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Lasciami entrare nel tuo inferno (Policromia)
Lasciami entrare nel tuo inferno (Policromia)
Lasciami entrare nel tuo inferno (Policromia)
E-book258 pagine4 ore

Lasciami entrare nel tuo inferno (Policromia)

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Info su questo ebook

Nina è una giovane donna che, nel tentativo di sfuggire ai propri demoni interiori, decide di allontanarsi dal paesino siculo in cui ha apaticamente vissuto sin dall’infanzia. Grazie all’amicizia instaurata con Diego, un coetaneo segnato da un passato infelice, scopre una realtà differente da quella riscontrata in precedenza, che la spinge a trovare il coraggio di far sentire la propria voce nella lotta contro le discriminazioni sessuali e condividere, insieme alla famiglia, un peso troppo pesante da sorreggere: la propria omosessualità. La nuova vita della giovane, divisa tra il lavoro ai tavoli di un ristorante giapponese e le sedute di psicoterapia, viene stravolta dall’amore travagliato per la coetanea Adele, disinibita e sfuggente, e dall’incontro con Giacomo, un uomo con forti difficoltà relazionali conosciuto in sala d’attesa, che la mette al corrente del suo inquietante progetto: recarsi in Giappone, ad Aokigahara, nei meandri dell’inquietante Foresta dei suicidi. Nonostante le difficoltà iniziali e i continui diverbi causati da punti di vista del tutto differenti, Nina riesce a instaurare un rapporto confidenziale con l’uomo, il quale, grazie alla fiduciosa insistenza della sua nuova amica, comincia a considerare la possibilità di vedere la propria vita con occhi nuovi, fino a decidere di concedersi un’ultima opportunità. Le ingarbugliate vicende dei personaggi si intrecciano nel cuore pulsante della capitale romana; sfondo di tormenti, confessioni, solitudini e soluzioni apparentemente introvabili.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita8 gen 2019
ISBN9788833662015
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    Anteprima del libro

    Lasciami entrare nel tuo inferno (Policromia) - Giusy Pullara

    RINGRAZIAMENTI

    INTRODUZIONE

    L'idea di scrivere questo libro, come tutte le cose che acquisiscono valore dal punto di vista emotivo nonostante non fossero previste, ha preso vita un po' per caso, durante un sabato notte primaverile, in uno di quei momenti in cui si è parecchio stanchi per varcare la porta di casa e uscire a vivere la vita, ma troppo sognatori per sottrarsi alla magia della notte mettendosi a dormire.

    Perché i mostri che vivono dentro ogni essere umano, di tanto in tanto, sentono l'irrefrenabile bisogno di fuoriuscire, per depurarsi da tutta quell'aria infestata che sono stati costretti a respirare per anni e, spesso, i luoghi in cui preferiscono rintanarsi sono le pagine immacolate di un taccuino qualunque. E non importa se sia stata una giornata soddisfacente o meno, se l'ispirazione faccia la sua consueta visita oppure decida di rimanere a riposare: quei mostri bisogna assecondarli, costi quel che costi.

    Questo romanzo racconta una storia ingarbugliata, che prova ad abbracciare, tra le altre cose, un tema abbastanza ricorrente all'interno della società odierna: la diversità, in ogni sua forma, sia dal punto di vista individuale, sia relazionale.

    Una diversità così crudele da spingere le personalità più deboli, che si ritrovano a subirla sulla propria pelle come una pena detentiva, a lasciarsi cullare dall'ossessione della morte, quasi fosse un caldo cuscino sul quale adagiare il capo nella speranza di ricevere consolazione.

    Non mi arrogo l'autorità di predicare lezioni di vita. La mia unica intenzione è rappresentare un viaggio che possa condurre i lettori nei meandri dell'animo umano, nelle ossessioni più insane che lo tormentano quotidianamente, al punto da lasciargli credere che l'oscurità sia più clemente e affidabile di quella luce che, prima o poi, chiunque abbia attraversato un tunnel oscuro è destinato a vedere (no, non quella del treno).

    Mi piacerebbe affermare che sia stato scritto per il puro piacere di narrare una storia, ma sarebbe una piccola menzogna, perché si è trattato di un vero bisogno, più che di un semplice piacere. Un bisogno incontrollabile, come l'impulso di mettere sotto i denti un alimento qualsiasi pur di restituire energia al corpo, dopo un intero giorno passato a digiunare; una sorta di autoanalisi a cui non avrei mai pensato di poter dar vita.

