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Il paese è piccolo, la gente parla: un romanzo sul revenge porn
Il paese è piccolo, la gente parla: un romanzo sul revenge porn
Il paese è piccolo, la gente parla: un romanzo sul revenge porn
E-book371 pagine5 ore

Il paese è piccolo, la gente parla: un romanzo sul revenge porn

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Info su questo ebook

Ginevra Righi vive ad Acquaviva in una tranquilla villetta di campagna insieme ai suoi genitori ed Elena, la sua imperfetta sorella minore. Ha un passato da modella ed è fidanzata con Omar, figlio del notaio del paese. Ma è soprattutto una ragazza curiosa. Cosa significa curiosa ce lo racconta Elena che ci rivela con amore e nostalgia gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, quando nel rapporto tra le due comincia a serpeggiare l’ombra sbiadita dell’invidia, fino agli anni della giovinezza ed al giorno in cui iniziano a girare in rete video pornografici di Ginevra. Con lei non c’è però Omar ma dei perfetti sconosciuti adescati sul web. Sarà proprio la rete che condannerà senza pietà Ginevra Righi, specialmente Acquaviva, il suo paese di origine, e sarà la furia del web a condurla ad una fine tragica ed inevitabile.
LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2021
ISBN9788868153779
Il paese è piccolo, la gente parla: un romanzo sul revenge porn

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    Anteprima del libro

    Il paese è piccolo, la gente parla - Mara Cristofaro

    Il paese è piccolo, la gente parla

    un romanzo sul revenge porn

    Mara Cristofaro

    Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2021

    Copyright Mara Cristofaro, 2021

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868153779

    Redazione: Giulia Baldini

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    Indice

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Mara Cristofaro

    Copertina

    Il paese è piccolo, la gente parla

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, siete pregati di acquistare la vostra copia.

    Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.

    Mara Cristofaro

    Mara Cristofaro è nata a Napoli nel 1987; è un avvocato ma la sua prima passione più grande è da sempre la scrittura. Ha collaborato negli anni con diverse testate giornalistiche come freelance. Divora romanzi alla velocità delle luce, ama i film di Verdone, le canzoni di Lucio Battisti, i viaggi zaino in spalla e scrivere diari di viaggio una volta tornata a casa (pubblicati diverse volte sulla rivista Turisti per caso).

    Contatto autore:

    maracristofaro@hotmail.it

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    Il paese è piccolo, la gente parla

    A Michela.

    Il motivo principale per cui la gente se ne va dai paesini di provincia è perché può sognare di tornarci. E il motivo per cui ci resta è per sognare di andarsene.

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in parte frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.

    1

    Era una domenica mattina di agosto, umida e rovente, una di quelle classiche mattine in cui spalanco gli occhi e mi imbatto nella pelle appiccicosa, mi trascino in bagno, scalza. Ciondolo affannosamente, come se stessi compiendo uno sforzo sovrumano, fino alla stanza posta di fronte alla mia camera e mi lascio cadere sulla tazza del water. Comincio a fissare un punto qualsiasi nel vuoto. La testina dello spazzolino, l’ammorbidente per la lavatrice, il lampadario azzurro di ceramica. Tutto è mio, tutto è familiare. Sono nata in questa casa, tra queste mura, non conosco altri odori. Ci sono affezionata, anche se non ho scelto io l’arredamento, i colori pastello delle tende, il cesto di vimini per la biancheria sporca. Penso che un giorno avrò una casa solo mia, e potrò arredarla a mio gusto, non ci saranno mobili di legno né colori pastello, sarà piccola e moderna con una libreria gigante e avrà una vasca Jacuzzi pazzesca, e potrò trascorrerci dentro le domeniche d’inverno, quando fuori piove e il cielo è plumbeo. Allora mi abbandonerò all’acqua calda della vasca, affogherò nella schiuma, con un bicchiere di vino tra le mani, e Lucio Battisti che canta dal giradischi anni ’60.

    Una goccia di sudore precipita sul pavimento e mi riporta alla realtà. Che caldo, Dio santo. Mi asciugo la fronte dal sudore col dorso della mano e poi la passo sulla maglietta per asciugarmi.

