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Viaggio nella citta' degli spiriti
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E-book173 pagine2 ore

Viaggio nella citta' degli spiriti

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Info su questo ebook

Cosa ci succede appena dopo essere morti? Abbiamo coscienza del lungo processo che si innesca da quel momento in poi? Come funziona, in pratica, la reincarnazione?
Grazie alle avvincenti storie di vita dei vari protagonisti, apparentemente scollegate, ma che in verità si incrociano in epoche e luoghi diversi e impensabili, l’autore ci proietta in mondi lontani, accompagnandoci in un vero e proprio viaggio tra l’esistenza nel mondo fisico e la sua continuità in quello spirituale.
Il romanzo ci trasporta in una delle tante città spirituali che esistono appena sopra quelle fisiche, in una dimensione a noi non ancora usuale, dove ci sorprenderemo sia per l’incredibile somiglianza fra quella realtà e la nostra, sia per le sostanziali differenze che regolano i principi della vita nelle due dimensioni esistenziali raccontate.
Sarà un viaggio carico di emozioni, sorprese, alla scoperta di nuovi, incredibili scenari dove la vita si svolge lungo un interminabile filo che non si spezza mai.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2012
ISBN9788863697209
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    Anteprima del libro

    Viaggio nella citta' degli spiriti - Roberto Numa

    Kardec)

    Capitolo 1

    Manaus, giugno 2008

    Il piccolo fiume da qualche ora ha cominciato a scorrere tra le casupole di lamiera e compensato che danno forma al quartiere – o meglio alla favela – in cui vivo, trascinando nella sua folle corsa tutto ciò che incontra nel cammino: lattine di birra, resti di scatole di detersivi, cartoni di varia grandezza, foglie d’insalata ormai marcia e pezzi di plastica di tutti i tipi.

    Marrone come solo la terra scura della foresta - che trascina con sé – sa esserlo, s’ingrossa e prende velocità man mano che scende dalla collina, fremente per arrivare giù in basso, e finalmente confondersi con le acque del grande fiume, quello vero, che divide la città dei ricchi da quella dei disgraziati, dove vivo.

    È una scena abituale, a cui nessuno fa più tanto caso, è sufficiente solo un po’ di pioggia per assistervi, e qui piove praticamente tutti i giorni, soprattutto in quest’epoca dell’anno.

    La colpa è nostra, dicono alla televisione, che ammassiamo i rifiuti agli angoli delle strade, ed in parte credo sarà anche vero, ma solo in parte, perché quello veramente vero, e che nessuno dice, è che non abbiamo nessun’altro posto dove buttarli.

    Non ci sono camion della nettezza urbana che passano ad Afogados, il nostro quartiere, e se uno volesse fare le cose per bene, e buttare i rifiuti in uno dei tanti cassonetti messi a disposizione dei cittadini dal municipio, dovrebbe scendere verso i quartieri bassi per quasi un chilometro, e poi naturalmente risalire.

    Poca gente, qua da noi, è disposta a fare uno sforzo simile, anche perché in giornate di pioggia come questa preferisce restarsene al coperto dentro casa, e certo non si avventura in mezzo a quel rigagnolo putrido dove le urine di topo possono trasmetterti la leptospirosi, o dove la forza dell’acqua può avere strappato un serpente velenoso da un ramo, o lo ha stanato invadendo il suo rifugio senza alcun preavviso, creando così la possibilità di un incontro non certo piacevole.

    Perciò tutti buttano i loro avanzi al primo angolo dove sorge un terreno abbandonato, o semplicemente li gettano dalla finestra, giù per i baratri sui quali abbiamo appoggiato le nostre baracche, per poi finire ogni volta in quella momentanea lingua d’acqua, che porta via tutto con sé.

    Siamo gente con la pelle dura, noi, non ci preoccupiamo neanche quando la pioggia entra sotto i cumuli di terra in cui abbiamo a nostra volta scavato per costruire le nostre abitazioni, e poi risucchia ogni cosa, le case e la gente che amiamo, senza pietà. Sopportiamo le disgrazie con una forza tenace che solo la disperazione giustifica, figuriamoci se ci stiamo a scomodare per qualche chilo di immondizia.

    I ragazzini poi, quelli più giovani e che ancora non hanno capito in quale vita di merda vivono e vivranno, riescono pure a divertirsi, in giornate come queste. Sguazzano nell’acqua fangosa come maialini, schizzandosi tra loro, rincorrendosi, cadendo e rialzandosi dopo avere ingoiato innocentemente quello schifo, gridando e ridendo come sciocchi incoscienti.

