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E-book370 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Due protagonisti irresistibili devono cambiare vita. Una catena di formidabili coincidenze li farà incontrare, a cinque chilometri da San Gimignano.
Lui, Fabrizio De Santis, è l'erede della più importante famiglia di notai di Milano. È pronto a costituirsi per una irregolarità che ha scoperto. Ma il padre, che già non stravede per lui, lo ferma sul più bello. E viene fuori che sì, l’irregolarità c’è, ma lo studio De Santis ne è ben consapevole e la usa per arricchirsi. Fabrizio viene diseredato e costretto a lasciare Milano. Per fortuna può contare sul suo amico Saverio, che gli affida un casale un po’ diroccato nei pressi di San Gimignano… Lei, Caterina Vanoli, vive a Boston, dove insegna architettura del paesaggio. Non è un buon periodo. La madre è scomparsa da poco. Il fidanzato con cui è stata cinque anni l’ha lasciata. Per telefono. E padre Joseph, il suo fidanzatino del liceo adesso sacerdote, deve farle una rivelazione. L’uomo anaffettivo e violento che l’ha cresciuta non era suo padre. Suo padre era, o forse è, italiano, toscano, e viene da un paesino chiamato San Gimignano…
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2020
ISBN9788830509627
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    Anteprima del libro

    Scrivimi - Paolo Longarini

    Febbre

    1

    Il cielo sembrava volerle cadere in testa.

    Intorno a lei, tutto stava urlando. Il temporale imperversava da giorni eppure la forza dei tuoni, quella sera, sembrava più violenta che mai. Theresa cercò di farsi ancora più piccola stringendo con maggiore forza le gambe contro il petto, ma anche così non aumentò nemmeno di poco il senso di sicurezza, come invece sperava. La luce era andata via ormai da quasi mezza giornata e a nulla erano servite le segnalazioni telefoniche che il padre continuava a fare al Servizio elettrico nazionale, potevano solo aspettare che la bufera passasse, esattamente come tutti gli abitanti della città. Nonostante l’ora tarda, sentiva ancora le urla rabbiose del genitore echeggiare attraverso le spesse pareti dell’antica casa di famiglia: solide mura di mattoni che avrebbero sicuramente contrastato l’urto di quell’incredibile tempesta. Forse.

    Per quanti sforzi avesse fatto, nonostante tutti gli psicologi contattati, la paura che Theresa aveva del buio e dei temporali non aveva mai accennato a diminuire, neppure ora che per la legge avrebbe potuto non solo guidare, ma anche bere alcolici. La sua stanza era il trionfo del bianco, ogni parete, ogni oggetto, ogni cosa contenuta al suo interno aveva il colore giusto per esaltare e riflettere la luce emessa in quel momento dalle decine di candele accese che la circondavano quasi completamente. La radio era spenta, esattamente come qualsiasi cosa funzionasse a elettricità in casa e nell’intero quartiere. Non poteva contare quindi nemmeno sulla musica classica, suo amuleto personale contro tutti i mali. Ogni tuono le sembrava la deflagrazione di una delle bombe usate in quella guerra lontana, vista fino a poco prima in televisione, ogni esplosione la sentiva dentro di sé, e quasi le squarciava l’anima.

    Ma non era la tempesta a spezzarla.

    Aveva cercato di resistere.

    Stavolta era riuscita a far passare addirittura mezza giornata prima di cedere di schianto, aprire il cassetto della scrivania e prendere una delle lettere che lo riempivano. Come tutte le volte, aveva annusato profondamente la busta, convincendosi di sentire odore di rosmarino ed erba tagliata di fresco, di alloro, timo, dragoncello, margherite e gigli.

    Di pelle. Soprattutto pelle. La sua.