    È una di quelle tipiche mattine in cui mi sveglio all’alba perché a letto fa troppo caldo per restare a dormire, ma fuori dal letto è ancora troppo presto per iniziare la giornata. Sono talmente pigra per fare qualcosa o per pensare di fare qualcosa, che decido di non fare niente. Mi limito a fare un giro per casa, sperando invano che i piedi scalzi, a contatto con il pavimento, si raffreddino e insieme a loro il resto del corpo.

    Ero nervosa quella domenica mattina di agosto: troppo presto per iniziare la giornata e troppo tardi per riprendere a dormire profondamente. L’orario peggiore per alzarsi dal letto. Me lo ricordo il nervosismo di quella mattina. Il caldo asfissiante, la pelle appiccicosa, l’attaccatura dei capelli umidiccia di sudore e le braccia pesanti.

    Vagabondo per il corridoio buio, la porta della camera di mamma e papà è ancora chiusa. Dormono tutti. Beati loro. Mi arrabbio silenziosamente con mia madre, che lo scorso inverno non ha accolto la proposta di mio padre di far installare dei condizionatori in ciascuna stanza. Decide sempre tutto lei e le sue decisioni sono sempre sbagliate.

    Mi dirigo in salone, vedo in lontananza spuntare dalla grata la fiacca luce del giorno. I raggi di sole sono già lì pronti a penetrare senza chiedere il permesso nella nostra tranquilla villetta di campagna. Apro il frigo e bevo dell’acqua ghiacciata attaccata col muso alla bottiglia, mi accarezzo piano il ventre per riscaldarlo, il gelo dell’acqua minerale mi provoca ogni volta un colpo violento allo stomaco, ma non imparo mai.

    Mi riavvio verso la nostra camera, mia e di Ginevra, ancora intontita. Mi fermo a guardare dal salone fuori dalla finestra per scrutare il cielo e provare a capire che tipo di giornata sarebbe stata quella che si apprestava a cominciare.

    C’era sempre il sole ad Acquaviva. Mai una tregua, mai un romantico temporale estivo, mai un fresco alito di vento. L’afa non si stanca mai in questo paese. In fondo, cosa importava?

    Avrei dormito come sempre fino alle due e poi sarei andata giù in paese, al mare a fare un tuffo. E avrei provato a convincere mia sorella a seguirmi, e forse quella domenica ci sarei riuscita per davvero. Mi avrebbe detto che era stanca, che non le andava di vedere gente, che aveva il ciclo, che aveva sonno, e sarebbe stata convincente perché mi sarei arresa.

    Va bene, allora non ci vado nemmeno io avrei risposto seccata, sperando che lei si sarebbe sentita in colpa e avrebbe cambiato idea. Ma Ginevra non cambiava mai idea.

    Non c’era poi tanto da fare d’estate ad Acquaviva.

    Apro la dispensa, mi accerto che mia madre, come sempre, non abbia dimenticato di comprare tutto l’occorrente per la colazione. Caffè, fette biscottate, marmellata biologica, latte parzialmente scremato. Inganno me stessa fingendo di non vedere lì dietro, nascosto nell’angolino, il barattolo di crema di nocciole di mia sorella. Ok, c’è tutto. Penso che Ginevra è l’unica ragazza che conosco che può permettersi di mangiare crema di nocciole a cucchiaiate. È talmente in forma, pur non rinunciando a mangiare quello che desidera.

    Richiudo la dispensa e finalmente raggiungo la stanza da letto, mi abbandono tra le lenzuola ancora calde e mi passo un cuscino fresco tra le cosce. Voglio recuperare tutta la stanchezza degli ultimi mesi, le notti insonni a consolarla, i singhiozzi nel cuore della notte che provavo inutilmente ad ignorare. Ho solo bisogno di riposare la mente.

    Distendere la fronte, che negli ultimi tempi ho tenuto corrucciata troppo spesso. Devo distendere le rughe del viso, eliminare uno per uno i brutti pensieri. Devo, anzi, dobbiamo tornare alla vita di prima, fatta di normalità, di gesti automatici. Come una qualsiasi famiglia normale di provincia. Come gli altri.

    Mia sorella, i suoi guai, mia madre e mio padre, la paura del giudizio della gente, il paese che non smette di chiacchierare, i nonni che non devono sapere, gli zii toscani che chissà se hanno capito qualcosa di quello che ci è capitato. E Concetta che era sparita senza un motivo proprio quando avevo più bisogno di lei. E Lorenzo.

