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Occhi di Vetro
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E-book449 pagine6 ore

Occhi di Vetro

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Info su questo ebook

Nella tranquilla e sonnacchiosa città di Livorno, dove il carattere non proprio docile dei cittadini si esprime per lo più in accesi dibattiti politici, conflitti calcistici e nell’innata e congenita avversione per i Pisani, viene scoperto un orribile evento delittuoso. Su segnalazione dei condomini disturbati dall’odore che fuoriesce da un appartamento, la Polizia forza la porta sbarrata e si trova al cospetto di una visione infernale. Una madre con i suoi figli, tutti vestiti a festa. Potrebbe essere l’immagine di un giorno felice se non fosse per lo squarcio che taglia loro le gole, lo stato dei corpi in avanzato stato di putrefazione e i liquami ed i vermi che fuoriescono loro dagli occhi.

Anche al commissario Meloni, vecchio ormai di una lunga carriera trascorsa nell’inseguimento del crimine e che certo non gli ha lesinato gli orrori, quel macabro spettacolo pare difficilmente sopportabile.

Altri delitti seguono il primo, sempre orribili ed efferati. La Polizia brancola nel buio..
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2016
ISBN9786050472752
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    Anteprima del libro

    Occhi di Vetro - Debenedetti A.g.

    Farm

    Strage a Livorno

    Si muovevano lentamente, in silenzio, come se fossero in chiesa. Si spostavano intorno al letto osservando tutto ciò che si trovava nella grande stanza che era calma e quieta ed immersa in una placida penombra. Il sole era ancora alto ma le tendine, disposte ordinatamente, ne frenavano i raggi sfumando i muri bianchi di un vago accenno di rosa.

    I due uomini procedevano con la leggerezza di un balletto ma i costumi di scena erano solo bianchi, così come i lunghi guanti e le soffici soprascarpe che attutivano il rumore dei loro passi. Raccoglievano con un misterioso ordine alcuni degli oggetti che si trovavano sui mobili e sulle piccole mensole che abbellivano le pareti e li riponevano in sacchetti di plastica trasparenti. Il loro sguardo non si posava mai sul letto, quello non era il loro lavoro, che ci pensassero gli altri.

    Al contrario, invece, il volto corrucciato e le braccia conserte, il Commissario Capo Angelo Meloni dal corridoio fissava il letto non tentando neppure di nascondere lo sconcerto e la pena.

    «Cazzo, cazzo, cazzo. Quasi trent’anni di servizio passati a rimestare nella merda ma mai, giuro mai, mi era capitato di vedere una cosa simile.» Il Vice Commissario Fanna, da oltre vent’anni suo fido collaboratore, braccio destro e spesso anche sinistro, nonché affidabilissimo alter-ego, era già entrato nella stanza ed ora, nei suoi paludamenti bianchi, fissava il letto con occhi sbarrati.

    «Vero, Commissario, proprio vero. Eppure ne abbiamo viste di scene raccapriccianti, ma qui è diverso, non saprei neppure spiegare il perché.» Il Commissario strappò dalle mani di un agente un paio di soprascarpe (abbaiando un brusco dammi qua) e iniziò un difficile esercizio di equilibrismo per infilarle senza sedersi. Il suo fisico appesantito dalle cinquanta primavere abbondantemente passate, e non certo nella frequentazione di palestre, opponeva una certa resistenza a quel temerario tentativo; la sua altezza certo non aiutava. La schiena gli lanciò alcuni allarmi premonitori e perentori così che decise di sedersi sull’unica sedia che si trovava nell’anticamera. Terminate le operazioni entrò anch’egli e si fermò ai piedi del grande letto matrimoniale.

    Il fotografo faceva il suo lavoro ma tutti quei lampi sembravano stonare nell’atmosfera di apparente quiete e serenità.

    La madre giaceva al centro del letto le mani giunte sul seno e intrecciate con un rosario i cui grani rosa impreziositi da fermagli argentati spiccavano sul candore dell’abito da sposa che indossava. L’abito era coperto da una sopra-veste di pizzo che era puntata sui capelli neri acconciati a chignon e scendeva fino alle caviglie scoprendo due sottili e delicate scarpine bianche. Le spalle erano coperte solo dal velo di pizzo e dal collo sottile una lunga collana di perle giungeva fino ad appoggiarsi sul corpetto.

    Ai suoi lati giacevano i figli. Alla sua destra una bimba di circa nove anni vestita con un abitino azzurro, anch’esso abbellito da un velo di pizzo dello stesso colore che le arrivava alla vita. Calzini e scarpette azzurre completavano quello squarcio di cielo. Le mani giunte sul petto erano intrecciate in un rosario i cui grani erano del colore dell’acquamarina. A contrasto con il bianco abbagliante delle lenzuola perfettamente stirate e con la luce soffusa e dolce, una macchia rossa si allargava sul cuscino, vivida come il sangue, cupa come il dolore, bruciante come il fuoco. Erano i riccioli della bambina che si allargavano sul cuscino come fiammelle ritorte agitate da un incessante vento furioso.