    Ognuno conduce la propria parte più intima, quella che contiene i segreti inconfessabili, nel nascondiglio che ritiene più opportuno; io ho provato a farlo all'interno di un romanzo, nonostante sia il luogo meno sicuro di tutti per un segreto.

    Lasciami entrare nel tuo inferno rappresenta una pretenziosa proposta d'aiuto ma, allo stesso tempo, è anche una disperata richiesta di riceverlo, quell'aiuto, perché è solo rendendosi utili per qualcuno che è possibile prestare soccorso anche a se stessi.

    La cosa curiosa, per me che l'ho scritto, è stata scoprire come i personaggi che popolano questa realtà immaginaria vivessero di vita propria, e sia stata io a dovermi adeguare al susseguirsi degli eventi, non il contrario, come se qualcuno si fosse impossessato della penna e avesse scritto una trama differente da quella pensata inizialmente. Personaggi che non sono affatto i classici eroi o le personalità vincenti che è facile incontrare tra le pagine dei libri: sono l'esatto contrario. Ognuno di loro rappresenta la fragilità umana, il dolore, l'incapacità di confessare la propria reale natura alle persone care per paura di non ricevere la loro comprensione.

    Quando Gesù disse: " Gli ultimi saranno i primi ", forse non tutti attribuirono il dovuto valore a quelle parole così piene d'amore, rivolte a coloro che subivano emarginazioni ingiuste, ritrovandosi a fare i conti con la costrizione di dover tradurre nella solitudine il proprio stile di vita. Ecco, ogni singola pagina di questo libro è dedicata proprio agli ultimi, a quelli su cui nessuno punterebbe un solo centesimo, nemmeno gli stessi familiari, perché considerati un fallimento, nient'altro che carta straccia da gettare in una pattumiera. Eppure, anche gli ultimi, per quanto possa sembrare impensabile a chiunque si ostina a fissarli dall'alto come fossero scarti di cibo avariato, hanno le proprie vicissitudini e, di conseguenza, i propri tormenti con cui fare i conti.

    Attraverso la scrittura di questo romanzo ho potuto immaginare, a modo mio, le sensazioni che si impossessano dello stomaco e del cuore di un genitore dopo aver messo al mondo la sua prima creatura. Credo che il tutto si possa riassumere in un mix che comprende emozioni contrastanti: gioia, incredulità, paura. Ogni genitore rivolge una preghiera al cielo, prima o poi, affinché il proprio figlio possa acquisire la capacità di camminare da solo, soprattutto quando non potrà più essere al suo fianco a guidare ogni passo, come era solito fare durante gli anni infantili. Per me, nonostante questo figlio possa ancora essere considerato un neonato, quel momento è già arrivato: ho messo la mia creatura indifesa nelle vostre mani, nella speranza che possiate provare le stesse emozioni che ho sentito io nel partorirla.

    Accomodatevi sulla vostra poltrona preferita e lasciate che i protagonisti prendano vita accanto a voi, magari davanti a un tè fumante e una ciambella fatta in casa. Non abbiate fretta, raggiungeteli soltanto quando avrete abbastanza tempo da dedicare a loro, in modo da gustare ogni capitolo nel modo migliore. Chiudete la porta e prendetevi una piccola pausa dalla realtà.

    Permettete loro di coinvolgervi, sconvolgervi e suonare, con le loro mani ruvide, le corde del vostro cuore. Lasciate che le loro vicende vi attraversino e vi permettano di esplorarvi dall'interno, come una gastroscopia che inizialmente appare fastidiosa, ma poi si rivela salvifica. E perdonateli se, di tanto in tanto, vi faranno arrabbiare, impelagandosi in cammini deleteri che voi avreste desiderato poter consigliare loro di non intraprendere. Che volete farci, sono così cocciuti da non sentire ragioni! Non hanno prestato orecchio nemmeno alla mia voce che, fin dalla prima stesura, ha tentato in tutti i modi di indirizzarli verso la strada più sicura.

    Lasciateli entrare nel vostro inferno, senza più paura. E non dimenticate che le porte del Paradiso sono aperte per chiunque desideri raggiungerlo, a patto che sia disposto a percorrere il faticoso cammino che lo condurrà lì.

    Prologo

    Cara mamma,

    sai, quando mi fissi con quello sguardo, a metà tra il dolce e il dubbioso, con la preoccupazione di chi crede che ogni eventuale malumore possa dipendere da burrascosi rapporti con l’altro sesso, e mi domandi come vada con i ragazzi, il mio volto non si incupisce perché non sento il viscerale bisogno di renderti partecipe della mia vita sentimentale. Al contrario, non sai quanto mi piacerebbe sedermi insieme a te, sorseggiando una tazza di tè al limone, e poterti esporre tutti i miei dubbi riguardo i malesseri amorosi.

