capivo che voleva parlare. Quando cercò di avvicinarsi iniziai a urlare, la nonna irruppe nella mia stanza e lui scomparve.

    Fu allora che lei decise di rivelarmi una seconda verità.

    «Fiamma, ti prego Fiamma! Non essere così arrabbiata!».

    Mi voltai verso di lei, non potevo credere a quello che aveva fatto, al suo comportamento.

    «Pensavi che tenendo tutto per te avresti risolto il problema? Pensavi che io avrei dimenticato e superato tutto così? Non voglio questo, questo… dono!».

    Nonna Emma si accasciò sul divano, sembrava più vecchia dei suoi anni, aveva lo sguardo triste e velato dalle lacrime.

    «Mi dispiace Fiamma… non volevo mentirti o tenere per me una verità così importante. Dopo la tua prima visione mi spaventai molto, sapevo cosa avevi visto e la busta che tu mi consegnasti quel giorno confermò le mie paure. Come ti ho detto, quell’uomo era tuo nonno. Tenendo conto che tu non lo hai nemmeno conosciuto perché morì prima della tua nascita, capii che avevi il raro potere di vedere e comunicare con gli spiriti. Non ti dissi nulla perché non volevo che tu soffrissi…».

    Ero arrabbiata, capivo il suo modo di agire, ma non accettavo che lei mi avesse tenuto all’oscuro di cose così importanti per tutti quegli anni.

    «La prima visione l’ho avuta a tredici anni, ora ne ho diciannove e continuo a vedere persone che mi cercano, ma che noto solo io! Le vedo in casa con la coda dell’occhio, le vedo a scuola e in giro per negozi, mi vengono incontro con il loro freddo e le loro emozioni; quando pensavi di dirmi che ero una medium, quando fossi morta di paura?». Incrociai le braccia stizzita. «Non so gestire questo dono, quindi ho deciso che, per il mio bene e per il tuo, partirò!».

    Nonna sembrava sconvolta.

    «E dove vorresti andare?».

    Le voltai le spalle sempre più nervosa. Era vero, non sapevo dove andare e non avevo la minima idea di quello che volevo fare, ma non era importante, dovevo trovare la mia strada, partire, fuggire, scappare da quel luogo infestato di spiriti e trovare qualcuno che mi potesse aiutare a eliminare il mio problema!

    «Non so dove andrò… in un’altra città o in un altro paese! Ovunque ma non qui!».

    In quel momento nonna si alzò: «Vieni con me, ti prego».

    La seguii a malavoglia.

    Mi condusse in soffitta.

    Come tanti anni prima, in quella stanza aveva nascosto qualcosa.

    Una volta entrate, si diresse verso un grande baule, lo aprì e, dopo aver cercato per qualche minuto, mi porse una busta un po’ sciupata. Doveva averla letta in continuazione e ora era arrivato il momento che sapessi anch’io cosa voleva dirmi il nonno.

    «Leggi…».

    Aprii la busta ed estrassi un foglio liscio, bianco e profumato, sembrava odore di talco, la calligrafia era grande e robusta anche se un po’ complessa: «Troverai la tua strada nel mondo lontano e senza confine se accetterai la tua forza interiore. Parti per Firenze qualcuno ti attende, la maledizione che hai avuto in dono, ora e per sempre splende!»

    Dovevo andare… era giunto il momento!

    Feci le valigie quella sera stessa e la mattina dopo mi recai con il bus in stazione. Nonna Emma era rimasta a casa, mi aveva abbracciato forte e fra le lacrime mi aveva chiesto di scriverle, ero la sola famiglia che aveva vicino.

    Così iniziò la mia avventura. A Firenze, quando scesi dal treno, qualcuno mi stava aspettando.

    Era Marco, un ragazzo molto carino e simpatico, con strane doti paranormali, che divenne subito un mio carissimo amico e mi condusse alla mia nuova scuola. Una scuola diversa, sperduta nelle colline toscane, un’accademia per persone speciali, con poteri speciali.

    Queste venivano formate e istruite per poi diventare Guardiani dell’equilibrio universale.