    Sull’altro lato giaceva il figlio. Qualche anno più giovane della sorellina, era vestito da marinaretto e le sue ginocchia sbucciate indicavano che i giochi sedentari non dovevano essere stati la sua passione. Sulle mani giunte era posata un’immagine di San Giovanni Bosco. Forte dei ricordi dell’infanzia e della devozione che la sua povera madre aveva sempre nutrito per il Santo, il Commissario non trovò alcuna difficoltà nell’immediata identificazione di quel volto bonario da buon curato di campagna.

    Si guardò intorno. A parte la mancanza degli oggetti che erano finiti nei sacchetti di plastica e che avevano lasciato spazi vuoti sulle mensole, tutto sembrava sistemato con cura maniacale. Le tende rosa pallido e le mantovane fucsia completavano quel quadretto idilliaco che trasudava pace, dolci sentimenti, fervidi afflati religiosi.

    Qualcosa, però, interveniva fragorosamente a dissolvere la tenera atmosfera in un macabro abisso di orrore.

    Sul collo della madre, ad una altezza che non poteva essere coperta dal filo di perle, e sui teneri colli dei bambini, una striscia nerastra andava da orecchio ad orecchio. I lembi non combaciavano esattamente così che dagli squarci fuoriuscivano riccioli di materia organica rigonfia come se la pelle non potesse più contenerli.

    Infine l’orrore. Il lungo tempo che la madre ed i suoi figli avevano trascorso insieme, nell’attesa di qualcuno che potesse regalare alla loro morte una parvenza di dignità, traspariva dai volti gonfi e tumefatti che perdevano liquido dai tagli che si erano aperti nelle bolle spuntate come raccapriccianti fiori sul prato della sventura, dai vermi che fuoriuscivano dagli occhi afflosciati e dalle bocche senza più labbra e che scendevano sulle lenzuola non più candide e, soprattutto, dal terribile odore di morte che non poteva in alcun modo essere ingannato dalla pomata che tutti si erano generosamente spalmata sotto il naso.

    Il Commissario uscì lentamente e si trascinò fino alla sedia su cui precipitò senza alcun riguardo. La finestra dell’ingresso era spalancata e attraverso le tendine accostate s’intravvedeva il profilo del Montenero. Parzialmente affacciata, una figura candida fumava nervosamente tentando di espirare il fumo verso l’esterno. Il leggero vento di tramontana non pareva disponibile a compromessi così che i maleodoranti sbuffi di fumo venivano ricacciati all’interno. Il Commissario non conosceva nessun altro capace di fumare le perfide Gauloises, e con quell’accanimento, per giunta.

    «Elvy, sei appena arrivata e sei già alla pausa sigaretta.» La figuretta candida si voltò di scatto e sorrise vedendo il corpaccione del Commissario accasciato sulla sedia che, al confronto, pareva quasi una sedia per bambini. Non poteva essere definito propriamente grasso ma l’insieme della sua altezza e delle circonferenze corporali di tutto rispetto lo rendeva più propriamente grosso. E lui ci teneva sempre a specificarlo.

    Elvira era un nome desueto, freddo, quasi arcaico ma la dottoressa Elvira Capotondi che dirigeva il gruppo di candidi fantasmi rendeva quel nome splendido e sontuoso come una cornucopia debordante di tutti i fiori del Paradiso Terrestre. Ora, affacciata alla finestra, fumava con tale intensità da far pensare che in quel tubicino bianco che teneva agilmente tra le lunghe dita ne andasse della sua stessa vita.

    «Mio caro, mettiti sopravento così non subirai gli effetti del fumo passivo.»

    «Per farlo dovrei buttarmi fuori dalla finestra. Non sono ancora pronto per il passo estremo.»

    «Va bene, va bene. Sei sempre noioso e pesante come un macigno.» E buttò il mozzicone dalla finestra.

    «Non so proprio cosa potremo inventarci quando chiederanno conto dell’incendio. Il Questore non sarà niente contento.» Elvira sbuffò e rientro nella stanza in cui giacevano i corpi delle vittime.

    Il Commissario aveva conosciuto Elvira ormai molti anni addietro, quando lui era ancora un funzionario di belle speranze e, almeno così si diceva, di grandi prospettive. Lei aveva vinto un concorso per entrare in Polizia dove aveva preso servizio presso il nucleo della scientifica di cui, con il tempo, avrebbe assunto la direzione. L’allora vice Commissario Meloni era stato subito attratto da quella forza della natura la cui incontenibile energia vitale aveva prontamente preso possesso dei lunghi e austeri corridoi del commissariato mutando in luce le tenebre, in musica i silenzi, in vivaci ed allegri colori il malinconico grigio che intristiva le pareti ed i cuori. I loro primi incontri furono un continuo alternarsi di scaramucce, mezzi passi in avanti con immediate precipitose fughe, definitive chiusure e timide riaperture, così che tutto il personale che assisteva a quella baruffa permanente era assolutamente certo che tutto si sarebbe concluso con la tradizionale chiosa che metteva la parola fine alle fiabe più belle.