    Io sono uno di loro e, almeno per oggi, mi diverto; da domani, invece, ricomincerò il mio lavoro. Quando il sole soffocante avrà prosciugato il fiume di fango, lasciando solo un’opprimente umidità e una puzza da far rivoltare lo stomaco, riprenderò in mano l’accendino e i razzi che mi hanno dato in dotazione, e mi piazzerò nella mia solita postazione, sul terrazzo della casa di Carlos, la più alta della favela. Da lì controllerò che i miei amici, con cui ora sto giocando, stiano compiendo tutti gli ordini impartiti dal capo, e se solo uno dovesse sgarrare, anche per un’unica volta, ho il dovere di denunciarlo per permetterne la punizione.

    Ma soprattutto terrò sotto controllo il movimento laggiù, in basso, all’inizio della favela, dove la strada di asfalto ci congiunge alla città dei normali, e permette ai nostri clienti e ai nostri nemici, poliziotti e trafficanti di altre favelas, di arrivare fino a noi.

    Il mio lavoro è sparare i razzi non appena vedo qualcosa di anomalo succedere, cosicché i botti e le luci colorate avvisino tutti quelli della banda del pericolo imminente.

    Io sono una sentinella.

    Il mio nome è Ricardinho.

    Capitolo 2

    Brescia, 27 settembre 1978

    Il ronzio della zanzara non mi da più fastidio, finalmente.

    È bastato accendere la luce, ed è terminato.

    La sento ancora, come un fievole sibilo che sembra provenire da lontano.

    A volte riesco a intravederla, apparendo come una macchia fugace, scivolando lungo le pareti immacolate della mia stanza da letto, dove mi sono rifugiato in queste ultime ore della mia vita.

    Fuori, il silenzio della notte mi conforta: nessuno può disturbarmi, né impedirmi di continuare a preparare la mia uscita di scena.

    Sul comodino, il libro è ancora aperto alla pagina che stavo leggendo ieri, e non sono capace di proseguire, non ne ho voglia, e soprattutto non ha senso, tanto il finale, quello non lo leggerò mai.

    Ripenso alle cose banali che mi sono successe nelle ultime ore di questa mia vita, ai giorni appena trascorsi, e vorrei sorridere, ma non ci riesco.

    Un motivo serio, ripeto nella mia mente, dammi un motivo serio per desistere dall’’attuare i miei propositi.

    Ora sì sorrido: non ho alcuna valida ragione per non ammazzarmi, ed è quello che farò, tra poco.

    Comincio a scaldare la roba nel cucchiaino. Ne ho messa un sacco, quasi un grammo. Non potrò resistere.

    Per un attimo ho come un sussulto, e quasi rovescio tutto. Ma recupero la fermezza, e niente cade. Tutto tranquillo.

    Lo strano liquido giallognolo che s’è formato comincia a bollire. Bollicine evanescenti appaiono ai suoi bordi, ellittiche come la forma del cucchiaio, e il liquido si addensa. Non l’avevo mai visto in quel modo, fa paura solo a guardarlo.

    Prendo la siringa. Appoggio l’estremità dell’ago a un piccolissimo batuffolo di cotone, imbevuto nella sostanza. Tiro lo stantuffo.

    Mentre guardo il mio strumento di morte non riesco a pensare ad altro: la mia testa, il mio corpo, la mia vita è tutta lì, in quella siringa che si sta riempiendo. Ecco, è piena.

    Osservo scrupolosamente il mio braccio sinistro. Ho il gomito disteso, posso scegliere la vena in cui entrerà la dose letale. Un leggero dolore accompagna l’entrata dell’ago. Aspetto fino a che non vedo il rosso del mio sangue mischiarsi a quello dell’eroina. Mi fermo, tiro un sospiro. Poi spingo lo stantuffo in direzione opposta, dentro di me.

    Non sono arrivato neanche a metà, e la testa già comincia a girarmi. Faccio uno sforzo, stringo i denti e continuo.

    Sento un fischio prolungato nascere nelle orecchie, fino a penetrarmi nel cervello con prepotenza. Non mi fermo, non ancora.

    Il fischio cessa, e solo allora riesco a rilassare la mano, facendola cadere rovinosamente lungo il corpo, distesa.

    Un’onda di calore immensa mi pervade la bocca, esplodendo. Riesco ad abbozzare l’ultimo sorriso, poi il silenzio.

    Sono morto.

    Capitolo 3

    Dhalipur, giugno 652

    Come sempre, nei giorni che precedevano l’arrivo dei monsoni, gli ultimi prima che le grandi acque cominciassero a riempire le pianure e a rendere l’aria insopportabilmente umida, Ramaji passava gran parte del suo tempo rincorrendo una palla fatta di stracci, tenuti insieme da sottili corde di canapa e colla di pesce.

