Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ortensia Rakar e il Ladro di Anime
Ortensia Rakar e il Ladro di Anime
Ortensia Rakar e il Ladro di Anime
E-book359 pagine5 ore

Ortensia Rakar e il Ladro di Anime

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un rapporto di amore-odio lega la giovane Ortensia all'avvenente Valerio, nella sontuosa cornice di una Trieste fin de siècle.
Da un groviglio di incomprensioni, tradimenti, umiliazioni e crudeltà sgorga una storia complessa e dall'esito imprevedibile. Soprattutto, quando nel porto di Trieste viene ripescato il cadavere di un uomo cui hanno mozzato le mani. L’ispettore Bruno Tenze, incaricato di svolgere le indagini, porterà scompiglio nell’ordinata vita della bella Ortensia e ancor di più angoscia, inquietudine nella misteriosa vita segreta del marito, che si troverà al centro di atroci sospetti …
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2014
ISBN9788891132949
Ortensia Rakar e il Ladro di Anime

Correlato a Ortensia Rakar e il Ladro di Anime

Ebook correlati

Gialli storici per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Ortensia Rakar e il Ladro di Anime

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Ortensia Rakar e il Ladro di Anime - MariaTeresa Izzo

    twitter.com/youcanprintit

    Trieste, ottobre 1899.

    Ore otto del mattino, nello studio di Sua Eccellenza il giudice

    Valerio Rosati

    Una scampanellata lunga, insistente, e la densa penombra della camera ebbe una scossa improvvisa. Il cordone della suoneria vibrava ancora quando il corpo seminudo di colui che un istante prima l’aveva tirato con decisione, ricadde pesantemente fra i tanti cuscini sparsi sul letto. Troppo presto per alzarsi e la semioscurità della camera conciliava ancora l’intorpidimento dei sensi.

    I frettolosi o gli assonnati passanti che, alle prime luci d’un mattino d’autunno, si fossero trovati a passare sotto le finestre di quella severa residenza appena disturbata dallo scampanellio, nulla avrebbero potuto immaginare di ciò che avveniva dietro quegli scuri ancora chiusi sopra le loro teste. Soprattutto al di là della porta che divideva il rispettabile studio del giudice Valerio Rosati da un ‘privé’, da lui stesso arredato con originalità e ricercatezza, insieme a un grande sfoggio di libri.

    Tuttavia era il letto, situato di fronte a una finestra incorniciata da eleganti tendaggi cremisi, a destare un interesse davvero speciale. La sua ampiezza, le lenzuola di seta … la trapunta leggera che lo ricopriva costituivano un arredo gradevole allo sguardo e piacevole al tatto. E se di giorno il suo aspetto era senza dubbio di classico rigore, era di notte però che la più sfrenata immaginazione copriva e scopriva, trasformando le sue stoffe in onde stropicciate e avviluppanti su una fin troppo frequentata superficie… Ah, impudente di un giudice! Incurante della funzione primaria che ogni letto dovrebbe avere, continuava a trattarlo e a bistrattarlo, a usarlo a suo piacimento, proprio come fosse una specie di porto franco per un certo genere di peccati e trasgressioni, da consumarsi senza pagare dazi o imposte, dato che moralità e comune senso del pudore, senza la benché minima ombra di pentimento o rimorso, erano stati, da quei teli, da quelle coperte e soprattutto da quelle molle, sfrattati per sempre.

    — Sì, entra! — gli concesse, dopo il secondo toc alla porta, senza curarsi di girarsi né tanto meno di coprirsi.

    — Vostro Onore, i miei rispetti! Mi consenta di offrire a Sua Signoria i miei servigi prima dell’arrivo del suo cameriere.

    — …Lei? E lei cosa ci fa qui? Dov’è finito quell’idiota ? — lo investì sprezzante, poi più nulla. Il povero Eugenio, l’anziano custode del numero 7 di Piazza Vecchia, rimase lì, bloccato in un silenzio imbarazzante. Che fare? Non trovò di meglio che rinnovare l’offerta, con un inchino ancora più profondo, servile certo, ma quanto mai opportuno per prendere fiato e per salvarsi dalle nudità offerte ai suoi occhi.