    Di nuovo, estrasse con infinita lentezza il foglio accuratamente piegato, traendo da ogni attimo il massimo piacere, immaginandolo sorridente mentre confezionava la lettera e impaziente di ricevere la risposta. Lo rivedeva con il sole alle spalle, venirle incontro camminando veloce, reprimendo in maniera quasi comica la voglia di correre da lei. Ogni attimo di quella fantasia era un istante strappato alle sue paure, anche se doloroso.

    Aprì il foglio. Iniziò a leggere muovendo le labbra, come se non fosse stata la sua voce, ma quella di lui a raccontarle quanto gli mancava. Chiuse gli occhi, proseguendo però nella lettura ad alta voce: ormai di quella lettera conosceva a memoria ogni riga. Di quella e di tutte le altre.

    Fece bene attenzione a non lasciar cadere nessuna lacrima sul foglio, non voleva che l’inchiostro sbavasse.

    Mia Terry,

    sei ovunque. Nel pane alle noci preparato dalla nonna, che mangiavamo passandolo da una mano all’altra per farlo raffreddare, nelle risate serali dei braccianti, radunati intorno alla tavola comune e felici di essere vivi, finalmente riuniti alle loro famiglie e davanti a una bottiglia di rosso. Dentro il suono ritmico dei cavalli in corsa e nell’apparentemente discordante cinguettio degli uccelli. Sei negli odori di questa terra, nella luce di questo sole. Ovunque. Anche dentro di me.

    Ma non sei qui.

    Torna da me. Non è mai buio quando siamo insieme.

    Per sempre tuo,

    Alfredo

    Theresa rimase in silenzio per qualche minuto, fin quando l’eco di quel nome non smise di rimbalzare nella sua testa. Ripiegò il foglio rimettendolo con cura nella busta, quindi nel cassetto.

    Un solo attimo di calore le fece dimenticare tutto quello che la circondava, un singolo istante prima che la parte razionale del cervello prendesse ancora una volta il sopravvento. Delle fitte dolorose comparvero sottopelle. Come sempre.

    Con loro, la solita domanda.

    Perché sei sparito? Perché?

    La tempesta tornò a farsi sentire.

    2

    Il giudice lo guardava con aria molto poco solenne.

    Gli occhi di una persona abituata quotidianamente a decidere il destino e il futuro di ladri, assassini, truffatori e di pochi innocenti stavano ancora cercando di capire se Fabrizio De Santis fosse entrato nella sua aula di tribunale con chiari intenti suicidi; non riusciva a immaginare altri motivi per quell’assurda sceneggiata.

    Non era il solo a non capire, tutti stavano fissando il nuovo arrivato. C’era la crema dell’avvocatura milanese, l’incarnazione del termine principi del foro, e, a guardarlo come avesse appena strappato una banconota da cento euro, c’era anche un ex ministro. Molti dei presenti lo conoscevano fin da bambino e lo ricordavano ancora recitare la poesia di Natale, in piedi su una sedia, durante l’annuale festa dello studio.

    Lo stavano maledicendo tutti, nessuno escluso.

    L’uomo seduto dietro all’enorme scrivania si grattò con cura la testa quasi priva di capelli, concentrando il movimento proprio sulle due strisce superstiti, caparbiamente aggrappate alla testa e posizionate equamente ai lati. Sapeva benissimo di potersele godere ancora per poco e quindi, di solito, le trattava con grande cura dedicando loro mille attenzioni. Tanta dedizione sprecata per colpa di un’assolutamente indispensabile grattata di concentrazione. Tutti i presenti muovevano la testa come fossero a una partita di tennis, lo guardavano aspettandosi una delle sue tipiche esplosioni di pura furia: Livido, da livido di rabbia, così lo chiamavano i suoi collaboratori, ben attenti a non farsi sentire.

    «Calma», questo gli ripeteva sempre il suo mentore prima della nomina a giudice, «la calma dovrà essere il tuo tratto distintivo, dovrai sentirti un piccolo ingranaggio di quel grande meccanismo che è il diritto: devi e dovrai, sempre, mantenere la calma.»

    Non c’era mai riuscito. Mai.