    E poi l’università, voglio davvero laurearmi in legge? Portare avanti lo studio legale di papà, voglio davvero questa vita per me? Non meriterei di più? Voglio davvero soffocare quella voce interiore che mi urla Elena esplodi, forza! Scappa lontana, sii davvero come sei, comprati uno di quegli zaini enormi che ci puoi mettere dentro mezza casa, esci e vai, ma prima lascia un biglietto ai tuoi attaccato al frigorifero, che se la meritano almeno una spiegazione. Me ne sono andata - scrivi - a visitare l’Africa o forse il mondo intero. Sarò felice. Non siate in pensiero per me. Fallo Elena! Caccia per una volta le palle nella tua vita, abbandona la tua vita già programmata, scuoti la testa e lascia cadere per terra la tua coroncina da prima della classe, da prima della casa, da prima del paese. Spettinati e corri via. Sii te stessa, sii impavida, sii come tua sorella Ginevra. Per una volta Elena, indossa i suoi vestiti e assaggia la libertà.

    E mentre la mia mente partorisce pensieri sempre più confusi e arrabbiati, a poco a poco meno limpidi, il mio corpo lentamente si abbandona nuovamente al sonno. Liberati Elena... Scappa via se non ti piace questa vita...

    Accanto a me, ai miei pensieri incompiuti, al mio letto sfatto c’è quello ancora intatto di Ginevra. È vuoto, perfettamente tirato a lucido. Lei questa notte non ha dormito qui. Ma io, incredibilmente, non me ne sono ancora accorta.

    2

    Era agosto, c’erano le zanzare e centinaia di migliaia di mosche che ronzavano nell’aria torrida di quella casa. Le lancette segnavano le sette e undici del mattino e inaspettatamente il caldo insopportabile di quei giorni mi aveva svegliata una sola volta, forse perché la sera prima avevo serrato la veneziana con l’intento di non lasciar trapelare nemmeno un minuscolo spiraglio di luce o più probabilmente perché avevo dimenticato di spegnere il ventilatore, come facevamo di solito con mia sorella un attimo prima di addormentarci.

    Dormivo pesantemente, avevo avuto un sonno agitato a causa di uno strano sogno che mi aveva scossa fino alle tre circa. Ma alle sette e undici del mattino sbarrai gli occhi di soprassalto, risvegliata dal rumore causato dall’ingresso brutale di mia madre nella stanza.

    Di solito picchiava alla porta delicatamente, sapeva che io e mia sorella eravamo terribilmente gelose del nostro territorio, ma quella mattina non andò così. La trovai in piedi al capezzale del mio letto, ho ancora la sua immagine nitida nella mente. Aveva un pigiama bianco di seta e i suoi soliti capelli rossi arruffati, gli occhi gonfi di sonno e di caldo, mi domandava con un tono di voce inequivocabilmente allarmato mentre fissava il suo letto:

    Dove è Ginevra? Perché non è rientrata a casa stanotte?

    Tutto ebbe inizio con quella domanda.

    Guardai d’istinto il mio Swatch bianco latte. Segnava le sette e undici. Non può essere ancora in giro a quest’ora, è mattina inoltrata. Un brivido mi percorse la spina dorsale. Il cuore iniziò a battere più veloce. Mi passai la lingua sulle labbra secche per provare a dire qualcosa, ma non dissi niente.

    Era un qualsiasi mattino di una domenica d’agosto, in una qualsiasi casa di campagna di una famiglia normale, in un qualsiasi minuscolo paesino di mare del Sud Italia.

    Ci sono attimi interminabili, attimi in cui il tempo resta fisso lì, interrotto per sempre nei ricordi, incastrato in un’immagine insopportabilmente chiara, è un momento preciso in cui il tempo si congela e non si scioglie più.

    Il mio tempo è finito in quel momento, si è fermato lì e da lì non è più ripartito.

    La mia storia inizia e finisce a Acquaviva, una terra arida e caldissima, sullo sfondo il mare azzurro e poche case sparse di tufo.