    Tutti si sbagliavano. Infatti la loro storia non era arrivata mai al vissero felici e contenti, semplicemente perché la loro fiaba mancava dell’ultima pagina. Certo non a causa di Elvira che aveva fatto tutto ciò che comunemente ci si attende da una donna innamorata. In un certo senso neppure a causa dell’ormai Commissario Meloni che pensava di aver amato Elvira con lo stesso ardore e la stessa stupefatta meraviglia del primo giorno.

    Era stato come se nel loro rapporto vi fosse una variabile impazzita che entrava in gioco proprio nei momenti in cui cadere nelle braccia uno dell’altra pareva fosse l’evoluzione più facile, mortificando le speranze, inventando fantasiosi contrattempi e facendo così miserabilmente fallire tutte le occasioni che si erano ripetutamente presentate. Meloni si era spesso interrogato sul perché delle sue puntuali ritirate ogni volta che si era trovato a vivere momenti decisivi. Poi era subentrata una sorta di mesta rassegnazione che spense gli ardori e offuscò la luce che si sprigionava dai capelli di Elvy. Per tentare di ravvivare il fuoco che dovesse ancora covare sotto la cenere, Elvira, infatti, ricorreva a repentini e improbabili cambi di colore. Esauriti quelli principali, verde e giallo compresi, era iniziata un’infinita serie di folli sfumature spesso neppure più notate dagli occhi distratti del Commissario.

    Di colore in colore, di sfumatura in sfumatura, si era così sgranata sulla tavolozza di Elvira la collana variopinta dei giorni e dei mesi e degli anni sempre più tendenti tristemente ad un’unica sfumatura di grigio.

    Il dottor Borgia fece il suo ingresso accompagnato da due dei suoi collaboratori, becchini secondo Elvira. Sempre secondo Elvira, Borgia aveva scelto di fare il medico legale perché la sua prima scelta non era praticabile nella piatta e avvilente modernità in cui si era trovato a vivere. La prima scelta sarebbe stata il vampiro. Il rimpianto per tutto ciò che avrebbe potuto essere, ancora traspariva dal colorito del suo volto, dai profondi occhi costantemente cerchiati di nero, dall’idiosincrasia sempre manifestata ai raggi solari e dal suo sguardo sempre velato da un vago senso di disgusto generalizzato e che parevano prendere vita solo alla presenza di cadaveri specialmente se straziati da una qualche furia omicida e in avanzato stato di decomposizione.

    «Bene, bene. Che cosa abbiamo oggi di bello?» Il Commissario gli indicò la camera in silenzio. Borgia si affacciò esclamando:

    «Ullallà, niente male, niente male davvero.» Poi, rivolto ai suoi becchini:

    «Forza voi, sfaccendati. Datemi i paludamenti. Abbiamo molto da fare.»

    «Commissario, è arrivato il Sostituto. C’è anche il dottor Roberti. Faccio passare?» Il volto non esattamente intelligente dell’appuntato Roscigno si era affacciato dalla porta d’ingresso con il naso impiastricciato di pomata al punto da farlo sembrare un clown. Il suo cuore sensibile e lo stomaco assai peggio erano ormai noti a tutti e da quando aveva gravemente contaminato una scena del crimine con lunghi getti di vomito accompagnati da ululati che non parevano aver più nulla di umano, era stato formalmente diffidato dall’avvicinarsi oltre i cinquanta metri da ogni area sensibile. La sua curiosità, tuttavia, sopperiva alle precedenti carenze così che approfittava di ogni scusa per dare almeno una sbirciatina.

    «Roscigno, se mi vomiti nella stanza ti mando a piantonare i detenuti dell’obitorio.» Il volto di Roscigno assunse un’aria perplessa e dubbiosa. Il Commissario continuò:

    «Perché tu non ti sforzi troppo le meningi, aggiungo che i citati detenuti non sono altro che cadaveri per lo più putrescenti. Sparisci.» Roscigno si ritirò con un gemito.

    Entrò un ometto mingherlino seguito da un’alta figura secca e allampanata tutta paludata di bianco. Il Commissario si alzò e strinse la mano al sostituto procuratore Celi che precedeva il dottor Roberti, psicologo consulente della Questura e amico da tempo immemorabile.

    «Dottor Celi, è lei che ha vinto questa bella lotteria. Come primo incarico non è affatto male.» Il dottor Celi era un sostituto di fresca nomina. Quando il Commissario aveva fatto la sua conoscenza nel corso della visita di cortesia che ogni nuovo arrivato nella sede compiva per conoscere i funzionari con cui avrebbe dovuto collaborare, era stato dolorosamente colpito dall’affronto e dall’ineluttabilità del passare del tempo. Infatti, aveva visto riflettersi negli occhi del bambino che stava di fronte a lui camuffato da sostituto procuratore, l’immagine di un uomo di mezz’età, impietosamente soprappeso. Fece un cenno di saluto a Roberti che sfilò di fronte a lui ed entrò nella camera.