    Lui era Livido, adorava quel soprannome, non lo avrebbe ammesso con nessuno ma lo adorava. Tanto da farselo tatuare su un braccio. Ora, però, voleva innanzitutto capire, quindi parlò all’idiota con una serenità che sorprese tutti, lui per primo.

    «Giovanotto, mi faccia capire solo una cosa…»

    «Prego, signor giudice.»

    «Lei… ma chi cazzo è?»

    Sarebbe stato facile, per Fabrizio, presentarsi come il componente di un’antica stirpe di rinomati e stimati notai milanesi. In molti salotti del capoluogo lombardo, il nome dei De Santis era pronunciato con la deferenza e il rispetto dovuti a chi, nel bene e nel male, ha contribuito a scrivere la storia della città – affermazione supportata addirittura da alcuni atti relativi al Castello Sforzesco che portavano il loro antico sigillo. Ma non lo fece. In quel momento Fabrizio era un signor nessuno per la storia di Milano, i secoli della sua famiglia non gli appartenevano – lui si sentiva addosso solo i suoi miseri trentanove anni – men che mai quel giorno, in quell’aula di tribunale.

    Stava per tirare l’acqua e far finire nello scarico tutti loro.

    E per giunta, lo stava facendo con un sorriso disarmante ben stampato in faccia, nonostante il respiro affannato, come quello di un vecchio con l’enfisema dovuto ai mille toscani fumati nel corso di una vita. Lui, però, non aveva mai fumato, l’affanno era dovuto alla corsa necessaria ad arrivare in tempo per realizzare il suo piano, per questo doveva giungere prima della proclamazione della sentenza.

    Prese fiato con difficoltà, ma la voce non accennava a voler uscire, i polmoni rifiutavano di concedere anche una piccola parte di preziosa aria a quella sopravvalutata funzione che è l’espressione vocale, specialmente quando dentro il suo cervello tutto urlava: Aria! Ossigeno! Morte Istantanea!

    Un secondo tentativo non ebbe miglior fortuna, sebbene l’attenzione e le aspettative del giudice fossero state stimolate dal vederlo alzare un dito, come per iniziare un discorso di enorme profondità e significato. Ma pure questo si risolse con un nulla di fatto, sempre per le insistenti voci nella sua testa: Ancora aria! Ancora ossigeno! Dal prossimo lunedì due ore di palestra al giorno!

    Il giudice scese quindi dallo scranno, poi dal gradino che il messo gli posizionava allo scopo di facilitargli salita e discesa, visto che nonostante i tacchi non superava il metro e venti d’altezza. Si avvicinò a Fabrizio e lo guardò da sotto in su, mentre questi non sembrava affatto intenzionato a diminuire il ritmo del suo ansimare, quindi unì pollice e indice e li usò per massaggiarsi lentamente quella parte del viso in cui il naso si unisce alla fronte e, con calma olimpica, iniziò a parlare.

    «Vengo descritto da tanti come uomo mite e incline al dialogo, sa? Qui dentro non c’è nessuno che userebbe parole negative nei miei confronti. Se esistesse un TripAdvisor dei giudici, occuperei molto probabilmente la prima posizione.»

    Il numero di persone dall’espressione incredula presenti nell’aula aumentò esponenzialmente: anche Fabrizio stava guardando il giudice chiedendosi dove volesse andare a parare.

    «E se si sta chiedendo dove voglio andare a parare, vorrei solo farle sapere che nessuno… Nessuno» ripeté con voce melliflua prima di lasciar esplodere il cannone che nascondeva nelle corde vocali, «nessuno può entrare nella mia aula, interrompendo un dibattimento, oltretutto urlando: Obiezione, vostro onore come nel più cretino dei telefilm americani! Mi dica immediatamente chi cazzo è lei e che cosa stracazzo vuole!» terminò urlando con gli occhi fuori dalle orbite.

    Silenzio.