    Da quando mi sono trasferita a Londra, mia madre mi racconta spesso della nostra infanzia ad Acquaviva, mi parla di Ginevra soprattutto, del nostro rapporto speciale come le piace definire.

    Eravate così diverse ma anche così unite mormora.

    Facciamo delle lunghe conversazioni su Skype di sera soprattutto, poco prima che sia ora di cena, in cui lei trascorre i primi venti minuti a cercare di posizionare la webcam nel modo corretto e poi passa a ripetere le solite cose da madre in menopausa, dice che sono dimagrita, che devo mangiare, che se dimagrisco troppo poi il viso è scavato e divento brutta e se divento brutta poi nessuno mi sposerà mai e resterò zitella per tutta la vita e avrò un’esistenza triste e solitaria e morirò sola, senza figli, senza marito, in una casa piena di libri impolverati e di gatti.

    Per cui mamma, stai dicendo che mi capiteranno tutte queste cose brutte solo per qualche chilo in meno? Non starai un tantino esagerando? la prendo in giro e lei mi accoglie. È una vita che la prendo in giro. Teneramente, è ovvio.

    Lei sorride e rompe il ghiaccio ogni volta nello stesso modo, mi domanda che tempo fa a Londra, le rispondo che è cupo e nuvoloso e a quel punto lei rilancia:

    Qui il tempo è bello, c’è il sole, dovresti venire una volta...

    Sì, verrò mamma. Verrò... sospiro.

    Ma lei sa che è una bugia, sa che ho chiuso con Acquaviva, con i sampietrini scivolosi delle viuzze, con l’odore dei limoni che percepisci fin su la collina, con il mare d’inverno e le onde alte che finiscono sulle macchine nelle giornate più uggiose e che un tempo amavo tanto osservare. Lei lo sa che per quanto mi riguarda dovrebbero andare via anche loro da Acquaviva, perché quel posto non appartiene più a nessuno di noi.

    Lo sa che non ci torno là giù, anche se il coraggio di esprimerlo chiaramente non ce l’ho ancora avuto. Ma lo ha capito senza che glielo spiegassi che per continuare a vivere questa vita piccola e amara, ho dovuto allontanarmi da lì, da quelle persone, da quel pensare comune, invincibile e brutale. Ed è una delle pochissime cose che mia madre ha compreso in autonomia, senza che nessuno glielo spiegasse.

    Così abbassa lo sguardo e trova un pretesto per introdurre l’argomento, per parlare di quel ricordo dolce eppure tremendo, la sua primogenita Ginevra.

    Le piace raccontarmi soprattutto della nostra infanzia, di quando ci accompagnava a scuola, le piace mettere in risalto la sua premura di genitore. Io fingo interesse e mi impongo di ascoltarla con attenzione, ma ricordare mi fa molto male.

    Comincia da lì, dai giorni di cui non ho quasi più memoria o ne conservo solo un ricordo scolorito, quando la mattina ci accompagnava a scuola prima di andare a lavorare come impiegata al Comune di Acquaviva, io facevo i capricci perché non volevo staccarmi da mia sorella, piangevo disperata quando sgattaiolava via dalla macchina per entrare alla scuola elementare, mentre io frequentavo ancora l’asilo.

    Urlavo come un’ossessa appena arrivavamo fuori dalla scuola di Ginevra, un istituto gestito dalle suore orsoline, quando mi rendevo conto che ci saremmo dovute separare.

    Mia madre imbarazzata, sorrideva dalla macchina alle altre madri per mostrare loro di avere la situazione sotto controllo, ma in realtà percepivo già allora la sua insofferenza ai nostri capricci. Avrebbe voluto ribellarsi alle sue due figlie vivaci e viziate di cui spesso si trovava in balia, avrebbe voluto scendere dall’auto la nostra povera madre e urlare in faccia alle orsoline: Prendetele voi, che io non le sopporto più!

    Ma non lo ha mai fatto, fortunatamente. Ha tenuto duro, nelle mattine quando eravamo ancora piccole e indisciplinate e scappavamo dalla macchina in corsa, e molto più avanti, quando abbiamo scelto che tipo di persone diventare.

    Quando si accorgeva che una suora stava passando accanto alla nostra auto, si limitava a tapparmi la bocca con una mano per impedirmi di urlare.