    Sulla soglia dei quaranta, Valerio Rosati continuava a possedere un’avvenenza e un fascino notevoli, quasi eccessivi per un esemplare maschile, per quanto perfetto, addirittura dispotico, nella sua nudità: occhi nero-blu, tali da lasciare sconcertati chiunque li incontrasse, tanto erano intensi cangianti e profondi, sotto due sopracciglia brune finemente disegnate; zigomi piuttosto alti e appena pronunciati; labbra morbide, senza eccessi, ma di una forte sensualità, favorita anche dalla lieve curvatura del bordo inferiore, sfumato sulla liscia pelle del mento, privo di barba: una bocca, insomma, capace di suscitare nell’animo femminile una risposta altrettanto sensuale. E come se non bastassero queste caratteristiche, il viso aveva nell’insieme tratti generali delicati, femminei quasi, tali da conferirgli un’essenza di innocenza, quanto mai beffarda in un uomo profondamente nemico del mondo, e la cui presenza era da molti ritenuta inquietante, se non insopportabile.

    — Vuole servirmi? Bene, allora visto che si è introdotto qui lo faccia. E subito.

    — Vostro Onore ordini — confermò il custode, con un brivido di freddo sulla fronte velata di sudore.

    — Semplice, Eugenio, una sciocchezza per un uomo della sua esperienza: una ragazza è proprio quello che mi ci vuole. Certo, se ne trovasse più di una, ancora meglio. Ma subito!

    — Una che? — ripeté l’onesto e rispettabile custode con voce roca, mentre un’espressione grottesca gli rendeva il volto ancora più grigio.

    — Ora, si sbrighi … e non mi deluda … ci siamo intesi?

    — Come co ... comanda.

    Di nuovo solo, Valerio richiuse gli occhi e si rilassò. Era l’unica cosa che voleva. Riassaporare il gusto denso del sogno più volte interrotto, risentirlo scorrere in ogni sua fibra, fino alla saturazione. Ecco, gli sembrò di vedere e di sentire, di toccare e di essere toccato: Ancora supplicava, ancora!, ah, che meraviglia quella graziosa testolina bionda: una bocca leggera, instancabile, stimolante. Le dita, i capelli, le punte dei seni lo percorrevano, con ineffabili ondulazioni che, dalle spalle, lungo il suo dorso nudo, scendevano giù e poi risalivano, mentre le sue mani affondavano nelle fresche natiche, quelle stesse rotondità che ancora recavano le sue iniziali: la V sulla sinistra e la R sulla destra, da lui stesso incise con grazia, a suggello di un possesso concreto e duraturo, distribuito e condiviso con equità, tra tutte le altre sue donne. Certo, se poi alla sua naturale perizia calligrafica seguissero lievi ma inevitabili gemiti di dolore, poco male! Cosa c’è di più conturbante del delizioso passaggio dal dolore al piacere? Questa volta, però, a rendere il sogno assai prossimo all’estasi non c’era solo il rilievo delle sue iniziali sotto i polpastrelli, proprio là dove un uomo affonda di più le mani: c’era Ortensia, sua moglie, lì, accanto al letto: immobile, bianca in viso, con i pugni serrati, sconvolta. Riusciva a percepire il tremito che l’attraversava da capo a piedi. Il suo disgusto lo esaltava. Lei, la donna esemplare e la più riservata di tutta Trieste, sempre così prevedibile e scontata, colma di imbarazzo, pietrificata, come era già accaduto almeno un’altra volta in passato di fronte alla sua più morbosa e sensuale indecenza.

    Si rigirò. L’eccitazione era al massimo ma lontano il culmine. Il grido di trionfo gli restò dentro, però. Inesploso, catturato, stritolato, messo a tacere da qualcosa che all’improvviso aveva tramutato il suo piacere in una sorda, intima, infinita disperazione.