    Un silenzio diverso da quello che normalmente alberga nelle aule di tribunale, un silenzio che comprende sospiri in attesa di un verdetto, fruscii di gesti involontari che ogni avvocato compie quando è alla ricerca della necessaria concentrazione o il sottile crepitio dello sfogliare una copia della Gazzetta dello Sport, con le pagine già consumate alle dieci del mattino. Le urla del giudice ebbero la capacità di assorbire ogni suono, anche il più piccolo, proveniente perfino dalle aule vicine. Ogni rumore cessò, o meglio, si fece da parte spaventato da tanta furia, come se il primo brusio emesso potesse evocare ancora quelle urla. I pochi presenti erano allibiti. I loro volti erano quelli che spesso ricorrono nelle cronache mondane della città, assidui frequentatori di salotti bene e di prime teatrali; queste persone pensavano di aver già visto tutto quel che l’antico tribunale di Milano aveva da offrire in termini di rabbia o urla disperate, ma dovettero ricredersi e resettare i loro standard.

    Dopo un attimo d’incertezza, Fabrizio, ormai ristabilite la pace cerebrale e la normale voglia di vivere, prese fiato e iniziò a rispondere… tuttavia la sua voce fu completamente coperta dal rumore della porta dell’aula che si aprì di scatto e dall’uomo fermo al centro della soglia, che fornì una presentazione decisamente meno lusinghiera di quella che lui stesso stava per fare.

    «Un Perfetto Pezzo Di Imbecille, Ecco Chi È!»

    Il giudice si voltò quindi nella direzione del nuovo arrivato e, abbandonata ogni piccola traccia di rabbia, chiese rassegnato: «Ecco, adesso questo chi diamine sarebbe?».

    Ora che si era ripreso ed era perfettamente in grado di parlare, anche Fabrizio rivolse la sua attenzione alla figura incollerita che teneva un dito puntato contro di lui.

    «Ciao, papà.»

    La sua voce aveva il tono delle solite conversazioni con il padre; fu quindi evidente a tutti che Fabrizio non aveva capito assolutamente nulla della situazione, alcuni dei presenti credettero di percepire in quel saluto addirittura una sorta di sollievo. Scacciarono quasi subito quel pensiero. Non potrà certo essere così cretino.

    Il giudice, non sapendo più dove guardare, tornò a massaggiarsi il naso ed esclamò: «Chissà perché, la cosa non mi stupisce!».

    «Scusi?»

    «Che siate parenti. Si dice che la mela non cada lontana dall’albero: lei è un cretino, da qualcuno deve pur aver preso.»

    La versione più vecchia di Fabrizio si avvicinò a entrambi in pochi passi, si fermò davanti al figlio il tempo necessario per prenderlo per un braccio e tentò di andarsene all’istante, trascinandosi dietro la prole riluttante.

    «Papà, non ho finito, aspetta» provò a opporsi Fabrizio.

    «Hai finito eccome!» sibilò a denti stretti suo padre, strattonandolo. «Adesso vieni fuori con me prima che tu possa combinare qualcosa di irreparabile.»

    Aurelio De Santis guardava gli occhi del figlio dalla stessa altezza, senza doversi alzare sulle punte dei piedi come in molti erano costretti a fare; quello che faceva, e molto, la differenza tra i due erano gli almeno venti chili in più e la capigliatura completamente argentea del padre, laddove quella di Fabrizio aveva solo un accenno di bianco vicino alle tempie. Eppure i lineamenti erano gli stessi, sembrava quasi che, per un bizzarro esperimento fantascientifico, due versioni temporali della stessa persona fossero state messe a confronto.

    Tranne gli occhi. Non nel colore, sia chiaro, entrambi gli uomini erano segretamente compiaciuti dai continui complimenti che arrivavano per quelle iridi tanto scure da diventare quasi magnetiche; no, quello che li distingueva nettamente era il fuoco che vi bruciava dentro. La forza necessaria per guidare un impero consolidato e portarlo a glorie ancora maggiori necessita di un fuoco che brucia qualsiasi cosa, affetti, amori, rapporti e soprattutto il fisico. Fabrizio aveva solo una timida fiammella dentro di sé, capace però di diventare incendio se riteneva che una giusta causa non ricevesse il dovuto trattamento.