    Me lo sento ancora sulle labbra il sapore unto della nivea, che mi lasciava sulle labbra la sua mano.

    Lasciala! Lasciala! - urlava Gin ancora più forte - così non respira! sei pazza! mamma, lasciala!

    Così afferrava il braccio di nostra madre con le sue manine ossute e ci impiegava tutta la forza che aveva per liberarmi dalla sua presa. Una volta, ricordo, che le diede perfino un morso su una spalla per difendermi.

    Era così ogni mattina: noi che gridavamo per non separarci in un delirio di urla e schiamazzi, e mia madre che si trovava ad affrontare la sua inadeguatezza in un parcheggio di una scuola elementare di provincia.

    Me la ricordo come fosse ieri, com’era bella mia madre, slanciata, sicura, indossava spesso delle camicie colorate che le stavano un po’ larghe sulle braccia, i jeans attillati che le fasciavano le gambe magre e lunghe, uguali a quelle di mia sorella.

    La ricordo con una spazzola per i capelli tra le mani, quando tentava maldestramente di pettinarci mentre guidava per accompagnarci a scuola, perennemente in ritardo. Con una mano teneva il volante e con l’altra ci pettinava i capelli.

    Arrivavamo fuori scuola che tentava di parcheggiare e farci la coda di cavallo simultaneamente, teneva l’elastico tra i denti come un’ascia di guerra e sottovoce insultava le altre madri che posteggiavano la macchina in seconda fila, ostruendo il passaggio.

    ’Ste stronze guarda un po’ come parcheggiano, ’ste incapaci!

    Mamma! Non si dice! l’ammonivamo io e Gin all’unisono.

    Poi ci ordinava di allacciarci le scarpe e di farci il fiocco al grembiule prima di entrare in classe.

    Forza ragazze! Datevi da fare, su!

    Era buffa, ci chiedeva di compiere delle attività che non eravamo in grado di eseguire autonomamente data l’età, ma non riusciva proprio a rendersene conto. Era una donna stramba, per alcuni aspetti terribilmente ordinaria, mentre per altri assolutamente sopra le righe, distratta, sempre con una Club accesa tra le labbra, che puntualmente dimenticava ancora fumante nel posacenere mentre era intenta a fare altro.

    Quante sigarette abbandonate nel posacenere bianco della cucina, quello con la bandiera inglese dipinta sul fondo. E tutte le volte che all’ora di cena squillava il citofono, aveva un sobbalzo, correva più veloce che poteva in cucina a svuotarlo perché papà le aveva severamente vietato di fumare in nostra presenza.

    Ma lei come un’adolescente ribelle si ostinava a fumare ovunque, specie nel bagno e poi tentava scioccamente di coprire gli odori con profumatori per ambienti alla lavanda dall’odore fortissimo, che spruzzava dappertutto senza misura. Poi con aria candidamente colpevole ci guardava e ci domandava:

    Ragazze si sente puzza di fumo, per caso?

    E noi sempre lì a rassicurarla, a coprirla. A sei anni, a otto, a dieci, a venti. No mamma non si sente niente, tranquilla.

    Mia madre non ci ha mai trattate da bambine, ha sempre creduto di interagire con due donne adulte. Forse tra noi quella meno pronta a maturare è sempre stata lei.

    Spesso capitava che ancora bimbe ci lasciasse da sole in casa. Non ricordo dove andasse né a quei tempi avevo la curiosità di saperlo, ma immagino che la nostra presenza non fosse gradita.

    Non ho mai considerato che si incontrasse con un amante, mia madre non era tipa da amante, semplicemente suppongo che avesse avvertito il desiderio di dedicare un po’ di tempo a se stessa. E allora la immagino passeggiare per le strade di Acquaviva che fa la spesa da Arturo, il nostro fruttivendolo di fiducia, che si ferma a bere un caffè in piazza Napoli con le colleghe del Comune, che da un’occhiata alle vetrine di via della Sete, che riflette su cosa cucinare per la cena. Mentre restavamo a casa a giocare, lei rubava qualche momento per sé.

    Mi raccomando bambine non ditelo a papà che vi ho lasciate qui, la mamma torna subito ci rassicurava.

    Io e mia sorella non facevamo tante domande, anzi, approfittavamo di quei momenti di libertà per giocare a mamma e figlia. Ginevra era la mamma e io la figlia.