    «Siamo quasi arrivati, vedrà… la sua nuova dimora le piacerà molto!».

    La macchina stava percorrendo delle buie strade di campagna, i frutteti e le vigne si perdevano nella pioggia, tutto sembrava addormentato e anch’io cominciavo a essere stanca.

    «Ok, grazie!».

    Avevo ricevuto la lettera del Priore dell’Ordine una settimana prima, diceva che c’era assoluto bisogno di una medium nella congrega di Verona.

    Ovviamente non ci si poteva opporre alle decisioni che venivano prese dall’alto; inoltre ero l’unica medium che aveva terminato gli studi, quindi feci le valigie e rassegnata partii.

    Non che non volessi tornare, ma non sapevo cosa dovevo aspettarmi.

    Non mi erano state date ulteriori informazioni, le avrei ricevute al momento del mio arrivo e non conoscere la realtà a cui si va incontro fa paura.

    La maggior parte delle volte l’ignoto crea timore nel cuore delle persone. Considerando che la mia vita era immersa nell’esoterismo, nella magia e nell’occulto, il timore si faceva ancora più grande.

    Cosa dovevo affrontare? Sarei stata capace di fare ciò che mi avrebbero chiesto? E, cosa che mi faceva ancora più paura, sarei piaciuta a quelle persone?

    «Signorina, tra qualche minuto vedrà Villa Sidhe».

    «Sidhe? Che nome particolare per una villa, perché è chiamata così?».

    L’autista si volse verso di me con un grande sorriso.

    «Allora conoscete la mitologia celtica? Ottimo! Credo che il signor Luca ne sarà contento, non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno che rimane colpito dal nome della nostra meravigliosa dimora!».

    Ero un po’ perplessa, a scuola ci avevano insegnato molte cose sulla mitologia, mi sembrava il minimo conoscere almeno qualcosina delle varie leggende esistenti.

    «La villa è bella come il suo nome?».

    «Molto di più… vedrà… molto di più!».

    Tutto ciò mi incuriosiva parecchio, Sidhe si traduceva letteralmente con collina fatata e, secondo la mitologia celtica, era il regno ultraterreno del popolo fatato; se l’autista diceva che quel nome le calzava a pennello, allora doveva essere veramente un luogo sublime!

    A circa cento metri dall’auto iniziammo a intravedere un grande cancello in ferro battuto sorretto da due colonne bianche: man mano che i fari lo illuminavano si poteva notare la sua lavorazione e di quanti particolari fosse arricchito.

    La macchina si fermò e, mentre l’autista cercava il telecomando per aprire quel meraviglioso mostro di ferro, io cercavo di cogliere qualcosa nella sua lavorazione.

    Incise e intagliate nel metallo c’erano numerose foglie e fiori, fate e folletti: erano bellissimi e sembravano quasi prendere vita.

    Sulle alte colonne due angeli guerrieri proteggevano l’entrata… forse ero davvero giunta a Sidhe, la collina fatata!

    Cap. 2 Villa Sidhe

    Il cancello si aprì molto lentamente e, dopo qualche minuto di attesa, l’auto si avviò lungo un viale alberato.

    Guardandole bene notai che erano querce.

    L’autunno le aveva già spogliate, ma in mezzo alla pioggerellina notai quanto erano imponenti. Chissà come sarebbero state maestose e belle in primavera.

    Il viale terminava in una piazzola molto carina al cui centro c’era una grande fontana, con satiri e ninfe dalle cui mani e anfore scendevano cascatelle d’acqua.

    Il mio sguardo però fu catturato dalla villa: era bellissima, grande e magica.

    Doveva avere almeno tre piani, ampie finestre si aprivano verso l’esterno, una piccola scalinata conduceva a un portico sorretto da quattro colonne; rimasi a bocca aperta… avevo sempre sognato di vivere nel castello di qualche principessa delle fiabe e ora potevo vivere lì.

    «Mi sembra molto colpita».

    Ci misi un po’ per tornare alla realtà. «Oh…sì… mi scusi, sono molto affascinata da questo luogo».

    «Ne sono convinto, a tutti fa lo stesso effetto».