    Tu, come il più fidato dei medici, mi prescriveresti la cura più adatta, come hai sempre fatto per qualunque cosa turbasse la mia salute mentale. Quanto mi piacerebbe che i nostri cervelli potessero comunicare attraverso la telepatia. Ti immagini? Ogni paranoia svanirebbe, si scioglierebbe come il burro in padella. Non dovrei fare i conti con l’insopportabile timore che sento adesso, perché saprei già come la pensi, ancor prima di sentirti pronunciare una sola parola. Lo so, è impossibile. Ma sai quanto mi piace fantasticare sulle cose che non accadranno mai; è un artifizio che mi aiuta a renderle meno distanti e più sopportabili. Sono un mistero perfino per me stessa.

    Ricordi quell’estate di qualche anno fa, quando cominciai a perdere l’appetito in seguito all’assunzione di quegli antidepressivi che mi provocavano un sonno brutale già alle dieci di sera? Non riuscivi a spiegarti perché, da un giorno all’altro, fossi diventata così strana e priva di entusiasmo, perfino davanti all’unico luogo in grado di donarmi la pace: il mare. È stato proprio lì che mi sono resa conto di essere sfuggita, per un pelo, dalle grinfie malvagie della depressione. Ogni volta che qualche spiacevole episodio si divertiva a compromettere il buon umore, erano sufficienti i raggi del sole sulla pelle, una lunga passeggiata in solitudine e l’inconfondibile odore dell’acqua salata per ritrovare la serenità perduta.

    Quella volta, però, non fu possibile. Be', il colpevole era l’amore.

    I sintomi c’erano tutti, e sono certa tu l’abbia capito. Considerata la tua invidiabile discrezione, però, hai preferito farmi credere di non esserci arrivata, cosicché io potessi sentirmi libera di parlartene al momento opportuno, quando l’ardente fiamma che si era insediata nel mio cuore avrebbe smesso di bruciare. Tutto quello che vorrei è chiederti scusa, per ogniqualvolta ti abbia fatto pensare di volerti escludere da ciò che accade nella mia vita. È la cosa che più mi spezza il cuore. Tu ripeti sempre, quasi a voler giustificare questa mia mancata comunicazione con te, che la mia riservatezza mi spinge a tenere tutto dentro. E invece, mamma, questo non corrisponde esattamente alla verità: è ciò che preferisco farti credere, perché nascondersi dietro una presunta predisposizione verso il silenzio è meno complicato che metterti al corrente del fatto che con ragazzi proprio non va, né bene, né male; perché nel mio mondo, gioie e dolori sono sempre dipesi dall’altro sesso, che poi è anche il mio.

    Com’è facile scriverlo, e se solo riuscissi anche a pronunciarlo senza che la sudorazione aumenti a dismisura, come in un infernale pomeriggio d'agosto...

    Ho deciso di rifugiarmi su questo foglio, testimone dell’immenso amore che nutro per te, finché non sarò abbastanza forte da trovargli una dimora che non sia il mio comodino. È come se contenesse quella parte della mia anima che non ho mai avuto il coraggio di mostrarti senza indugiare, ed è per questo motivo che lo custodisco con così tanta attenzione. Ormai non conto più le soffocanti notti trascorse a rileggere queste righe fino alle cinque del mattino, ben attenta a non rovinare, con le lacrime, l’inchiostro blu.

    So già che sentirai una fitta al petto quando leggerai le mie parole, mossa dal senso di colpa da cui vieni pervasa ogni volta che non riesci a venirmi in soccorso. Ti sembrerà di non avermi mai conosciuta, ma credimi: non è così.

    Ti chiederai perché abbia atteso tutti questi anni, prima di presentarti tua figlia, mostrarti chi è davvero, quando le domande imbarazzanti vanno finalmente via, portandosi dietro anche le illusioni legate a quelle risposte che non arriveranno.

    Temevo tu potessi cacciarmi di casa, allora ho pensato di andare alla ricerca di un lavoro ben pagato prima di confessare tutto, in modo da poter trovare una sistemazione autonoma nella più tragica delle ipotesi.

    Che stupida, penserai, leggendo.