    Come in questo caso. Cercò di resistere, di non essere trascinato via, osando anche pronunciare parole di dissenso.

    «Papà, c’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto ciò.»

    Fabrizio non aveva mai creduto a chi raccontava di come la vita potesse cambiare in un attimo, come bastasse un battito di ciglia per trovarsi su lati opposti dello stesso universo.

    Ma non aveva neppure mai visto tanto odio nello sguardo del padre.

    Ed era rivolto a lui.

    In seguito ripensò a quel momento, arrivando alla conclusione che fermarsi allora, tra le panche di legno e proprio in mezzo a tutta quella che il padre considerava la sua gente, non fu affatto casuale.

    «Non me ne frega un cazzo, maledetto idiota.»

    L’aria nei polmoni divenne vetro, sentì i bordi taglienti di ogni singolo respiro lacerarlo internamente, la testa iniziò a girare e tutta la sicurezza che lo aveva accompagnato fino a quel momento, convincendolo a fare quella che ora si stava dimostrando chiaramente una pazzia, lo abbandonò all’istante. Non fu perché gli aveva dato dell’idiota, ormai si sentiva chiamare dal padre in quel modo talmente tanto spesso da aver iniziato a considerarlo quasi una specie di saluto. No. Fu il ringhiare di quel maledetto a colpirlo come non si sarebbe mai aspettato. In un istante tornò a essere quello che per anni aveva creduto di essere, un bambino inetto e spaventato da tutto, dal buio, dal rumore del vento, dall’idea di rimanere senza nessuno.

    «Padre!» Usò quel termine desueto, quasi arcaico, il solo accettato da Aurelio De Santis fino al compimento della maggiore età del suo unico figlio. «Ho trovato delle irregolarità in questo prog…»

    «Taci!»

    Non vide partire la mano.

    Nulla lo aveva mai preparato a quello che ora la mente stava registrando e che non poteva essere reale. Ma lo era, lo testimoniava l’eco che ancora gli risuonava dentro le orecchie.

    Suo padre gli aveva appena dato uno schiaffo.

    Fabrizio sentì la propria mano stringersi in un pugno, tremolando da quanta carica e forza stava accumulando, una forza che urlava il desiderio di sfogarsi diventando maglio.

    «Non voglio sentire nessuna parola da quella bocca, nemmeno un fiato! Usciamo immediatamente da qui e lasciamo questi signori al loro lavoro! Fabrizio, con me!» ordinò suo padre, con un tono perentorio che non dava adito a repliche.

    I presenti sussultarono. Tra di loro c’era chi aveva firmato il licenziamento di centinaia di persone sotto le feste di Natale, aggirato norme ambientali, corrotto funzionari e truffato apertamente i risparmi di chissà quante famiglie, senza che tutto questo facesse nascere sui loro visi nemmeno una ruga. Ora tremavano, increduli, profondamente spaventati da quel che avevano appena visto, attendendo le conseguenze.

    Dopo dieci eterni secondi, accadde.

    Una testa si chinò in avanti, gravata dal peso di anni di doveri.

    «Sì padre, eccomi.»

    3

    Le mattine di Boston sono meravigliose. Qualcuno potrebbe obiettare affermando che siano, meteorologicamente parlando, esattamente le stesse delle città dei dintorni, tutte sotto il medesimo cielo: quando piove, piove per tutte, quando c’è il sole, c’è il sole per tutte e quando è mite, be’, ci siamo capiti. Invece no. I lunghi corsi d’acqua che attraversano Boston sembrano riflettersi anche sulle facciate dei palazzi più interni, il verde accecante e ben tenuto di alberi, siepi e piante di ogni tipo, presenti a ogni piccolo angolo di città, non lasciano indifferenti i passanti, e il mix, unico in tutti gli Stati Uniti, dei profumi sprigionati da tutta quella natura e degli odori artificiali dell’urbanizzazione agisce sull’umore più di un tonico. Boston è unica, e unici si sentono i suoi cittadini, ecco perché un risveglio bostoniano non può essere paragonato a quello di nessun’altra città.