    L’auto si fermò davanti agli scalini.

    L’autista scese e, preso un ombrello, venne ad aprirmi lo sportello, per poi accompagnarmi al portone e suonare il campanello.

    «Lei resti qui, io inizio a scaricare i suoi bagagli».

    Annuii passivamente, ero distratta dalla casa e dall’atmosfera che regnava tutt’intorno.

    Il portone d’ingresso era di pesante legno massiccio, intagliato e lavorato con gli stessi temi del grande cancello. Fatine danzavano insieme su un fiore, piccoli folletti tenevano mazzi di campanule fra le mani, narcisi e margherite sbucavano qua e là; non sapevo più dove guardare e all’improvviso venni presa dalla sublime sensazione di essere nel posto giusto.

    Un rumore di chiavi irruppe nella quiete della notte, qualcuno stava sferragliando con la serratura.

    Dopo un attimo di silenzio, uno spiraglio di luce illuminò la piazza e me, tutta infreddolita sulla soglia.

    Una signora anziana ma decisamente in gamba mi stava guardando curiosa con i suoi vispi occhi neri.

    Aveva lunghi capelli grigi raccolti in una crocchia, era bassina e paffutella, con un viso tondo e sorridente, profumava di pane e di patate arrosto, che buone!

    Il mio stomaco iniziò a protestare sonoramente, avevo decisamente fame.

    La signora se ne accorse subito e io arrossii imbarazzata.

    «Cara, non preoccuparti, ho appena sfornato qualcosa di caldo per te, Ettore ci aveva avvisati che a causa del mal tempo sareste arrivati in ritardo».

    «Ritardo?».

    «Sì, tesoro, sono già le dieci di sera; ma non c’è nessun problema. È meglio entrare prima di prendere qualche malanno».

    Mi fece cenno di accomodarmi e non me lo feci ripetere due volte.

    Il salone era in penombra.

    Per quello che potevo vedere, una grande scalinata a ventaglio conduceva al primo piano, il quale si apriva con una balconata che percorreva i lati del salone.

    «Ora ti accompagno nella tua stanza» mi disse la governate. «Purtroppo il Vicario è occupato e la signorina Viola è uscita, quindi li vedrai domani».

    Probabilmente sul mio viso si era dipinta una maschera di profonda amarezza, perché la signora mi accarezzò la guancia dicendo: «Su cara, non essere triste, domani otterrai tutte le risposte che cerchi. Ora è meglio che mangi qualcosa, ti fai un bel bagno caldo e poi un buon sonno ristoratore».

    «Sì… forse è meglio» risposi poco convinta.

    L’autista, nel frattempo, aveva finito di portare dentro i bagagli.

    Un miagolio sommesso arrivò da una delle valigie sparse sul pavimento.

    «Cavolo! Mi ero quasi dimenticata di Zucca!».

    Corsi verso le borse e trovai subito la gabbietta nella quale il mio gattone aveva fatto il viaggio.

    Zucca era un bel micio di media grandezza, con pelo folto, di color rossiccio striato. Non amava molto i viaggi e dalla sua espressione si capiva chiaramente che era un po’ intimorito da tutto quel movimento.

    «Quindi, questo è Zucca?». La signora si protese verso la gabbietta.

    «Sì, è il mio familiar. Avreste qualcosa da mangiare anche per lui?».

    «Certamente, in questa casa vive anche un altro gatto, quindi siamo abbondantemente preparati. Ora però è meglio presentarsi, il mio nome è Màni e sono la governante e cuoca di questa casa». Poi rivolta a Zucca aggiunse: «Quindi chiunque combini qualcosa che non va dovrà risponderne a me, sono stata chiara?».

    Non so se fu solo una mia impressione, ma il mio amico peloso sembrava aver capito perfettamente.

    «L’autista e giardiniere si chiama Ettore, mentre tu signorina come ti chiami?».

    «Il mio nome è Fiamma e lui... beh… è Zucca!».

    «Bel nome, veramente originale. Adesso però seguitemi, la vostra stanza vi aspetta!».