    ***

    Un’isola greca nel mare Egeo, lo stesso giorno alla stessa ora

    Sì, a tanta distanza e alla stessa ora, dopo una notte insonne Lisa Crocetti, alzatasi di buon mattino, con passo agile e portamento sinuoso, calpestava l’acciottolato di una scorciatoia imboccata per arrivare al porto, stringendo fra le mani un pacchetto azzurro. Il capitano Sivieri forse non aveva ancora dato l’ordine di levare l’ancora alla ‘Ventosa’ e la speranza di affidargli il pacchetto, che adesso con tanto trasporto stringeva al petto, le illuminava il viso. Immaginarlo poi nelle fidatissime mani del comandante, le mise le ali ai piedi. La strada e il porticciolo cominciavano ad animarsi. Dalle costruzioni candide e basse vide uscire donne affaccendate vestite di scuro, con grembiali di diversi colori allacciati in vita, e uomini dai calzoni ampi e le giacchette strette, e tra tutti lei camminava a testa alta, catturando sguardi ad ogni passo. Perché oltre al fatto di essere lì una straniera, era consapevole di essere una donna che non passava certo inosservata: vaporosa capigliatura color miele, sguardo intenso e penetrante in occhi castano scuro, a mandorla nell’ovale perfetto; naso piccolo e aggraziato; bocca morbida, ben delineata e in perfetta armonia con la delicatezza dei lineamenti. Sì, la giornata era cominciata sotto un buon auspicio. C’era una calma radiosa, un accordo fra gesti, occhi, strisciare di corde, tonfi soffocati di ceste messe giù, risuonare di passi, brevi commenti e silenzi che le facevano pensare a una concordia segreta e perfetta. Assaporava, con tutti i sensi, lo stato di grazia del momento, attraversando ogni cosa con la mente assorta e il cuore in tumulto, mentre i suoi occhi, colmi d’attesa, si fondevano con l’orizzonte marino. Superò l’ultimo ostacolo e con sollievo si lasciò accogliere dall’assolato porticciolo. Il vascello era ancora lì, immobile nella rada, pur fremendo per puntare la prua verso l’Adriatico, verso l’abbraccio del porto di Trieste. Affrettò il passo, convinta che aspettasse solo lei.

    ***

    Stesso giorno, più o meno alla medesima ora, in Villa dei Tigli aTrieste,

    Greta, la devota governante nativa del lontano borgo di Schwaz, là nella boscosa Carinzia, florida e bionda come una Cerere tedesca, oramai da dieci anni assolveva all’incarico di svegliare la padrona di casa.

    La signora, uscendo con sforzo da un sonno troppo breve e inquieto, se l’era ritrovata accanto al letto, con i fiori da lei preferiti stretti tra le braccia: un bel mazzo di sfarzose rose bianche e cremisi appena rifiorite e colte nella serra dove, almeno tra i fiori e le piante, i prodigi realizzati dalle sue infinite e amorose cure le riuscivano a meraviglia

    — Ti piacciono? Splendide, vero? Peccato svegliarti, ma es scheint schon lange her zu sein, il giardiniere è all’ingresso e chiede di discutere con voi, solo con voi.

    — Lo hai fatto accomodare in veranda? Fuori è ancora così freddo!

    Meine liebe Ortensia!’ esclamò fra sé con tenerezza, tornando a fissarla: i capelli divisi in lunghi nastri corvini le nascondevano in buona parte il volto madreperlaceo, persino al risveglio così esangue - si rattristò - e quanto alla voce di quella tenera donna, sembrava arrivare a lei dopo aver attraversato una coltre di nebbia dove gran parte della sua limpidezza si era smarrita, rendendola quasi un sussurro.

    — Gli hai chiesto se desidera qualcosa di caldo? — Si sentì in dovere di informarsi con una premura che almeno un po’ le ravvivò lo sguardo.

    — Ma sì ... — aveva replicato con un sospiro Greta, preoccupata piuttosto per lei. — Però non ha voluto niente: dice che c’è troppo lavoro di potatura da fare. — aggiunse sistemando i fiori in un vaso alto e capiente, sopra un tavolino addossato alla parete.

    — Ah! E il postino?