    «A dire il vero, caro Commissario, questo non è affatto il mio primo caso. Per la precisione il secondo. E poi, come sa, è una riffa. A chi tocca, tocca. Oggi è toccato a me. Niente in contrario?»

    «Ma s’immagini, scherzavo. Quando avrà visto cosa l’attende capirà cosa intendessi dire.» Il fotografo e gli addetti al prelievo dei materiali da sottoporre ad analisi uscirono dalla camera seguiti da Fanna.

    «Commissario, vado a prendere una boccata d’aria. Ne ho proprio bisogno.» Uscirono altri due uomini della scientifica seguiti da Elvira che si fermò di fronte a Meloni.

    «Ecco, abbiamo finito. Lo so, lo so, appena possibile ti faremo sapere. Ora passiamo alle altre stanze poi ce ne andiamo.» Era tutta vestita di bianco infagottata in una tuta che avrebbe spogliato anche la donna più sexy del mondo del suo patrimonio di femminilità. Ma Elvira era un’altra cosa. Fu sufficiente un lampo dei suoi occhi verdi per fulminare il povero Celi che rimase a guardarla con la bocca aperta. Fuggevole sorriso e via. La bianca visione era sparita.

    «Celi? Dottor Celi? Dottore?» Celi si riebbe:

    «Come dice? Ah sì, andiamo.» Il Commissario fece strada entrando nella stanza.

    Il dottor Borgia, inginocchiato di fianco al letto, ispezionava i corpi senza toccarli altro che con leggeri sfioramenti delle mani guantate che sembravano librarsi nell’aria come libellule. Il viso era talmente vicino ai cadaveri che si faceva fatica a credere che le sue narici non fossero difese da unguento di sorta.

    «Ma che unguento e unguento. Roba da femminucce isteriche.» soleva dire. Il Commissario si fermò vicino a Roberti apparentemente pietrificato. Celi non si scostò dalla parete e rimase addossato come a cercare un sostegno senza il quale sarebbe finito per le terre.

    «Hai mai visto niente di simile?» Il dottor Roberti, immobile davanti al letto, non riusciva più a staccare gli occhi dall’orrore.

    «Sinceramente no. Davanti a questi scenari mi sorge il dubbio di aver fatto un madornale errore quando ho accettato l’incarico di collaborazione con la Questura. I morti per atti di violenza non sono mai un bello spettacolo, ma a tutto c’è un limite.»

    Il Commissario rimase in silenzio. Volse lo sguardo intorno alla stanza, dalle pareti al letto, dal pavimento al soffitto, come se cercasse di scoprire ciò che si nascondeva dietro le apparenze che, malgrado tutto, ancora conservavano un alone di normalità. Come se cercasse di far rivivere ciò che quelle pareti avevano visto nel momento supremo o ciò che aveva visto l’assassino quando si era mosso dove lui ora si stava muovendo, quando aveva occupato lo stesso spazio che ora il suo corpo stava occupando.

    Aveva sempre pensato che nei luoghi in cui era stato perpetrato un crimine si dovesse essere conservata una traccia del dolore e della rabbia che aveva cambiato in un attimo il corso della vita di persone normali, ghermite dai mostri che erano improvvisamente usciti dagli antri oscuri della coscienza. Rimasero a lungo in silenzio. Si udiva chiaramente solo il respiro pesante di Celi.

    Borgia si rivolse al Commissario:

    «Io sono pronto. Rimuoviamo?» Il Commissario assentì:

    «Se il Sostituto non ha obiezioni…» e rivolse uno sguardo interrogativo a Celi, «Rimuoviamo?» Il sostituto non obbiettò ma uscì di scatto dicendo:

     Anche il Commissario si avviò all’uscita.

    «Claudio, io vado. Torno in ufficio. Quando hai finito passa da me.» Il Dottor Roberti assentì. Non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi della sposa che parevano socchiusi e da cui uscivano gocce di liquido verdastro. Borgia richiamò all’ordine i suoi becchini:

    «Forza, scansafatiche, andate a prendere i cofani.» I becchini corsero fuori.

    «Vuoi un caffè? Forse chiamarlo caffè è un po’ troppo. Riformulo la domanda. Vuoi un po’ di acqua nera e maleodorante?» Roberti assentì.

    «Mi pare una buona idea. Il giusto coronamento di un pomeriggio perfido.».