    Già ti vedo lì, a scuotere la testa con amarezza mentre rivolgi gli occhi al cielo, davanti a quest’accozzaglia di parole insensate, dettate dal delirio di chi non ha idea di cosa lo aspetti una volta vuotato il sacco. Ho imparato che la disperazione ti fa mettere in conto anche le ipotesi più improbabili; quelle che, a mente lucida, escluderesti a priori, e mai e poi mai riterresti plausibili. Vorrei solo tu sappia che alla radice dei miei sotterfugi c’è sempre stato il timore di infliggerti una coltellata, ecco perché ci ho messo così tanto. Spero tu possa trovare nel tuo cuore il modo di perdonarmi, un giorno.

    Ti voglio bene, mamma.

    Tua Nina.

    I

    Arrivederci, città di Pirandello

    Era già notte inoltrata quando mi ritrovai a vivere quell'esperienza anomala, del tutto inusuale, per la ragazza prudente che sono sempre stata. Il mio corpo era adagiato su alcuni sacchetti di plastica, al centro della piazza principale del paese, denudato e trepidante come un condannato a morte in attesa di esecuzione. Solo un lieve strato di sudore rivestiva la mia pelle minacciata da quel clima ostile. La moltitudine di gente che mi circondava non sembrava sorprendersi molto di quella condizione; tutti proseguivano indisturbati per la propria strada, come la se la visione di una massa corporea accasciata a terra fosse cosa di poco conto. A giudicare dal frastuono proveniente dalle viuzze collegate allo spiazzale, doveva essere in corso la celebrazione di colui che ha sempre riscosso più successo, tra i fedeli del paese: San Giuseppe. La mia lucidità mentale era in procinto di dileguarsi, ma fui comunque in grado di osservare tutto, seppur in maniera annebbiata: l'impaziente fila dei bambini davanti alle bancarelle di zucchero filato; la religiosa sfilata dei credenti che si affollavano in prossimità del carro, nel tentativo di sfiorare il volto della statua; il fumo proveniente dai pentoloni in cui veniva preparata la tradizionale minestra a base di legumi e verdure. Cercai di rialzarmi e fare ritorno a casa, ma le gambe si ostinavano a non rispondere ai comandi, come se una catena di ferro, mossa da qualche forza oscura, cercasse di tenerle inchiodate al manto stradale. Sul finire della processione sopraggiunsero i miei amici che, allarmati dallo stato critico in cui giacevo, sollevarono il mio corpo da terra e lo avvolsero in una coperta, cercando di alleviarne i continui tremori. Solo a quel punto mi resi conto di non essere in preda ad alcuna allucinazione o visione. Doveva trattarsi per forza di un sogno: io non ho più nessun amico di cui potermi fidare.

    Il treno che mi avrebbe condotta nella città eterna era giunto a destinazione da qualche minuto, insieme al violento temporale con cui la stagione estiva aveva salutato le campagne siciliane prima di concedersi al clima autunnale.

    «Hai preso tutto?» bisbigliò mia madre, la voce ancora impastata dal sonno.

    «Sì, mamma. È la trentacinquesima volta che me lo chiedi» ribattei.

    «Ti ho messo le polpette nello zaino, nel caso ti venisse fame, durante il tragitto...»

    «In effetti, chi è che non fa colazione con le polpette?» Sorrisi.

    «Fatti abbracciare. E chiama quando arrivi, mi raccomando!»

    Non riusciva a fare a meno di trattarmi come una marmocchia in partenza per la gita di quinta elementare, nonostante avessi oltrepassato quella soglia da più di un decennio.

    «E ricordati anche di non esagerare con la cioccolata!» aggiunse mio padre, avviandosi verso l’auto parcheggiata poco più lontano.

    Rimanere in disparte era sempre stato il suo modo di affrontare le partenze. E se una normale escursione nei dintorni era in grado di mandarlo in apprensione, figuriamoci un trasferimento, a tempo indeterminato, in un’altra regione d'Italia. Eppure, quella volta non fiatò. Lui non si opponeva quasi mai, non si scomodava nemmeno a mettere in discussione le mie scelte, ma le occhiate che mi rivolgeva per esprimere il suo dissenso erano bravissime a far pesare, come un macigno, quell'indipendenza che cercavo di conquistare.

    «Presterò attenzione ai tuoi suggerimenti solo quando smetterai di fumare!» risposi in tono di sfida.

    «Guarda che troppi zuccheri fanno male quanto la nicotina» puntualizzò.

    Era incredibile come la dipendenza possedesse la straordinaria capacità di annebbiare il suo cervello, al punto da portarlo a fare quegli improbabili paragoni.