    — Eh? — Greta sospese la sua operazione per voltarsi a scrutarla con aria interrogativa.

    — Non è ancora arrivato, vero? Ultimamente sembra che arrivi ogni giorno più tardi, non trovi? — commentò Ortensia con tono amareggiato.

    — Può darsi, comunque starà per arrivare, credo. — ammise, accostandosi alla finestra e guardando in basso.

    L’altra sembrò rianimarsi, e subito passò a informarsi di Gloria, sua figlia. La risposta della governante la rassicurò strappandole un sorriso assai tenero. Greta si accingeva a lasciare la stanza quando la voce di Ortensia, attraversata da un impercettibile tremito, la fermò sulla soglia:

    — E lui ... Greta? È ancora in camera o sta già facendo colazione?

    — Signora, giudice Rosati ha dormito fuori casa stanotte. In studio, pare — le rispose asciutta.

    — Allora, cara, ritorna per favore dal giardiniere e riferiscigli pure che fra qualche minuto lo raggiungerò nella serra. Anzi, credo proprio che quando avrò finito con lui mi spingerò a fare due passi fino al porto, perché ho degli indumenti da portare agli Stansich.

    — Agli Stansich? ... — ripeté con malcelata irritazione. — Sarebbe stato troppo chieder loro la premura di venire fin qui, a casa della signora? E poi, al porto, da sola? Ma che idea! — aggiunse sgranando gli occhi — Fa freddo e non dimenticare poi che Amedeo è con suo ‘adorato’ giudice, così nein carrozza! — concluse agitando la testa in segno d’ammonimento.

    — Oh Greta, adesso smettila! — fu la secca replica di Ortensia e prima di sparire nella stanza da bagno per la sua solita toletta, aggiunse — Non trattarmi come un’inferma o una bambina.

    Mein Gott! Spero che tu non ammattisca del tutto, meine allerliebste Dame’. — mormorò fra sé. Ah, sapeva bene cosa si nascondeva sotto l’improvviso impulso di Ortensia: guarda caso quello era il giorno della settimana esatto in cui il Veliero che aveva portato Lisa Crocetti in Grecia, ritornava per la sua sosta quindicinale nel porto di Trieste. E sapeva, per averla seguita di soppiatto una volta, che era proprio sulla banchina destinata all’attracco della Ventosa che, ogni quindici giorni, si poteva trovare Ortensia Rosati Rackar in attesa. Con il buono o cattivo tempo.

    Con volto crucciato, lasciò la camera da letto della sua signora, ma prima di uscire le venne naturale gettare di nuovo lo sguardo sul letto: da troppo tempo oramai in quella bianca solitudine scorgeva solo l’impronta di un vuoto incolmabile. Di una liscia e sconsolata malinconia.

    ***

    Alla Taverna delle Tempeste, Porto Vecchio di Trieste:

    quella mattina presto, di fronte alla banchina ovest

    Il primo avventore del giorno era stato il vecchio Samuele. L’insonnia che lo affliggeva da tempo l’aveva buttato giù dal letto nel cuore della notte e così si era ritrovato nei pressi della Taverna ancora prima che facesse giorno.

    La proprietaria, la grassa e bronzea Aida Rosthi, dalla sua finestra proprio sopra l’entrata, se l’era visto gironzolare là davanti come una foglia sospinta dal vento. Per questo, senza neanche un sospiro né tanto meno una sola parola, aveva aperto il locale in anticipo. Adesso, alle otto o giù di lì, il suo affezionato cliente sedeva al solito tavolo, spezzettando del pane nella sua ciotola, in condizioni senz’altro migliori ma con l’espressione grave di chi rimugina su qualche pensiero molesto. Questo almeno fino a quando la porta non si aprì, perché a quel punto il suo sguardo tornò a essere quello di un tempo: vigile, sveglio, nonché diffidente.