    Forse grazie a tutto questo, la città ha dimensioni da capitale ma i suoi abitanti hanno conservato le maniere e i modi di fare tipici delle piccole province: non è inusuale incrociare per strada persone che si salutano sollevando il cappello e raramente capita a una signora di doversi aprire la porta da sola. I bostoniani hanno dentro ancora l’eco dell’antica cortesia inglese e la spavalderia tipica degli statunitensi; quest’ultima di solito viene mostrata durante le partite delle squadre di basket e baseball locali. La bellezza delle strade rende quasi obbligatorio scegliere la bicicletta come mezzo di locomozione, esattamente come consigliato da molte guide turistiche: le uniche a non farlo sono quelle sponsorizzate da ditte di taxi.

    I giardini del campus erano abituati allo sfrecciare della professoressa Vanoli. In sella alla sua bicicletta, attraversava a tutta velocità strade e piazze, come se, per ogni minuto di ritardo, un angelo perdesse le ali. Nonostante la sua materia di insegnamento prevedesse una buona dose di creatività, la professoressa dimostrava una notevole predisposizione per la matematica e la geometria: credeva ciecamente nella regola che afferma che la via più breve per unire due punti è una linea retta; di conseguenza guidava il suo cavallo a due ruote secondo questa convinzione. Il telaio della sua Schwinn d’annata, se pur notoriamente robustissimo, veniva messo alla prova quotidianamente da marciapiedi da superare, salti da dislivelli notevoli e, quando era davvero in ritardo, addirittura dal percorrere la lunga e impegnativa scalinata che sfociava nel piazzale del campus.

    Quella mattina lo era eccome, in ritardo.

    Reduce da una serata iniziata con un reading di poesie, proseguita con il concerto a cui aveva fatto seguito il primo di una lunga serie di giri di birra con le amiche, una serata dove il buio si era fatto notte fonda, era tornata a casa in un orario più consono ai metronotte che a un’insegnante universitaria. In breve, non aveva sentito nessuna delle consuete sette sveglie consecutive. Solo l’ottava, dotata di volume a tonalità armageddon, ebbe il timido effetto di farle aprire un occhio. L’ora segnata dall’orologio, invece, l’aveva letteralmente fatta saltare dal letto.

    Il suo essere costantemente in ritardo non si limitava alle questioni universitarie ma abbracciava ogni aspetto della sua vita; era quindi odiata dai parrucchieri, considerata il male assoluto dai ristoratori e abituata a perdere almeno i primi dieci minuti di qualsiasi film avesse deciso di vedere al cinema. Ma le andava benissimo così, per trentasei anni aveva vissuto correndo e inventando giustificazioni sempre più creative, non sarebbe certo cambiata ora. «Se vivi sorridendo» diceva alle sue amiche «significa che qualsiasi cosa tu stia facendo, la stai facendo bene.»

    Dotata di un’altezza decisamente superiore alla media, era impossibile non notare l’incarnato scuro di chi insegna una materia che si svolge quasi interamente all’aria aperta, un’esplosione di capelli rossi per i quali era sempre una giornata di pioggia e due occhi verdi limpidi e brillanti, di quelli a cui è difficile mentire. Curiosamente in dotazione a una ragazza con la singolare capacità di trovare uomini in grado di riuscirci benissimo. Il sorriso sempre sul punto di esplodere in risata (anche in momenti poco opportuni) veniva dedicato in esclusiva per lo più a perfetti idioti pronti a scambiare il suo carattere dolce per un segno di debolezza, e ad approfittarsene.