    Ero poco più bassa di lei all’età di cinque anni, ma mia sorella aveva abbastanza forza da riuscire a prendermi in braccio e fingere che fossi una neonata. Dovevo piangere tra le sue braccia e fare finta di bere il latte da un biberon appartenente ad una vecchia bambola. Poi mi accarezzava il viso con il dorso della mano e mi sussurrava dolcemente all’orecchio:

    La mamma non ti lascia mai Elenuccia, sta sempre accanto a te, ti cura e ti aiuta a crescere, va bene?

    Va bene mammina rispondevo simulando una voce da infante.

    Elena ma tu sei una neonata, non sei ancora in grado di parlare, uffa! mi rimproverava spazientita.

    Si arrabbiava sul serio quando non interpretavo fedelmente la parte che mi aveva assegnato e non voleva giocare più. È sempre stata un po’ permalosa.

    La immagino mia madre che esce di casa furtiva e se ne va per i vicoli bianchi del paese, mentre Ginevra prende il suo posto per qualche ora. Che attende il suo turno per fare la messa in piega da Toto il parrucchiere, che odia i bambini e non fa niente per nasconderlo.

    Le rare volte che mamma ci aveva portato da Toto per spuntare i capelli, lui si era avvicinato con quelle pupille enormi color ghiaccio ed attento a non farsi ascoltare da nessuno, ci aveva minacciate con la sua voce resa roca dalle troppe sigarette:

    Fate le brave e non vi muovete dalla sedia, che altrimenti vi taglio i capelli corti corti a maschio, siamo intesi?

    Non so dire se scherzasse, forse sì, ma noi ne eravamo terrorizzate.

    Così restavamo immobili su una di quelle sedie malandate, ci intrattenevamo guardando solamente le figure dei giornali di gossip abbandonati sul tavolino del locale, intimorite dall’idea dei capelli a maschio.

    Povero Toto, qualche anno dopo abbiamo scoperto che sua moglie Angelina, timida maestra d’asilo e figlia dell’unico ginecologo del paese, non riusciva a rimanere incinta. Ci avevano provato per anni, con cure ormonali, punture piantate nel ventre, pillole di ogni dimensione e moltissime preghiere a santa Marcellina, ma niente, erano rimasti sempre in due, fin dai tempi del liceo.

    Passeggiavano inconsolabili per il paese, nelle sere d’estate, andavano a mangiare una pizza da Antonino sul lungomare, nella parte bassa di Acquaviva, lanciavano uno sguardo distratto alle bancarelle dell’artigianato e poi tornavano nella loro casa su in collina. Si tenevano per mano, sempre, ma non si scambiavano nemmeno una parola. I loro sguardi erano posati altrove, non si incrociavano mai neppure per sbaglio.

    Quando finalmente mamma rientrava, giusto in tempo per preparare la cena, in casa si spandeva un odore di smalto o di lacca per capelli e allora capivamo che era andata a farsi bella senza di noi.

    La nostra è stata una madre svampita, deconcentrata, egoista forse, con la testa tra le nuvole, poco autoritaria. Una madre affettuosa tutto sommato, ma assolutamente incapace di darci delle regole.

    Era piuttosto Ginevra a sforzarsi di colmare i vuoti che mia madre lasciava dietro di sé.

    Così se nel cestino di una compagna di classe di Gin, oltre al pranzo, c’era anche una merendina o un frutto da mangiare a mezza mattinata, anche mia sorella pretendeva che nostra madre provvedesse in egual modo. Non era lei a farlo in maniera automatica come tutte le altre madri, era la sua primogenita a dirle cosa fare. Mia madre non lo sapeva come si faceva la madre. Nessuno ha un manuale d’istruzioni, un compendio su cosa fare quando ti ritrovi a condividere la vita con due bambine, ma lei non si è mai posta troppe domande. Lei non lo sapeva fare e basta.

    Era Gin che si preoccupava di spegnere la luce una volta appurato che mi fossi addormentata, io che avevo paura dei fantasmi e pretendevo di dormire con la lucina accesa a forma di babbo natale.