    Conosceva l’uomo appena entrato, forse meglio di chiunque altro lì dentro, se non altro per averci già parlato, in tutt’altra e separata sede. A ragione sospettava — così sicuro di quanto erano veri i reumatismi che gli impedivano di alzarsi da una sedia senza dover stringere i denti — che non a caso l’ispettore si trovasse da quelle parti di buon mattino. Lo sbirciò socchiudendo le palpebre: alto, ben fatto, lo sguardo franco e attento, indossava la divisa d’ufficiale della Marina di Sua Maestà. Prima di sedersi al tavolo, si era tolto il cappello, rivelando una folta capigliatura, quasi bionda. I loro sguardi si erano subito incrociati, comunicando l’essenziale, prima di tornare con rapidità a fissare un punto diverso nella fumosa penombra della Taverna. A un cenno, Aida gli si avvicinò.

    — Illustrissimo Ispettore, quale onore! Cosa la porta in quest’indegno locale, così di buon’ora? — lo salutò con una luce appena beffarda dipinta sul viso e una tonalità furbesca nella voce, appena camuffate nel gesto di una sgraziata e falsa deferenza.

    — L’appetito, solo l’appetito, mia buona Signora! — rispose il simpatico giovane con una risata divertita, mettendo in mostra un’eccellente dentatura. — Quale altro motivo potrebbe mai esserci, mi dica? — aggiunse poi, senza smettere di sorridere e puntando uno sguardo inquisitivo negli occhi della donna.

    — Quale altro motivo? Boh! ... — reagì lei con una scrollata del capo. — Come potria io saperlo? Se non lo sa ella, Eccellenza, figuriamoci un’ignorante como mi! — concluse con aria compiaciuta e ben collaudata.

    Il giovane ufficiale sembrò non farci caso. Anzi, del tutto a suo agio, consumò con sorprendente soddisfazione la colazione che aveva davanti: uova, salsiccia, pane nero e caffè. E subito dopo, lasciando allibita la proprietaria, pretese un conto scritto dettagliato, con tanto di nome e prezzo di quanto aveva mangiato e bevuto.

    — È per il rimborso, sapete. — aggiunse rapido strizzandole l’occhio per attirarne la complicità, pur conoscendo bene quanto fosse scaltra.

    Così il donnone, sudando e sbuffando, di suo pugno annotò: pane, saisiccia, ova, senza dimenticare di bollare il foglio con autentiche patacche d’olio provenienti dallo sfrigolio in padella, proprio a un palmo dal suo grasso gomito.

    Intascata la fatidica ricevuta e lasciandosi la locanda alle spalle, l’ispettore raggiunse la banchina, già invasa da onde fragorose e spumeggianti. Si guardò intorno con aria casuale e infine, dal taschino del suo panciotto, estrasse il conto più un altro foglio che, con incerta grafia, recitava:

    Il vostro omo, l’asasino che cercate è il giudico Rosati, chiedete a egli cosa riceve da tanto aquestaparte.

    I risultati del confronto tra le grafie dei due foglietti non gli confermarono per niente l’idea che si era fatta sul probabile autore del messaggio in suo possesso. Non esisteva alcun dubbio: non erano stati scritti dalla stessa persona — fu costretto ad ammettere masticando delusione e disappunto. Erano trascorsi quasi tre mesi da quell’oscuro delitto, e lui continuava a girarci intorno, con l’intima convinzione di conoscere già il colpevole, pur non essendo mai riuscito a venire in possesso di una sola inconfutabile prova o testimonianza tale da inchiodare il sospettato numero uno: qualcuno potente, influente e fin troppo accorto per permettersi un qualsiasi passo falso.

    Rimise in tasca i foglietti e continuò a restare dov’era, eretto con lo sguardo sul bordo della banchina che precipitava nelle acque, come in attesa di essere raggiunto da una qualche imprevista e miracolosa intuizione. Un stante dopo, invece, si trovò con i piedi inondati dall’acqua: la cresta impetuosa di un’onda più alta delle altre lo aveva acciuffato per le caviglie e riportato così, imperiosamente, al cospetto del mare aperto. C’era un patto che da bravo marinaio aveva stretto con esso, un tempo. Quel giuramento d’onore lo obbligava a non fermarsi di fronte a nessun pericolo o tempesta, non prima di essere arrivato alla meta — qualsiasi prezzo occorresse pagare.