    L’ufficio del Commissario era immerso nella penombra. La scarsità di luce, tuttavia, non avrebbe privato l’eventuale osservatore di nulla di rilevante, giacché era identico agli altri innumerevoli uffici contenuti dal palazzo grigio del commissariato. Inoltre, se il Commissario avesse dovuto improvvisamente lasciarlo ad un altro felice utente, questi avrebbe potuto prenderne possesso senza alcun indugio poiché dei lunghi anni passati tra quelle mura egli non avrebbe lasciato alcuna traccia. Non un quadro alle pareti, non una fotografia sui ripiani o sugli scaffali che certo non mancavano, pronti ad accogliere i famosi faldoni , informi e ottusi agglomerati di fogli e pratiche trasudanti sofferenza e lacrime e tutti, almeno per lui, parimenti odiosi.

    La sua scrivania era sempre totalmente sgombra al punto che, si diceva, fosse la più lucida dell’intero commissariato. I suoi collaboratori che si attenevano alla norma di bussare prima di entrare pena l’essere sbattuti fuori con male parole, sapevano che si trattava solo di una procedura formale giacché il Commissario l’avevano sempre visto seduto alla scrivania sgombra con gli occhi persi nel vuoto come a scrutare oltre l’orizzonte dove solo lui poteva vedere. Se fossero entrati senza bussare erano certi che comunque l’avrebbero visto sempre nella stessa posizione congelato in quell’ininterrotta attesa contemplativa. Si era fatta per questo la fama di possedere grande fantasia e immaginazione con cui sopperiva alla mancanza di un’applicazione e uno studio che fosse per tutti evidente. I successi che aveva ottenuto nei lunghi anni di servizio erano noti a tutti così che spesso ci si interrogava sul perché non avesse raggiunto adeguati e corrispondenti benefici nella carriera che, al contrario, pareva congelata nella posizione di Commissario che occupava da anni. Chi aveva modo di frequentarlo poi, sentiva che non ambiva a niente di più e che se aveva superiori o comunque diversi interessi o aspirazioni, erano accuratamente celati in quei territori privanti in cui si rifugiava quando, seduto alla scrivania spoglia come una quercia a Natale, perdeva lo sguardo oltre l’orizzonte consentito agli umani.

    Come attivato da un’impercettibile sollecitazione, l’appuntato Roscigno entrò portando su un modesto vassoietto due tazzine di caffè. Simulando di annusare con grande godimento l’aroma che saliva dalle tazzine posò il vassoio sulla scrivania splendente ed uscì.

    «Roscigno continua a credere di essere dotato da uno spiccato senso dell’umorismo. Vedremo se continuerà con il suo ghigno quando lo avrò mandato all’obitorio.» Roberti bevve in silenzio.

    «Non è poi così male.»

    «Bene, allora. Ora, però, dimmi cosa ne pensi.» Roberti tentennò il capo come se fosse a disagio nel scegliere le giuste parole.

    «Pensavo di aver visto tutto, tutto il bene e tutto il male del mondo, come dice la canzone. Mi sbagliavo. Cercando di dimenticare la pena e analizzando freddamente, per quanto possibile, ciò che abbiamo visto, devo ammettere che raramente mi sono imbattuto in uno scenario che si possa anche solo avvicinare alla complessità di questo. Possiamo assumere che l’assassino sia stato il padre?».

    «Penso proprio che non ci siano dubbi. Comunque, anche se ce ne fossero, assumiamo per il momento che sia stato il padre.»

    «Bene, allora. L’impressione che ne ho ricavata è stata quella di osservare uno scenario suscettibile di una doppia lettura. Sorta di immagini sovrapposte, per intenderci.»

    «Penso di intuire ciò che mi stai dicendo. Osservando quella scena del crimine, anch’io ho provato sensazioni contrastanti. Sai quanto io mi basi sulle sensazioni che provo durante le prime osservazioni. Bene, quello scenario oggi mi è parso un’immagine mutevole, ondivaga, ingannatrice.»

    «Ti dirò ciò che penso. La prima immagine che colpisce l’osservatore è quella che gli giunge attraverso gli occhi del padre e marito amoroso che lava i corpi della moglie e dei bambini con ogni cura, che li riveste con gli abiti della gioia indossati in giorni carichi di gioiose aspettative e alate speranze, che li sistema sul letto, uno vicino all’altro, che adorna le loro mani con simboli religiosi come per fornire loro un viatico che possa assisterli nell’ultimo viaggio e che possa proteggerli dal maligno. Che pulisce e riordina tutto, sistema le tendine e gli asciugamani nel bagno e poi, forse si siede sulla poltroncina della camera da letto a piangere e pregare per le povere e amate anime strappate anzitempo ad un cammino gioioso. Tutto questo, però, avviene in un secondo tempo. Prima, poco tempo prima, avvengono altri fatti la cui immagine si nasconde dietro la prima e colpisce l’osservatore direttamente al cuore senza passare attraverso gli occhi. E’ l’immagine dell’orrore. L’assassino insegue la madre che cerca di correre verso i bambini per proteggerli, la colpisce con furia cieca al petto, al ventre, alla schiena fino a che, tra le urla ed i pianti dei bimbi cade esausta e lui la raggiunge, le alza il capo e le taglia la gola, da orecchio ad orecchio schizzando il suo sangue sul pavimento e sui corpi tremanti dei bimbi che si stringono l’uno all’altra. Poi, ansimando, lascia cadere la madre a terra e si rivolge, probabilmente, alla bimba perché la più grande, l’abbranca violentemente sordo alle grida e ai pianti, affonda le mani nei suoi riccioli di fuoco e le taglia la gola. La tiene stretta fino a che anche l’ultimo sussulto finisce e la lascia scivolare fino a terra. Si rivolge al bimbo che non ha più la forza di gridare, lo sgozza come un capretto e non lo lascia fino a che anche l’ultima goccia del suo sangue non sia andata a raggiungere quello della madre e della sorella. Poi, probabilmente, si siede sulla stessa poltroncina e osserva la sua opera con animo finalmente placato, compiaciuto.»