    Aveva quasi dieci anni, ed era un ragazzino magro, di statura media e grandi occhi neri, ma soprattutto un velocissimo corridore, il giocatore più ammirato in quella specie di torneo che si teneva ogni anno a Dhalipur, uno dei villaggi della costa occidentale del Kerala, profondo sud dell’India. Vi partecipavano tutti i ragazzi dei paraggi, con l’unico vincolo di non essere in età da matrimonio - in quella regione ci si sposava quasi bambini – ossia non avere più di dodici, tredici anni. Era una tradizione antica, ed era molto seguita da tutti gli abitanti di quella località.

    La squadra vincente avrebbe avuto l’onore di aprire il corteo religioso che il mese seguente sarebbe sfilato per le vie del villaggio, portandosi sulle spalle l’impalcatura di bambù dove Ganesh, il dio-elefante di cui tutti, in quel paese, erano fervidi devoti, troneggiava.

    Le regole del gioco erano semplici: vinceva chi avrebbe fatto più punti, uno per ogni volta che fossero riusciti a depositare la palla in un buco scavato nel centro di uno spiazzo ai margini del villaggio, prossimo a dove cominciava la grande foresta che li divideva dall’oceano. Molti padri di famiglia ricavavano da quel mare il provento del duro lavoro di pescatori, alla ricerca di coralli pregiati, o a caccia di gamberi rossi e aragoste, sfidando le mortali razze dalle code uncinate e gli squali affamati, in attesa di incaute prede.

    Ramaji, assieme ai ragazzini che vivevano in casupole uguali alla sua, nella parte più povera del villaggio, amici di sempre e coi quali passava quasi tutto il suo tempo, aveva formato la squadra che era arrivata alla grande finale, e aveva ora l’arduo compito di battere l’altra finalista, quella della via del mercato, vincitrice dell’anno precedente.

    Il loro allenatore, un nervosissimo adolescente di quindici anni – già sposato, quindi - li spronava dal bordo del campo di terra battuta sbracciandosi come un matto, sbraitando ora il nome dell’uno, ora quello dell’altro nel tentativo, vano data l’indubbia migliore tecnica degli avversari, di coordinare l’azione della squadra verso l’obbiettivo principale, la vittoria. La cosa non sarebbe stata facile: quelli del mercato, più esperti, erano riusciti a fare centro già tre volte durante i primi minuti della partita, ed avevano quindi un considerevole vantaggio su di loro.

    Mancava poco alla fine del gioco, ed era essenziale depositare la sfera nella buca, per aver quindi diritto a un lancio piazzato, che avrebbe potuto ribaltare la situazione: in quel modo, infatti, data l’enorme difficoltà del colpire il sottile palo di eucalipto piazzato alla fine del campo - ad una trentina di metri - con un solo calcio, l’impresa sarebbe stata ricompensata con ben tre punti. L’altra squadra aveva già avuto per due volte la stessa opportunità, e per due volte l’aveva sprecata.

    L’unica possibilità, se ancora ne esisteva una, per ribaltare le sorti di quella partita ormai a una manciata di minuti dalla fine e quasi ineluttabilmente persa, era perciò proprio quella: riuscire a mettere la palla in quel buco, prima, e colpire il palo innalzato a bordo-campo, poi.

    Ramaji stava correndo dietro uno degli avversari che, palla in mano, si stava lanciando inesorabilmente verso il centro del campo. Il suo punto sarebbe stato l’epilogo di quella sfida, il valico insormontabile che avrebbe consegnato, ancora una volta, il titolo nelle mani dei ragazzi della via del mercato.

    Senza pensarci due volte si allungò con una scivolata fino a raggiungere, con le sue, le gambe dell’avversario che, colto impreparato da quell’ostacolo, non riuscì a continuare la sua corsa verso la vittoria. Colpito, cominciò a dondolare pericolosamente a destra, e poi a sinistra, ondeggiando fino a cadere rovinosamente, con la faccia nella polvere ancora secca, provocando le risate dei molti spettatori ai bordi del campo.

    I tifosi della squadra ospite, però, piuttosto contrariati dalla manovra poco leale dell’avversario, si lanciarono violentemente nell’arena con l’evidente intenzione di punire il giovane Ramaji e, senza alcun impedimento, lo buttarono a terra riempiendolo di insulti e calci, abbandonandolo poi nella polvere.

    Ferito nell’orgoglio il ragazzino si dimenticò per un istante tutti gli insegnamenti del padre, preziose regole sui rapporti che avrebbe potuto intrattenere con i ragazzi della sua stessa casta e su quelli, soprattutto, che non avrebbe neanche potuto immaginare con chiunque appartenesse a quella dei bramini. La situazione però lo aveva messo di fronte a questa inimmaginabile ipotesi: quei suoi avversari appartenevano proprio a quella casta, la più elevata nella loro piramide sociale, e vivevano con le loro famiglie nelle vie attorno al mercato, la parte più elegante di quel villaggio

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