    ***

    Dieci del mattino di quello stesso rugginoso martedì di fine ottobre

    Due occhi umidi stavano contemplando, da alcuni minuti, un maestoso acero che proprio in quell’istante, al di là di un’estesa vetrata, stava perdendo anche l’ultima delle sue foglie fiammeggianti. Poco prima di sparire per la sua ultima destinazione terrena, la foglia aveva ondeggiato sospesa, dolcemente planando mentre il ramo da cui s’era appena staccata — nodoso come l’indice di un antico veggente — le stava indicando un preciso punto a Sud—Est: là, oltre la volta del cielo.

    In effetti, se solo quei due occhi neri, sorvolando mari rabbiosi e isole ubriache di luce, avessero potuto proseguire con lo sguardo seguendo quella direzione avrebbero visto ciò che, per loro fortuna, stava accadendo nell’approdo antico di un’isola greca: un delicato pacchetto azzurro era sul punto di iniziare il suo viaggio per raggiungerli. Ma in quel momento, questo era quanto, mai e poi mai avrebbe potuto indovinare lei, Ortensia Rosati Rakar, dai grandi occhi ombreggiati di malinconia, la fronte appoggiata ai vetri del suo salotto: perché non solo sarebbero trascorsi ancora tre lunghi mesi prima che quel dono inaspettato, rispondendo alle sue infinite preghiere, la raggiungesse ma soprattutto perché, al sopraggiungere del pacchetto lei si sarebbe trovata in circostanze del tutto imprevedibili: non più nella sua villa a Trieste ma in una boscosa regione austriaca, e non più in qualità di padrona di casa bensì di ospite, ricevuta dalla gentile Signora Bauer, della quale, in quel mattino di ottobre dell’anno 1899, non aveva che un ricordo grato ma lontano. Legato, purtroppo, a circostanze terribili ma, per fortuna, lontane.

    Come neanche poteva immaginare i burrascosi avvenimenti che si stavano già stagliando sul suo orizzonte. E di come lei solitamente con i piedi ben saldi a terra vi sarebbe addirittura andata incontro: quasi fuori di sé — come spesso capita quando ci si trova a oltrepassare l’invisibile passaggio che, dalla ordinata e ragionevole superficie del vivere quotidiano, ci fa in maniera del tutto inconsulta i precipitare nel labirinto delle viscere oscure della pura passione. Non poteva immaginarlo, certo, eppure sussultò forte al suono della scampanellata che le fece battere più forte il cuore in petto. Così, d’istinto, e contravvenendo in maniera inconcepibile al galateo della Perfetta Padrona di Casa, si affrettò, sospinta dall’ansia, verso l’ingresso. Con passi veloci e le vesti arricciate con un drappeggio sul retro delle gonne, fruscianti sul pavimento di marmo. La doppia porta, arricchita nella parte alta da spessi vetri colorati, era baciata, in quel momento, da una luce piena che ne trasfigurava radiosa la policromia. A pochi passi da quel chiarore, intriso di verde blu e oro, fasciata elegantemente in un abito di colore indaco, la figura di Ortensia spiccava per la statura superiore alla media, ereditata dalle origini slave della sua famiglia. Possedeva una figura slanciata e ben proporzionata dalle spalle ampie su un petto ben tornito, collo lungo, nuca dalla morbida linea, esaltata grazie ai due giri di treccia, avvolti come un nido sul suo capo. Sul volto, però, un ovale dalle linee classiche, sembrava mancare qualcosa. Come se una velatura lieve togliesse vita al suo incarnato. Anche gli occhi, grandi e scuri sotto grandi palpebre bianche, apparivano colmi di una rara e vellutata profondità, eppure avevano la capacità di diventare insondabili e oscuri se desideravano evitare lo sguardo di altri.