    Màni si avviò verso la scalinata e io la seguii di buon grado. Arrivate in cima voltammo a sinistra, percorremmo la balconata e, sulla destra, si aprì un’altra scalinata ampia e luminosa.

    Giunti al piano superiore notai che le scale proseguivano verso un altro piano.

    Màni svoltò di nuovo a destra e si avviò per un corridoio poco illuminato.

    Le pareti erano di un dolce color crema e appesi qua e là c’erano grandi arazzi che raffiguravano scene di battaglia e giardini fioriti, che davano alla stanza un aspetto semplice ma molto elegante.

    «Ecco, siamo arrivate, queste sono le chiavi della tua stanza, spero con tutto il cuore che ti piaccia» disse porgendomi una piccola chiave di ottone.

    «Grazie!».

    «Le valigie saranno in camera tua tra poco, non erano tante visto che un bel po’ di cose le avevi mandate qualche giorno fa, quindi non c’è molto da riordinare. Tra qualche minuto arrivo con la cena».

    Màni mi sorrise e si avviò lungo il corridoio.

    «Grazie ancora!» risposi emozionata.

    Guardai la porta davanti a me, ero troppo curiosa di vedere la mia nuova dimora.

    La villa non sarebbe mai stata completamente casa mia, ma la mia stanza sarebbe diventata il mio regno. Infilai la piccola chiave dorata nella toppa, girai un paio di volte senza difficoltà e spinsi la porta.

    La luce inondò il corridoio e dovetti subito chiudere gli occhi per evitare di restare abbagliata. Quando gli occhi si abituarono, entrai.

    La stanza era spaziosa e molto carina, le pareti erano di un delicato color lavanda, così come il copriletto dell’ampio letto a baldacchino e le tende.

    Il mobilio era in legno antico di colore bianco.

    Un grande armadio a quattro ante occupava la parete alla mia sinistra e, oltre il bellissimo letto, c’era una scrivania ad angolo attrezzata con computer e cancelleria varia, una sedia e alcune mensole.

    Proprio di fronte una bella libreria conteneva molti dei libri che avevo mandato in anticipo, mentre ai piedi del letto un cassettone sarebbe stato un ottimo rifugio per i miei strumenti magici.

    Oltre alla stanza c’era anche un piccolo bagno, anche lì tutto era color lavanda.

    Era provvisto di vasca da bagno, lavandino e water. Meraviglioso avere il bagno in camera, finalmente avrei potuto rilassarmi nella schiuma profumata!

    Pensare che prima di arrivare lì ero disperata, al punto che i giorni precedenti la partenza avevo salutato tutti dicendo loro che avrei scritto dalla mia nuova prigione. Marco, seduto davanti a me, si era messo a ridere, aveva spostato con la mente il bicchiere pieno di Gin Lemon fino a fargli toccare la mia mano e poi aveva detto: «Bevi, sciocca!».

    L’avevo guardato perplessa, nei suoi occhi c’era uno sguardo diverso, un misto di passione e tristezza.

    Solo in quel momento mi resi conto di quanto lui teneva a me, di come non mi fossi mai accorta di Marco se non come un amico. Lui, leggendomi quelle parole negli occhi, aveva abbassato lo sguardo.

    Ora era storia passata!

    Mi trovavo a Verona in una bella villa e, di sicuro, Firenze con i suoi ricordi non avrebbe cancellato dal mio cuore le belle sensazioni che provavo.

    Finalmente mi sentivo bene.

    Liberai Zucca, il quale andò subito in avanscoperta.

    Infine, piroettando per la stanza, giunsi al letto e mi ci lanciai sopra sfinita.

    Era davvero morbido, feci un profondo respiro e chiusi gli occhi, la quiete invase il mio corpo e mi addormentai tranquilla.

    Il giorno successivo mi svegliai grazie al provvidenziale arrivo di Zucca sul mio letto.

    Dico provvidenziale perché mi aveva svegliato giusto dieci minuti prima che bussassero alla porta.

    La stanza era avvolta da una luce violetta veramente rilassante, grazie al sole che filtrava attraverso le tende: finalmente una bella giornata dopo tanta pioggia.

