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Oltre l’ultimo respiro
Oltre l’ultimo respiro
Oltre l’ultimo respiro
E-book216 pagine3 ore

Oltre l’ultimo respiro

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Info su questo ebook

Stefano Tolsi è il capo ricercatore della filiale di Bari di un colosso farmaceutico statunitense, la Longlife Chemicals. La produzione del Traveres, un farmaco destinato alla cura di una malattia degenerativa, fa gola alla mafia internazionale intenzionata a trasferirlo sul mercato nero della sanità. Sembra questa la chiave di una serie di omicidi che investono di sangue il capoluogo pugliese. La tranquilla vita di Stefano viene così travolta e suo malgrado si trova invischiato in una situazione ingarbugliata, che vedrà l’intervento dell’Fbi e il trasferimento della moglie e delle due figlie in una località protetta. Insieme alla sua amica di sempre nonché collega, Daniela, diventa protagonista di un’indagine tortuosa, che si rivela essere anche un viaggio nei sentimenti e un tuffo nel passato. Verità nascoste, colpi di scena, un intreccio di vicende che lasciano con il fiato sospeso in attesa del finale, oltre l’ultimo respiro.

Livio Vignale nasce a Bari il 6 novembre 1964 ed è impiegato nella pubblica amministrazione. Negli anni post-diploma si divide tra i primi lavori e la sua grande passione, la musica. Si iscrive alla Siae superando gli esami di autore della parte letteraria e compositore non trascrittore. Compone più di cinquanta brani, ma il sogno nel cassetto è quello di scrivere qualcosa che resti “per sempre” negli occhi e nel cuore di chi gli vuol bene. Nasce così Oltre l’ultimo respiro, il resto è scritto tra le righe di queste pagine.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2020
ISBN9788830633186
Oltre l’ultimo respiro

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    Anteprima del libro

    Oltre l’ultimo respiro - Livio Vignale

    COVER_Vignale.jpg

    Livio Vignale

    Oltre l’ultimo respiro

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3015-4

    I edizione novembre 2020

    Finito di stampare nel mese di novembre 2020

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Oltre l’ultimo respiro

    Introduzione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo. Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    "Ci sono giorni in cui

    sia la felicità che l’inferno

    vivono in ognuno di noi,

    nel nostro cuore".

    "Ci sono lacrime che si fermano nel cuore

    e non scendono dagli occhi".

    Grazie Enrica,

    Amore Mio,

    per avermi donato

    due splendidi raggi di sole,

    Ilia e Nicolò.

    Ai Miei Angeli

    N.A.I.M.

    Prologo

    Veniamo a conoscenza di episodi tanto efferati da straziarci l’anima, ma allo stesso tempo sicuri di non viverli mai nel nostro cammino poiché l’inconscio rifiuta a priori l’idea che possano verificarsi, e invece…

    Conosciamo persone per le quali saremmo disposti a mettere le mani sul fuoco, accecati dalla loro onestà intellettuale e integrità morale, e invece…

    Osserviamo scene illogiche il cui unico contesto concepibile ove collocarle, semmai ce ne fosse uno, sarebbe in un film da guardare in prima serata, comodamente seduti sul divano di casa, in compagnia di un bicchierino post cena, e invece…

    E invece la vita, bizzarra com’è, ha in serbo sorprese inaspettate, alla stregua di quando eravamo piccini e con il cuore traboccante di felicità, che batteva all’impazzata, ci apprestavamo ad assaporare la notte della vigilia di Natale. Una notte bellissima e ineguagliabile, che aspettavamo con gioia smisurata per trecentosessantacinque giorni all’anno e di cui non ne avevamo mai abbastanza.

    Una delicata magia che fluttuava nell’aria e raggiungeva il massimo del piacere quando scartavamo il nostro pacco regalo, accoccolati ai piedi di un albero accogliente e scintillante e i nostri occhi sembravano illuminarsi di quelle stesse luci.