    Il Commissario ascoltava con gli occhi chiusi e le mani strette poste a sostegno del mento. Poi:

    «Continua.»

    «La straordinarietà dell’insieme deriva dal fatto che l’assassino spietato e sanguinario e il padre amoroso sono la stessa persona. Ovviamente sempre secondo l’assunto che l’assassino sia il padre.»

    «Quale tipo di diabolica patologia può aver scatenato tutto questo? Perché di patologia si tratta, non è vero?»

    «E’ presto per poterlo dire. Potrebbe essere una sorta di disturbo dissociativo dell’identità. E’ un campo estremamente complesso che richiede lungo e attento esame del paziente. Nel caso specifico, poi, con il paziente assente, tutto si complica. Abbiamo notizie ufficiali sullo stato della sua salute?»

    «Risulta che il padre nel corso degli ultimi due anni sia stato spesso assente dal lavoro, prima per una forte depressione e poi per Dio sa quale altra diavoleria. Puoi fare ricerche nel tuo ambito e farmi sapere appena possibile?»

    «Senz’altro sì. Disturbi così gravi della personalità avranno sicuramente lasciato tracce nell’azienda sanitaria che tutto il mondo ci invidia.»

    «Ruggero Porcu è il nome. Lavorava all’Ansaldo. O meglio. Lavora. Meglio non sbilanciarsi fino a che non si trova il corpus, vivo o morto.»

    Roberti si alzò e si diresse verso la porta. Poi si fermò e si girò verso il Commissario che si era alzato anch’esso.

    «Che fai ora? Torni in famiglia o vieni con me alla Sorrento oh cara per una pizza con friarielli e salsiccia che scaccia tutti i mali?»

    «Te la raccomando la famiglia. Comunque né l’uno né l’altro. Devo studiare le cartacce. Domattina mi aspetta il Questore e subito dopo un’allegra conferenza stampa. Sai quanto io le ami.»

    «A proposito della conferenza stampa, forse potrebbe essere una buona occasione per far giungere al padre, nascosto chissà dove e travagliato dalla sua colpa, un’offerta di aiuto. Spesso questo tipo di assassino aspetta con ansia di trovare il modo di farsi prendere come se questo fosse l’unico modo di incominciare a sanare la ferita inferta dalle sue coltellate al tessuto della sua storia personale, un modo cioè di iniziare la ricostruzione di una nuova normalità.»

    «Bene, vediamo in che direzione vanno le domande dei giornalisti. Leggerai sui giornali.» Roberti uscì sbuffando. Si chiese quali fossero le cartacce di cui il Commissario aveva fatto cenno. Di sicuro sui ripiani visibili dell’ufficio non ve n’era traccia alcuna.

    Il Commissario si affacciò alla finestra da cui, allungando un po’ il collo ed esercitando la fantasia si poteva intuire all'orizzonte, oltre la linea grigia dei tetti, la sommità del faro che già lanciava nel cielo i suoi luminosi richiami. Tornò a sedersi e si appoggiò allo schienale della sedia esausto. Pensò che avrebbe ricordato quel giorno per sempre.

    Il giorno in cui aveva deciso che quel lavoro non faceva più per lui. Ora avrebbe indagato con cautela per scoprire se vi erano vie lecite per andare in pensione. E se non ce n’erano, bene, allora se ne sarebbe andato ugualmente. Pensò che non sarebbe stato difficile trovare un lavoro nei servizi di sicurezza di qualche grande azienda. Magari proprio l’Ansaldo, chissà. Aveva preso questa inderogabile decisione già numerose volte. Poi, passata la crisi, si era sempre caricata la croce sulle spalle ed aveva proseguito l’ingrato cammino. Quello era il suo lavoro.

    Fuor di retorica, aveva sempre pensato al suo lavoro come ad una missione. La sicurezza della gente. Sentiva che questa era la responsabilità che gli era toccata. Non avrebbe mai potuto esimersene. Sarebbe stato come se un comandante spergiuro abbandonasse la sua nave e il suo equipaggio nella tempesta cercando di rifiutare il suo destino.