    Oggetto di corteggiamenti disperati praticamente da parte di qualsiasi individuo maschile in grado di respirare, Caterina non aveva mai permesso ai propri sentimenti di manifestarsi nei pressi del campus: aveva sempre preso delle cantonate micidiali, ma ben lontane dai luoghi in cui potevano creare danni ancora più gravi.

    «Scusate, scusate, giuro che non accadrà mai più!» era solita gridare ai passanti, molto spesso gli stessi ai quali toglieva preziosi anni di vita con quelle ormai tradizionali volate mattutine.

    Caterina non lo avrebbe ammesso mai con nessuno ma, pur senza farlo apposta, trovava assurdamente divertenti quelle corse in bici. Anche se concentrata nella comprensibile occupazione di rimanere in vita mentre sfidava la gravità e altre piccole sciocche leggi della fisica, in realtà incamerava fotogrammi preziosi di ciò che accadeva intorno a sé. È vero, si muoveva velocemente e senza sapere cosa le avrebbe riservato il prossimo bivio, ma per lei tutto appariva quasi fermo, statico, immobile.

    Il bambino che piangeva per aver visto, senza potervi rimediare, la pallina in cima al suo gelato cadere inesorabilmente a terra; il beagle della signora Mannersmith che diventava particolarmente sensibile alla bella stagione e rivolgeva più di uno sguardo carico di sentimento a uno splendido esemplare di alano arlecchino, ridefinendo il concetto stesso di amore impossibile; l’ortensia davanti alla biblioteca che necessitava di cure più efficaci per liberarsi di un fastidioso parassita; la quasi totale assenza di nuvole in cielo e, quindi, nulla che potesse frapporsi tra i caldi e salvifici raggi solari e l’umanità tutta; un inebriante profumo di vita. Lei era così, convinta che i particolari facessero la differenza.

    «Eccomi, eccomi! Non sono in ritardo!»

    «Solo Darth Vader ha la voce del comando, prof, purtroppo per lei e per tutti noi, esprimere ad alta voce i propri desideri non equivale a vederli avverarsi.»

    Caterina, seppure impegnata a parcheggiare la bici in uno dei blocchi rimasto miracolosamente libero nonostante l’inizio delle lezioni già ampiamente passato, sorrise alla montagna di muscoli che le aveva appena parlato.

    «Sai benissimo che non è vero… Sai, Joshua, non oso pensare a quante donne ti siano cadute ai piedi dopo un semplice buongiorno detto con questa voce.»

    L’inserviente, dotato anche di cranio rasato d’ordinanza, le si parò davanti, ma arrivò soltanto a sfiorare di poco la linea degli occhi di lei, più alta comunque di qualche centimetro nonostante l’imponente carrarmato delle scarpe da lavoro che l’uomo indossava. Poi si mise le mani sulla testa e iniziò a far ballare i grossi bicipiti.

    «La voce la riservo alle ragazze speciali… per le gallinelle del centro culturale bastano e avanzano i miei guizzanti muscoli da settantenne.»

    Come ogni mattina, Caterina si rese conto di aver dimenticato le chiavi del lucchetto sul mobiletto dell’ingresso; perciò, come ogni mattina, passò la catena all’interno dei raggi, quindi nelle barre di ferro del supporto, e la legò a fiocco.

    «Per questo metto sempre le cuffie quando ti incontro, non potrei resistere al tuo canto, mio sirenetto.»

    «Non vale» disse lui con espressione fintamente delusa, «se ora rispondessi: Prima o poi finirai tra i miei scogli, mio Ulisse, tutto il college mi prenderebbe per il culo da qui alla fine dei miei giorni. Non vale, deve trovare qualcosa che abbia un equivalente femminile, prof, così non è giusto.»

    «La vita è ingiusta, mio caro Joshua.» Soffiò un bacio nella sua direzione e iniziò a correre a perdifiato verso l’aula, sicuramente già piena di studenti che l’attendevano. Si perse così lo sguardo pieno di affetto e protezione del maturo amico.