    Ma proprio nel momento in cui si varca la soglia che separa la fanciullezza dall’adolescenza, ci si rende conto di quanto le sorprese non siano sempre sinonimo di magnificenza e dunque portatrici di buone nuove, anzi.

    Ogni mattina ci svegliamo con la certezza di dover ripetere mnemonicamente tutte quelle situazioni che nel corso del giorno si susseguono, come onde in un nostalgico mare d’autunno, dalla colazione al meritato riposo.

    Ieri è stato uno di quei giorni. Ero certo di essermi destato nelle vesti di un uomo normale, in una vita normale e in uno status normale, ma purtroppo non è andata assolutamente così, al contrario. I secondi, i minuti e le ore che ho vissuto in seguito si sono rivelati gli ingredienti perfetti dell’imprevedibilità.

    Ho stretto la mano a un uomo che faceva il suo ingresso trionfale nell’azienda presso la quale lavoravo e tutto immaginavo, tranne il fatto che di lì a breve avrebbe rivoltato come un calzino la mia vita e quella di tutti coloro che in qualche maniera erano, o sono ancora, legati a me; una figura pacata agli occhi di tutti, compresi i miei, e decisamente competente, al punto da essere considerato il messia della medicina, l’ultima ancora di salvezza per tutte quelle persone meno fortunate. Si annidava in tutti noi quella voglia irrefrenabile di contribuire, in un giorno neanche troppo lontano, alla realizzazione di un sogno: offrire una vita migliore a un numero considerevole di persone, o almeno era questo l’obiettivo che ci eravamo prefissati di raggiungere con il frutto del nostro lavoro.

    Invece quell’uomo ha modificato spietatamente i miei giorni a seguire.

    Mi presento: sono il dottor Stefano Tolsi, capo ricercatore alla Longlife Chemicals.

    Benvenuti nel mio mondo. D’ora in poi nulla per me potrà tornare come prima.

    Ci sono storie che non vorremmo mai raccontare e che mai vorremmo vivere in prima persona. Questa è la mia.

    L’inizio

    Al sopraggiungere dell’imbrunire, un attimo prima che la stanchezza prenda il sopravvento sul mio corpo, assumo sistematicamente la stessa posizione. Mi fa compagnia un sorriso imperioso che omaggia di lucentezza i miei lineamenti. Un’abitudine che ho sin da quando ero ragazzino e che nasce dalla parte più intima del cuore. Nel momento in cui socchiudo gli occhi, l’ultimo entusiasmante pensiero è rivolto all’arrivo del nuovo giorno che porterà con sé tenere gioie o crudeli fallimenti, amori intensi o addii inattesi, amicizie resistenti al vento o fragili rapporti che patiscono la distanza e il silenzio, mani che si cercano e trasudano armonia in ogni singolo gesto o spalle curve stordite dal tempo.

    Un vortice di emozioni che vestiranno il domani di un giorno straordinario, un giorno da amare in ogni sua piccola sfumatura e da vivere nel migliore dei modi, a prescindere da quello che ci riserverà. Perché ogni giorno che nasce è un inno alla vita, da gustare nella sua totalità, grazie agli sguardi e all’anima, affinché si modifichi in un ricordo indelebile, da custodire con grande cura in un cassetto chiuso a chiave.

    E invece adesso dove mi trovo? Sono disteso allo stesso modo, ma privo del solito sorriso: la guancia destra è posata su di un asfalto gelido e deserto, mentre la sinistra è intrisa di un numero infinito di sottili gocce di pioggia. Triste e ragionevolmente cosciente che domattina non mi sveglierò nel mio letto o forse non mi sveglierò affatto e questa, viste le circostanze, è la possibilità più reale.