    Mi misi seduta, mi stiracchiai e stropicciai gli occhi ancora pieni di sonno.

    Dovevo darmi una sciacquata al viso, altrimenti sarei rimasta in quello stato comatoso per tutto il giorno.

    Mi alzai dal lettone a malavoglia, percorsi la camera come uno zombie e una volta arrivata in bagno aprii il rubinetto della vasca regolando la temperatura. Cosa c’era di meglio di un bel bagno caldo?

    Mi sciacquai il viso con l’acqua fredda, guardandomi allo specchio raccolsi i capelli lunghi e ribelli in una crocchia. Ricordavo come alle superiori le ragazze invidiassero la mia soffice chioma ondulata e rossa.

    Dovevo ammettere che ne andavo fiera e un po’ mi pavoneggiavo. Mia madre raccontava sempre che aveva scelto il mio nome dopo che aveva visto la mia testolina ricoperta da una lieve peluria rossiccia.

    Non mi ero mai considerata molto bella, ma ai ragazzi piacevo, tutti rimanevano colpiti dagli occhi azzurro verde e dai capelli fiammanti; questi doni distoglievano l’attenzione sulla mia corporatura.

    Infatti, non ero altissima, , e avevo qualche chiletto di troppo sparso qua e là.

    Marco diceva sempre che ero una stupida a farmi tutti quei problemi, lui mi definiva armoniosa nelle mie forme un po’ prosperose… chissà se anche le altre persone mi vedevano in quel modo.

    Presi dalla valigia il beauty con tutti i miei prodotti per il bagno e li sistemai : le spugne colorate, lo shampoo, il balsamo, il bagnoschiuma, spazzolino e dentifricio, sapone per le mani, creme e cremine, trucchi e spazzole, insomma tutto quello che serve a una donna per migliorare e ritoccare il proprio aspetto fisico… che lavoraccio!

    Gli uomini non dovevano fare tutta quella fatica!

    Presi il bagnoschiuma all’arancia e cioccolato e ne versai un buon quantitativo nella vasca mezza piena.

    Poi tornai nella stanza e aprii la valigia in cui avevo messo l’accappatoio., Guardai l’orologio e con mia grande soddisfazione mi accorsi che erano appena le sette del mattino, avevo un po’ di tempo per me.

    Proprio sull’onda di quel pensiero confortante bussarono alla porta.

    Zucca venne verso di me miagolando, gli accarezzai la schiena, mi diressi verso l’entrata e aprii senza entusiasmo.

    Sulla soglia c’era un ragazzo che mi guardava pieno di curiosità.

    Doveva avere circa sedici, massimi diciassette anni. Era alto e dinoccolato, talmente magro che ti chiedevi come potesse stare in piedi un tale stambecco.

    Mi osservava di sottecchi, o meglio da sotto una frangia enorme e una zazzera di capelli neri che lo facevano sembrare tutto testa.

    Povero, ero proprio crudele quella mattina!

    Per fortuna non poteva leggermi nel pensiero, non che fossi una scopritrice di talenti ma sicuramente chiunque avesse sentito quello che pensavo mi avrebbe picchiato e poi se ne sarebbe andato.

    Cosa aspettava a parlare, si era morsicato la lingua facendo le scale?

    «Buongiorno, io sono Fiamma e tu chi sei? E perché bussi alla mia porta?».

    Come se fosse uscito da uno stato di trance, il ragazzo divenne rosso come un pomodoro e schiarendosi la voce rispose: «Scusami… non mi aspettavo che aprisse una ragazza così… ehm… così…».

    «Così come?».

    Il ragazzo si passò una mano tra i capelli evidentemente imbarazzato.

    «Scusa parlo sempre troppo, volevo solo dire che non mi aspettavo una ragazza così carina…».

    «Grazie».

    Ci mancava solo il picchiatello adolescente che faceva il Don Giovanni.

    «Allora… cosa devi dirmi?» chiesi ansiosa che se ne andasse.

    «Oh sì… che sbadato!». Si colpì la testa con un pugno. «Sono

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