    No, non era mai stato capace di farlo. Certo era stato sempre gravoso, spesso ingrato, troppo sovente penoso. Le discese negli abissi dell’orrore erano state strazianti ma poi c’erano stati i volti sorridenti di coloro che avevano affidato al suo lavoro le loro speranze, che avevano ottenuto giustizia per dare un senso alle loro vite, per costruire su macerie dolorose il futuro dei loro figli. E lui si era scrollato di dosso le schegge di miseria e dolore e aveva proseguito imperterrito il suo cammino.

    Quel giorno, tuttavia, qualcosa era cambiato: si era reso conto che l’orrore lo stava contaminando. Doveva andarsene prima che le ferite che gli erano state inferte diventassero insanabili.

    Non era stato certo lo spettacolo offerto da quelle morti che aveva provocato la sua decisione. Al contrario. Davanti ai suoi uomini aveva tenuto il comportamento che tutti si attendevano da lui, aveva detto le parole che tutti si attendevano di udire. Ma la verità era un’altra. Davanti alla sposa ed ai suoi figli non aveva provato più nulla. Nessun senso di pena o raccapriccio, nessun sussulto di dolore. Solo una fredda scena del crimine da osservare e analizzare. Ma che razza di uomo era colui che rimaneva impassibile davanti a tanto strazio? Che cosa stava diventando? Che ne era stato della sua sensibilità, della sua capacità di soffrire insieme alle povere vittime che avevano costellato il suo cammino? Quale frutto velenoso gli era stato piantato nel cuore dagli artigli del male che lui aveva combattuto con tutte le sue capacità e le sue forze? Andarsene, allora. E presto. Incominciare una nuova vita. Non era più giovane ma neppure vecchio. Sentiva di custodire dentro di sé le risorse necessarie per compiere quel passo. Bene, l’ennesima decisione è presa. Presa per oggi, però. Domani, eh domani… Domani chissà.

    «Roscigno, chiama la macchina. Devo tornare all’Ardenza.»

    «La macchina è giù che aspetta. Avevo pensato che potesse servirle.» Il Commissario lo guardò stupito:

    «Ora incominci a farmi paura. Andiamo allora.» Il traffico non era straordinario e la macchina si faceva strada abbastanza agevolmente. Roscigno sapeva che il capo non desiderava che si usasse la sirena, a meno di casi particolarissimi.

    Il Commissario pensava a come sarebbe stata la sua vita dopo aver lasciato la Polizia. Lontano dalle strazianti situazioni che avevano riempito i suoi giorni e ben sistemato in sontuosi uffici con piacevoli segretarie e faldoni con i fogli profumati di lavanda. Roscigno sarebbe stato solo uno spiacevole episodio del passato. Ora però doveva prendere l’assassino di quello che sarebbe stato il suo ultimo crimine, il suo ultimo caso. In qualche misura sentiva di dovere essere grato al padre assassino. Sarebbe stato merito suo se finalmente gli fosse riuscito di portare la sventurata scialuppa delle sue molte decisioni, prese e buttate al vento, a riposare nelle acque sicure dell’ultimo porto.

    Si mise le soprascarpe nell’atrio che, sapeva, era già stato bonificato e calzò i guanti.

    «Ora io entro, tu aspettami fuori.» Aprì lentamente la porta ed entrò senza accendere la luce. L’insegna luminosa sistemata sulla facciata dell’albergo che si frapponeva tra il grande condominio e il mare, si accendeva ad intermittenza lanciando nel cielo nero una luce pulsante azzurrina che filtrava tra le tendine colorando i muri bianchi di leggeri riflessi. Si sedette sulla poltrona. Si appoggiò allo schienale e tentò di rilassarsi e liberare la mente. Il letto era stato privato delle lenzuola. Il materasso trapuntato non portava traccia alcuna degli ultimi occupanti. Tutto pareva tranquillo ed assolutamente normale.

    Ripensò alle parole di Roberti. Era per le sue parole che aveva deciso di tornare la sera stessa, prima che le pareti dimenticassero ciò che era avvenuto in quella stanza, prima che le grida di terrore si cancellassero, prima che l’orrore tornasse negli antri oscuri da cui era uscito. Ora doveva guardare la seconda immagine, quella che si nascondeva dietro l’apparente normalità, l’immagine che si era stampata negli occhi dell’assassino.

    L’assassino insegue la madre che cerca di correre verso i bambini per proteggerli, la colpisce con furia cieca al petto, al ventre, alla schiena fino a che, tra le urla ed i pianti dei bimbi cade esausta e lui la raggiunge, le alza il capo e le taglia la gola, da orecchio ad orecchio schizzando il suo sangue sul pavimento e sui corpi tremanti dei bimbi che si stringono l’uno all’altra. Poi, ansimando, lascia cadere la madre a terra e si rivolge, probabilmente, alla bimba perché la più grande, l’abbranca violentemente sordo alle grida e ai pianti, affonda le mani nei suoi riccioli di fuoco e le taglia la gola. La tiene stretta fino a che anche l’ultimo sussulto finisce e la lascia scivolare fino a terra. Si rivolge al bimbo che non ha più la forza di gridare, lo sgozza come un capretto e non lo lascia fino a che anche l’ultima goccia del suo sangue non sia andata a raggiungere quello della madre e della sorella. Poi, probabilmente, si siede sulla stessa poltroncina e osserva la sua opera compiaciuto.