    Piangiamo simultaneamente, io e la pioggia, per le strade di questa città, in un giardino scevro e appartato, in un fermo immagine di vita che per molti risulterebbe insignificante ma non per me. Il tutto si svolge nella più assoluta indifferenza, distante come sono dagli umori della gente. Il mio corpo sta per arrendersi. Seppur debolmente, riesco ancora a distinguere in lontananza voci e passi che si mescolano tra di loro come carte su di un tavolo da gioco. C’è chi ride, chi fischietta gioiosamente un motivetto, alcuni che tuonano la propria rabbia, altri che si baciano di un amore sincero e altri di un amore nascosto, qualcuno che passeggia discutendo animosamente con la propria solitudine e qualcun altro, al contrario, sottobraccio a un contagioso buonumore.

    Tanti, sin troppi per essere notte fonda, eppure nessuno avverte la mia presenza. Resto solo, ignorato e impaurito, con l’inquietudine e lo stupore stampati nelle iridi.

    Vorrei chiedere aiuto e urlare al cielo tutta la prostrazione che provo, ma non riesco a farlo. Le forze mi stanno lasciando. La mia voce si nasconde nel petto, paralizzata com’è a causa dello strazio. Sono qui, fradicio e abbandonato come un cane randagio. Perché proprio io? Perché è capitato a me? Sono le ultime due domande che restano a galla nella mia mente, un secondo prima che gli occhi si chiudano stancamente e nel medesimo istante si spengono anche le luci di quel bar laggiù proprio come me, lentamente… lentamente… lentamente…

    Un anno prima

    Oggi è uno di quei giorni in cui mi soffermerei ore e ore a contemplare la maestosità di ciò che mi circonda. Dal sole, alto e luminoso, si tuffano raggi in un delizioso mare azzurro, mentre il cielo, vanitoso, si specchia confondendosi nello stesso colore. Le tante biciclette si inseguono fiancheggiando il lungomare, addobbato a festa per il raduno nazionale degli alpini. Il trillo dei clacson si unisce armonioso all’allegro vocio dei bambini che salutano la lunga e ordinata carovana, prima di allontanarsi con i rispettivi genitori. Gli invitanti odori della colazione si affacciano dalle finestre spalancate sulle vie adiacenti, dove un’onda di persone risveglia la città.

    Osservando il magico scenario riaffiorano improvvisamente e delicatamente i ricordi fanciulleschi delle domeniche mattina, quando stretto tra mio padre e mia madre attraversavo questa stessa strada. Mi guidavano in direzione del parco attiguo per tirare due calci a un pallone o per inseguire allegramente, come fossi una farfalla, una fila disordinata e colorata di bolle di sapone. Ero felice di andare a giocare in quel giardino che affettuosamente chiamavamo «la villa», la nostra villa.

    Ero ancora un bambino e, complice l’ingenuità di quell’età, fantasticavo su come sarei diventato da grande. Mi frullava nella mente un’idea affascinante: la mia vita sarebbe stata leggiadra e appassionata, come se mi apprestassi a leggere un romanzo stupefacente. Per passare da una pagina all’altra mi sarei avvalso di un impercettibile battito d’ali. Non sarebbe stato difficile apprendere i concetti basilari del volo: era sufficiente ammirare le movenze di quei variopinti e festosi aquiloni che danzavano eterei sopra la mia testa. Pagine di vita tanto spensierate quanto effimere. I fili d’argento, che appaiono quando meno te lo aspetti tra i capelli neri come l’ebano, azzerano di fatto quelle stesse emozioni. È vero, cessano di far parte del nostro bagaglio culturale, ma si ripresenteranno all’improvviso nel cuore dei nostri figli. Il nostro compito è insegnare loro la bellezza e il valore di quei momenti, perché la vita è paragonabile a una giostra: ci sali esultante ed emozionato, ma ultimato il giro, restano esigui richiami ai ricordi, distratti come siamo dalla frenetica routine quotidiana.