    Udì per la seconda volta il campanello proprio quando era già arrivata di fronte alla grande porta a vetri e in un attimo di esitazione si chiese dove mai fosse finita Donella, la cameriera col suo impeccabile grembiule di rappresentanza. Incapace di resistere, dopo un respiro profondo, si era fatta coraggio e, contro ogni buona regola dell’etichetta, si stava apprestando addirittura a fare gli onori di casa, quando l’arrivo di Greta alle sue spalle la sorprese con la mano affusolata già pronta sulla maniglia d’ottone. La governante, impegnata in un sopralluogo alle cantine al momento, era accorsa più in fretta che aveva potuto e, una volta giunta al corridoio dell’ingresso, era rimasta letteralmente esterrefatta. La sua nobile signora si preparava ad aprire la porta d’ingresso alla stregua né più, né meno di una qualsiasi domestica ... Le bastò, tuttavia, un solo sguardo alla vetrata per restare anche lei ipnotizzata dalla stessa visione e avere la spiegazione di tutto. Perché lì, dietro i vetri, era apparso il riflesso di una aggraziata figura femminile — la silhouette di una tenera, amatissima donna - possibile? ...-le aveva ammutolite. Ah, la memoria! Di quali scherzi non è capace quando la mente sovrappone il passato al presente, riportando in vita un altro momento già vissuto e poi, in apparenza messo da parte. Così, quell’inganno degli occhi e poi del cuore aveva catturato le due donne, portandole a riconoscere, nell’ospite apparsa oltre la spessa vetrata, un volto e un nome prima amati e poi perduti: quelli della giovane donna che, in un mattino di sei mesi prima, trascinata per i capelli da un’azzurra tempesta di vento, era di colpo apparsa su quella stessa soglia, pronta a scagliare, con la massima innocenza, parole così acuminate da colpire e trafiggere al cuore le sue ascoltatrici.

    ***

    Villa dei Tigli, aprile dello stesso anno

    Era accaduto alla fine di marzo, proprio quando la Bora da alcuni giorni, stava flagellando la città: gli alberi, le piazze, il mare ribollivano senza sosta. Il lato nord di Villa dei Tigli, grazie alla collina e al boschetto alle sue spalle, era in parte al riparo da quel turbinio, mentre il lato sud veniva scosso da raffiche che avevano trasformato le sue cento vetrate in altrettanti lupi ululanti, notte e giorno. La situazione era tale da sconsigliare, a qualsiasi persona di buon senso, di abbandonare le sicure mura domestiche, se non per estremo bisogno. Ma quale ragionevole misura di prudenza avrebbe mai potuto distogliere, quella mattina, Lisa Crocetti dai suoi inderogabili propositi? Si trattava di impegni, in verità, per lei di natura così eccezionale che sarebbe stato onestamente impossibile a una qualsiasi avversità o misura di prudenza, impedirle di portarli a termine. Immersa nella sua eccitata disposizione d’animo, quindi, era giunta persino alla singolare conclusione che quel vento furioso poteva, alla fin fine, rivelarsi un prezioso alleato o, se non altro, un importante segno di mutamento. Non era forse vero, aveva considerato camminando con passo leggero ed elastico, che il Vento, così impetuoso e trascinante, si potesse considerare l’elemento in Natura più intimamente affine ai cuori in balia di passioni e inquietudini? Così, confortata da questa sua personalissima interpretazione e ridendosela di quel violento turbinio, quasi cavalcandone le raffiche e sorvolando con leggerezza ogni difficoltà, stanchezza e ansia, aveva raggiunto il suo obiettivo. Alla fine i suoi piedini alati l’avevano deposta là dove il suo cammino finiva e cominciava assieme. Davanti alla porta di Ortensia.

    Aveva oltrepassato la soglia, incurante della lotta corpo a corpo che Greta e l’allampanato cocchiere che la seguiva erano stati costretti a ingaggiare per arginare gli assalti contro la porta d’ingresso dell’invisibile Generale Vento. Appena entrata aveva subito esultato vedendo la sua cara Ortensia in cima alla scala di mogano. Senza badare troppo al viso teso dell’amica, le andò quindi incontro assolutamente risoluta, proprio come se un’altra folata, più irruenta di quelle esterne, la sospingesse ancora, scagliandola verso Ortensia .