    Si chiese se fosse andata proprio così. Probabilmente sì. O forse si era tenuta la bambina per ultima perché tutto ciò era avvenuto perché lei lo vedesse, chissà. Cercò di immaginare diversi scenari ma l’ispirazione che in fatti precedenti non gli era mai mancata ora non voleva saperne di illuminargli la mente. L’emozione stessa era totalmente assente. Guardava sordi muri bianchi, insignificanti arredi di una modesta camera piccolo borghese, un letto muto senza più gioie, senza dolori, senza ricordi, senza prospettive. E gli occhi che stavano guardando erano quelli del padre? E di chi, se no? Un assassino di passaggio magari sorpreso da un padre incredulo e allibito?

    Seduto al buio in una stanza vuota si sentì assolutamente idiota. Erano finiti i tempi delle intuizioni geniali, ora per lui sarebbe venuto il tempo dei sontuosi uffici, piacevoli segretarie e faldoni con i fogli profumati di lavanda. Unicuique suum, caro Meloni.

    «Signor Questore, di là dell’aspetto raccapricciante offerto dalla visione di quei corpi balzava all’occhio, in tutta evidenza, un elemento che rendeva lo scenario particolarmente inquietante e poco usuale.» Il Questore sfogliava le fotografie che gli erano state portate quasi senza dar mostra di ascoltare quanto gli veniva detto. Il Commissario continuò:

    «Penso che l’aspetto più interessante, fosse il contrasto tra le due immagini che si sovrapponevano, assai simili e pur così diverse.» Il Questore assentì succhiando rumorosamente il mefitico toscano che emanava sentore di letame, ma non il buon odore antico del letame di bovini ma quello disgustoso degli allevamenti di suini che, per ingrassare ancora più velocemente, nelle loro spietate prigioni vivevano male e mangiavano peggio. Riprese a studiare le fotografie, una ad una, lentamente. Poi sembrò rimuginare sulle parole del Commissario. Alzò gli occhi con aria interrogativa:

    «Che cosa sta dicendo? Le solite cazzate psicologiche?»

    «Da un lato la cura amorevole di un padre che lava e riveste la moglie e gli amati figli e dall’altro le mani sanguinarie di uno spietato assassino che non esita a colpire la madre dei suoi figli più volte prima di sgozzarla come un capretto. E queste sono parole dell’ottimo Roberti. Ritiene che, chi ha agito, lo abbia fatto seguendo i tratti di una personalità fortemente disturbata e affetta da un qualche disturbo dissociativo dell’identità. E di ciò, le nostre indagini, hanno puntualmente trovato ampie conferme.» Il Questore alzò una mano per fermarlo.

    «E’ stato il padre, quindi.»

    «Le evidenze che abbiamo rilevato sembrano non lasciare gran spazio a dubbi. Fino a prova contraria, naturalmente ed in attesa dei risultati degli esami in corso. Dai resti trovati in cucina, si direbbe inoltre che egli abbia continuato a vivere in quell’appartamento per tutto il mese ed oltre trascorso dagli omicidi, lo stabilirà l’autopsia. Poi sembrerebbe scomparso. Il portiere dice che non lo vede da due settimane.»

    «Lasciamo andare le dotte disquisizioni mediche e veniamo al dunque. Concordo sul fatto che sia stato lui l’autore della strage. Mi sembra lampante. Ora si tratta di trovarlo, però. E rapidamente. Lo esige l’opinione pubblica, lo richiede la nostra etica professionale e, soprattutto, lo pretende energicamente il Prefetto che non lascia passare ora senza rompermi i coglioni.»

    «Me ne rendo conto. Vedrà, lo troveremo presto. Potrebbe anche essere lui stesso a costituirsi durante la sua fase positiva.» Il Commissario si alzò, subito richiamato dal Questore:

    «E mi raccomando la conferenza stampa. Parole d’ordine rasserenare e minimizzare.»

    «Sissignore. Nell’enunciazione dei fatti, vorrei anche rivolgermi al padre per spingere la sua mente malata a guardare in se stessa per aprire porte che, forse, da solo non riesce ad aprire affinché si renda conto di ciò che è accaduto e si rivolga a noi. Per aiuto.»

    «Lei bazzica troppo con il Dottor Roberti. Lasci stare le fregnacce psicanalitiche e vada al sodo. Efferato crimine, individuato colpevole, prossima ineluttabile cattura. Tutti a casa felici e contenti. E’ chiaro?» Il Commissario

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