    Era Gin che quando mi sentiva starnutire una volta di troppo, ordinava a mia madre di misurarmi la febbre, che mi aiutava a scrivere l’alfabeto in prima elementare prima che diventassi più brava di lei, che mi abbracciava forte quando piangevo dopo che non mi veniva assecondato un capriccio.

    Ed era sempre mia sorella a ricordare a mia madre, quando ricorreva il nostro compleanno, che doveva comprare gli inviti per la festa e addobbare la casa con i festoni.

    Era continuamente assorta mia madre, chissà a cosa pensava quando la sorprendevo intenta a sbuffare la solita sigaretta sottile affacciata al balcone, a fissare i fili perfetti del prato inglese che contornava la nostra villetta.

    Erano così rari i nostri momenti di tenerezza, quei momenti che una giovane madre dedica alle sue bambine.

    A volte, nell’età in cui portavamo ancora i capelli legati in due codine laterali, in cui non riuscivamo ancora a pronunciare le parole senza essere corrette, lei ci prendeva in braccio e senza preavviso ci lanciava sul divano. Già sapevamo dove sarebbe andata a parare, ce ne accorgevamo dallo sguardo spensierato che aveva quando decideva di voler giocare con noi.

    Ci puntava da lontano con quei suoi occhi grandi, ci inseguiva mentre scappavamo e fingevamo di volerci sottrarre al gioco, ma in realtà non vedevamo l’ora di incominciarlo. Ci nascondevamo sotto il suo letto e aspettavamo che ci scovasse. E per timore che non ci trovasse, facevamo delle pernacchie per farci sentire. Così lei si accovacciava e diceva ghignando:

    Ecco, vi ho trovate finalmente!

    A quel punto uscivamo allo scoperto e iniziavamo a correre all’impazzata per tutta la casa. Lei ci rincorreva per il salone, simulava una corsa sfrenata per raggiungerci, poi si fiondava su di noi, ci alzava la maglietta e ci faceva il solletico. Affondava le sue labbra carnose nel nostro ventre bianco di bambine e ci soffiava sopra con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

    Ne veniva fuori un rumore simile ad una mega scoreggia, e in sottofondo le nostre risate incontenibili.

    E dai mamma smettila! Ci fai il solletico! protestavamo fintamente esauste dal gioco.

    Così lei smetteva senza farsi pregare troppo. Ma a quel punto io e Gin ci guardavamo pentite di averle chiesto di smettere.

    Fai ancora mamma, fallo di nuovo! implorava Gin. E il gioco ricominciava.

    Allora parlavamo a stento, io sapevo costruire poche frasi, avevo tre o quattro anni al massimo ma quella freschezza negli occhi dolci di mia madre, il rumore delle sue scarpe da ginnastica che ci rincorrevano, il profumo mandorlato dei suoi capelli folti, me li porto ancora appresso e li conservo come una sacra reliquia.

    3

    Te la ricordi Ele la festa di compleanno di nove anni di Ginevra? Dio mio come ho fatto a dimenticare di chiamare gli animatori?

    Restiamo zitte per un istante, poi scoppiamo in una risata timida.

    Abbiamo gli occhi lucidi, io vedo i suoi e lei i miei, nonostante la connessione internet vada e venga, nonostante proviamo invano a offuscare tutta quell’amarezza dietro un sorriso divertito.

    Da qualche mese le nostre conversazioni sembrano più intime, sembra che inizi a comprendermi di più. Adesso, finalmente, sente quello che sento io. Mostra interesse per me e per i miei sentimenti. E mi sembra un miracolo.

    Siamo state per anni lontane, io e lei, incastonate nei nostri ruoli di figlia e di madre. La madre lavora, cucina, rassetta, lava, stira e stende, e ogni tanto ti fa la ramanzina perché non riordini la camera da letto. La figlia studia, fa sport, va a scuola, esce con gli amici. E nessuno che domanda all’altra: come stai? Sei davvero felice? Posso ascoltarti?

    Abbiamo coabitato io e mia madre per tanti anni, ci siamo passate accanto nei corridoi di casa e non ci siamo mai guardate negli occhi. Ci siamo chieste come fosse andata la giornata, qualche volta, ma per lungo tempo non ci è interessato davvero ascoltare la risposta dell’altra.

    Cosa vuoi mangiare stasera a cena? Come è andato il compito di matematica?

    Una vita di parole

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