    Lui le sussurrò: «Lo so bene, piccolina, spero smetta di esserlo per te» e riprese a spazzare.

    Caterina correva.

    Ancora velocità. Ancora adrenalina in circolo, sentirsi il battito del cuore nelle orecchie, correndo senza sapere cosa riserva il prossimo angolo. Una costante ricerca della velocità che aveva un solo e unico scopo. Nascondere a tutti, e soprattutto a se stessa, il bisogno di fermarsi.

    Jeans neri, camicia color crema portata fuori dalla cintura, giacca morbida con un ricamo di coloratissimi fiori stilizzati, immancabili anfibi che nessuna forza al mondo sarebbe stata capace di toglierle, Caterina varcò la soglia della facoltà, lasciando momentaneamente da parte la corsa per un incedere a grandi falcate che metteva in risalto le sue lunghe gambe atletiche.

    «Anche oggi, benedetta ragazza…» mormorò qualcuno.

    Lei sorrise a tutti, rubò una patatina dal sacchetto di uno studente, fermo a chiacchierare nei pressi di una finestra, e, masticandola, fece il suo ingresso in aula, quindi scese precipitosamente la gradinata di banchi e si diresse verso l’ampia cattedra sottostante.

    «Scusate… la sveglia…» disse fingendo un affanno inesistente. L’avvicinarsi alla fatidica soglia dei quaranta, ormai a un passo, aveva soltanto reso leggermente meno dolci le parabole che disegnavano i suoi fianchi, regalandole quel certo non so che definibile con un termine ben preciso.

    Fascino.

    «Stavamo discutendo su quale fosse la soluzione migliore per farla uscire di casa, professoressa» esclamò una voce indistinta dal fondo dell’aula. «La più accreditata, finora, sono i caschi blu.»

    Caterina rispose continuando a sistemare cartelline, fogli e foglietti sull’ampia scrivania.

    «Perché mai a nessuno viene in mente di farmi svegliare da James Hetfield, vestito solo della sua chitarra, mentre porta un vassoio con un cornetto e del caffè forte? Vi assicuro che mi alzerei in un lampo.» Le risate scattarono quasi prima della fine della frase.

    «Scherza? Capitasse a me, sarebbe lui a dover chiamare i caschi blu per poter uscire da casa mia!» rispose uno studente, suscitando un sognante mormorio di sincero apprezzamento.

    Caterina sorrise e alzò gli occhi, guardandosi attorno.

    L’ampia aula, dalla classica forma ad anfiteatro, era piena quasi in ogni ordine di posto. Contrariamente a quanto si vedeva nelle altre aule, non c’erano mele luminose tra i banchi: praticamente nessuno, tra gli studenti presenti, aveva un computer acceso davanti. Caterina non aveva idea di cosa fosse un PowerPoint e non aveva mai usato nulla di più sofisticato di una lavagna luminosa o di un proiettore per diapositive. Per le lezioni davvero importanti, entrava diverse ore prima dell’inizio e disegnava sulle ampie e pesanti lavagne di ardesia dettagliatissime riproduzioni delle piante e dei fiori di cui avrebbe parlato. Aveva convinto gli studenti a riprendersi con la forza l’antica tradizione della scrittura a mano.

    Un quaderno. Una penna.

    «I fiori non sono tutti uguali, esattamente come noi, i giardini che andremo a costruire non saranno mai esattamente come li vogliamo e cambieranno, nostro malgrado, davanti ai nostri occhi. Vorreste forse meno bene a un bambino perché crescendo diventa un ragazzo? Aumentando le proprie dimensioni, perde forse la bellezza originaria? No. Semplicemente, cambia. La natura è cambiamento, e noi abbiamo a che fare con forze che non possiamo certo pensare di controllare. La lezione in programma per oggi è sulla geobotanica e su come l’uomo contribuisca attivamente nel portare, più o meno consapevolmente, specie vegetali fuori

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