    Di statura media, d’aspetto gradevole e armonioso, mentre saliva le scale per raggiungere l’amica carissima, Lisa Crocetti emanava davvero una particolare radiosità: quasi una seconda pelle che appariva ancora più esaltata dall’alone opalescente della porta a vetri alle sue spalle. Sotto una fronte spaziosa e regolare, scintillavano due pupille castano scuro, accese da un’eccitazione così intensa da rasentare l’impudenza, mentre una cascata di riccioli, scomposti dal vento, le incorniciava un ovale davvero delizioso. A rafforzare l’impressione generale, per nulla infondata, che fosse una donna con la testa e il cuore garbatamente fra le nuvole, contribuivano, poi, sia il cappellino di raso viola—lilla, accordato all’abito ma tutto inclinato verso l’orecchio sinistro, sia l’abbigliamento, ricercato ma in uno stato di innocente disordine. Lo dimostravano i lembi della cintura non bene allacciati ; uno sbuffo a destra della camicetta più gonfio del dovuto e, infine, per completare il bizzarro miscuglio di grazia e intemperanza, i bottoni della redingote, risultavano abbottonati un po’ a casaccio. Ma non c’era stato tempo per ulteriori esami: il volto era radioso, gli occhi splendevano richiamando a sé tutta l’attenzione possibile.

    — Tesoro, indovina che cosa sto per dirti, anzi, no, come non detto — scosse la testa, cambiando parere con rapidità. – È del tutto inutile …, non ci riusciresti, mia cara, in nessun modo. — Aveva esordito stampandole due baci su entrambe le gote e godendo di tenerla un po’ sulle corde. — Vedi, cara ... — sussurrò con emozione prendendo teneramente le mani dell’amica fra le sue. — Non oso nemmeno dirlo ad alta voce: è come se fosse tutto un sogno, capisci? E io stessa ho paura di svegliarmi. — Poi tacque, giusto il tempo necessario per scendere le scale al seguito di Ortensia, decisa a spostarsi in salotto. — Ortensia! ... — l’apostrofò una volta in basso, non potendo fare a meno di notare l’andatura rigida dell’amica.

    — Sì, Lisa? Continua, ti prego — la interpellò dopo essersi seduta sul primo divanetto incontrato e dopo essersi decisa a guardarla diritto negli occhi. Indicò con la mano all’amica una poltroncina confortevole lì accanto. Non riusciva quasi a controllare l’ansia, ipnotizzata da quegli occhi brillanti e dalle guance accese.

    — Ortensia cara ...?! — esclamò come se le avesse letto nel pensiero, Lisa, ricambiando l’intensità dello sguardo dell’altra, senza però sedersi.

    — Meglio venire subito al dunque, cara, se non vuoi che mi preoccupi davvero. Dimmi tutto. — concluse riprendendo il suo abituale autocontrollo.

    — Il dunque, consisterebbe in questo semplice dato di fatto: sono riuscita a vincere la mia battaglia e ciò che non speravo più di ottenere dopo tanti tentativi inutili finalmente si avvera…cioè sta per avverarsi!- Si interruppe, appariva decisamente emozionata.

    — Hai tutta la mia attenzione, continua.

    — Si tratta di questo—annuì colma di entusiasmo— le ho convinte, finalmente! ...Sì, Evelina, Rachele e — pensa — persino Clara!.. Ancora non riesco a crederci. Sia quel che sia, Ortensia cara, ormai è cosa fatta…

    — Saresti così carina da mettermi al corrente di cosa stai parlando?— la interruppe dominando a stento la sua irritazione

    — Vengo subito al dunque allora. Sappi allora che ci aspetta un lungo viaggio, in assoluto il più ‘mitico’ e straordinario! — esclamò con enfasi sprofondando infine nella poltrona più vicina, con espressione sinceramente deliziata. Ortensia da parte sua non aprì bocca, in attesa.

    — La partenza è decisa ... — le sue pupille nocciola lampeggianti di passione fissarono quelle nere di lei. — Fra soli tre mesi saremo nientemeno …— fece una pausa accompagnandola con un sorriso malizioso — dirette in Grecia, a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1