    «Questa è bella!» Sbuffai. «La cioccolata, quantomeno, non avvolge i polmoni di catrame, papà!»

    «A bordo, su, non ho mica tempo da perdere!» gridò l'autista ai passeggeri, liberando il fumo dalle narici.

    Salutai i miei genitori e presi posto sul sedile accanto al finestrino, l’unico rimasto libero, di fianco a un signore di mezza età che non aveva perso tempo a schiacciare un pisolino, forse per ingannare l'attesa. La sua giacca odorava di tabacco e acqua di colonia. Sembrava un brav'uomo, uno di quelli che, una volta giunta l’alba, con la tempesta o col sole, si alzano di soprassalto per cercare di garantire un solido futuro ai figli, a dispetto degli acciacchi fisici che sopraggiungono con l’età.

    Vista dal suo punto più alto, nonostante la monotona fila di palazzi tutti uguali, la cittadina pareva molto più pittoresca di quanto non fosse in realtà: le luci in lontananza, il silenzio tombale e i colori mattutini la rendevano insolitamente suggestiva. Per la prima volta, provai un inspiegabile senso di colpa nell’abbandonare il luogo in cui ero nata.

    Mancava una settimana alla scadenza che avevo prefissato per affrontare, insieme alla mia famiglia, l’argomento che per anni avevo creduto fosse giusto insabbiare: la mia omosessualità.

    Scadenza a cui non ero stata in grado di tenere fede, nonostante avessi iniziato presto a sentirmi come un contenitore di latte scremato in procinto di diventare acido. Quel silenzio, prolungato nel tempo, era diventato un veleno letale che si divertiva a infestare le pareti dello stomaco, come un esercito di larve indispettite. Non è forse lì che si fermano tutte le parole non dette? I più temerari lasciano che queste corrano fino a fuoriuscire come prigionieri stremati; i vigliacchi come me, invece, preferiscono bloccarle ancora prima che possano trasalire fino alla gola, la zona rossa per eccellenza per chiunque stia nascondendo un segreto indicibile.

    Uscivo da un periodo cupo, forse il più buio che avessi mai vissuto. La mia vita, nella provincia agrigentina, era sempre stata piatta, priva degli stimoli di cui ogni essere umano necessita per potersi dire entusiasta del luogo in cui si sveglia al mattino. Avevo deciso, seppur tentennando, di abbandonare il paesino per cui avevo sempre nutrito quel contrastante rapporto di amore-odio in attesa di un segno provvidenziale che mi facesse tornare sui miei passi, così da poter evitare il retrogusto amaro di un eventuale fallimento. E quel sogno, apparentemente indecifrabile, aveva rappresentato una scossa emotiva così potente da spingermi ad agire, senza pensare alle conseguenze. Doveva trattarsi di un messaggio che l’anima avrebbe desiderato recapitarmi da chissà quanto tempo.

    La vergogna era stata la colonna portante della mia intera esistenza: non avevo mai avuto la capacità di instaurare quel legame così familiare, quasi asfissiante, con nessun altro tipo di sensazione.

    Sembrava non vi fosse la benché minima speranza di trovare un compromesso, un interruttore che spegnesse quello sgradevole senso di sporcizia di cui avevo imbrattato la mia vita interiore, come se una legione demoni inferociti si fosse impossessata della mia testa e provasse un perverso piacere nell’angustiarmi.

    Mi ero sempre ben guardata dall’affidare una responsabilità così significativa alla fanciulla che ero stata, ancora troppo acerba per poter fare i conti con la durezza della vita. L’età adolescenziale è lo scoglio più duro da superare, soprattutto quando ci si rende conto di appartenere all’altro lato della barricata, quello in cui tacere è indispensabile, se si vogliono preservare tutti i rapporti costruiti nel corso del tempo. Avevo imparato a prendere confidenza con le prime bugie, quelle definite bianche , forse perché permettono a chiunque le pronunci di mantenere la coscienza pulita come quella di un bambino, pur mentendo. Assecondare i vari apprezzamenti sugli addominali del ragazzo più desiderato dell’istituto mi concedeva la momentanea illusione di nutrire gli stessi desideri delle mie coetanee. Non era affatto così, ma il timore che un’eventuale confessione potesse mandare tutto in frantumi superava ogni altra aspirazione, anche quella di raggiungere la piena libertà che, in fondo, non avevo mai accarezzato.

    Ma quante gocce di verità bisogna somministrare prima di potersi ritenere

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