    La vita è una meravigliosa invenzione ed è un andirivieni di emozioni. Si veste di purezza quando la osservi e la vivi con gli occhi e il cuore di un fanciullo, ma poi quell’ingenuità si scioglie, come fosse neve al sole, quando si è grandi e tutto diventa insofferentemente abitudinario.

    Perso nei pensieri, parcheggio la mia auto nelle vicinanze della grande struttura dove lavoro: è un edificio alto cinque piani, ubicato nella zona industriale di Bari, interamente bianco, come fosse un richiamo al candore che caratterizza la nostra opera, rivolta allo studio di nuovi medicinali, il cui fine è la speranza di una vita migliore per chi è meno fortunato di noi.

    L’industria farmaceutica Longlife Chemicals, un vero e proprio colosso internazionale, è stata fondata negli Stati Uniti d’America e più precisamente a Los Angeles dove ha sede il nucleo centrale. Mentre la nostra filiale, che conta più di settanta dipendenti, fa riferimento gerarchicamente a quella di Roma. Attualmente il fiore all’occhiello del nostro gruppo è rappresentato dalla ricerca di cui mi sto occupando in prima persona: il Traveres, una cura che in teoria dovrebbe rivoluzionare il processo conoscitivo medico su una delle malattie più nocive del secolo.

    Alla buona riuscita di quest’operazione è legata, altresì, la possibilità che la nostra sezione possa avvantaggiarsi nell’immediato futuro di una corposa espansione a livello di risorse umane e di nuova linfa a livello economico. È un’attività nobile e coinvolgente o almeno così lo era quando, non ancora ventinovenne, ebbi la fortuna di farne parte.

    A malincuore, ma con la stessa assoluta schiettezza, devo però riconoscere che sono diversi anni che ho perso l’antica verve. Sono demotivato e allo stesso tempo spazientito da talune presenze che rendono la mia permanenza all’interno dell’équipe lavorativa un vero inferno.

    Faccio buon viso a cattivo gioco e, sforzandomi di mettere in mostra un sorriso sereno e cordiale, saluto tutti i colleghi presenti, affacciandomi nelle varie stanze che incontro lungo il corridoio, in fondo al quale si trova il mio ufficio.

    «Buongiorno a tutti».

    «Ciao, buongiorno a te».

    L’identica, monotona risposta di sempre. Si ripete giorno dopo giorno come fosse una nenia. Né una parola in più, né una parola in meno.

    Avvio il computer, il tempo di una rapida occhiata alla posta in arrivo, sistemata sulla mia scrivania, e di lì a poco il dottor Raffaele Sandoni, il responsabile dell’area ricerca, gesticolando con la mano, mi invita a seguirlo con atteggiamento arrogante nel salone adiacente. È proprio lui la causa principale del mio malessere. Ogni mattina le sue parole e il suo modo di porsi hanno lo stesso tono di un vigoroso pugno diretto all’altezza dello stomaco che fa male, fa tanto male.

    «Tra meno di due ore ha inizio il meeting con il team di Los Angeles. Sono arrivati in città, preannunciati da mail e telefonate bellicose, per disquisire del Traveres. Dobbiamo dar loro una spiegazione convincente che giustifichi il ritardo in merito alla consegna del prodotto. Mi attendo feroci critiche a tal riguardo, oserei dire anche a ragion veduta, vista la vostra incapacità a chiudere il cerchio. Dobbiamo essere esaurienti nella nostre disamine per tutelare sia il nostro posto di lavoro sia il buon nome dell’azienda. È in ballo la reputazione di ognuno di noi, dobbiamo farci trovare pronti nel rispondere alle loro controdeduzioni. Cancella tutti gli impegni, indossa il camice e raggiungimi di corsa».

    Il maggior pregio del dottor Sandoni è la sua più totale mancanza di tatto, e ho detto tutto sulla personalità di colui con cui sono costretto a lavorare.

    Mi piacerebbe dirgli tra i denti «Buongiorno, eh?», ma sarebbe solo fiato sprecato: il saluto per lui è un optional, così come lo

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