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Aretusa Jammin
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E-book240 pagine3 ore

Aretusa Jammin

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Info su questo ebook

La Repubblica è crollata, abbattuta dal dilagare dello scandalo “Mithrokin”. I Savoia sono tornati a regnare su un’Italia sottoposta a rigido controllo autoritario, dove è quasi impossibile sfuggire alla censura di stato. Nel resto del mondo non va meglio. Mentre U.S.A. e U.R.S.S si contendono l’egemonia su un’Europa divisa, la Repubblica Popolare della Cina si appresta all’insidioso ruolo da terzo incomodo. Andrea Spada, ex poliziotto e alcolista, vive una vita senza molte prospettive esibendosi con la sua armonica come musicista jazz nei pub di Siracusa. Un equilibrio precario, travolto dalla scomparsa di un potente imprenditore. Suo malgrado, Spada dovrà vestire ancora i panni dell’investigatore e provare a non farsi ammazzare.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2020
ISBN9788831664370
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    Anteprima del libro

    Aretusa Jammin - Fabio Centamore

    633/1941.

    UNO.

    Non era l'al­ba, non an­co­ra. Nell'aria, pe­rò, si sen­ti­va già il suo sa­po­re in­sie­me al pro­fu­mo in­ten­so del­la sal­se­di­ne e al­le gri­da acu­te dei gab­bia­ni.

    Mi­nu­sco­le e pi­gre, le scin­til­le del pri­mo so­le cor­re­va­no nell’at­mo­sfe­ra buia. Ve­lo­ci e in­si­sten­ti co­me no­te di un as­so­lo di chi­tar­ra, co­me suo­ni che si tor­ce­va­no fi­no a toc­ca­re an­che le cor­de dell'ani­ma. Co­sì ap­pa­ri­va il cie­lo di Or­ti­gia lun­go la not­te. Bar­lu­mi, sem­pli­ci in­tui­zio­ni di lu­ce, si sti­rac­chia­va­no len­ti ver­so il buio va­go e scre­zia­to. Sten­ta­ti ap­pi­gli di so­le, per­cet­ti­bi­li più dal­la fan­ta­sia che da­gli oc­chi. Pre­sto sa­reb­be sta­to gior­no. I vi­co­li e le fac­cia­te ba­roc­che, i luo­ghi su cui un tem­po ave­va­no pas­seg­gia­to Pla­to­ne e Ar­chi­me­de, si sa­reb­be­ro ar­ro­ven­ta­ti di ef­flu­vi ma­ri­ni e can­di­de sab­bie por­ta­te dal ra­ro ven­to di fi­ne set­tem­bre. Ra­pi­di tu­ri­sti, im­pie­ga­ti, gen­te co­mu­ne in­ten­ta in ogni ge­ne­re di af­fa­re avreb­be scia­ma­to fra quel­le an­ti­che pie­tre, spre­mu­to su­do­re e pen­sie­ri di ogni ti­po. Ma non an­co­ra. L'al­ba era so­lo mia.

    Giun­se il mo­men­to di la­sciar­la can­ta­re. Fra le mu­ra spa­gno­le e le an­ti­che ro­vi­ne gre­che, Oli­via si la­sciò ada­gia­re con­tro le mie lab­bra. Li­scia, fre­sca, co­sì sen­sua­le. Sfio­rai le pri­me no­te bas­se, dol­ce­men­te, con una pic­co­la pun­ta di lin­gua. Poi sem­pre più acu­te, stra­zian­ti, le mi­nu­sco­le no­te ini­zia­ro­no a ca­val­ca­re l'aria ver­so il so­le an­co­ra non na­to o, for­se, ver­so l'oscu­ri­tà in via d'estin­zio­ne. Af­fer­ra­va­no ogni mi­ni­mo fi­la­men­to di brez­za. Ra­pi­de e stra­sci­ca­te fra le mie lab­bra vi­bran­ti, pie­ghe sem­pre più in­cre­spa­te dal cre­scen­do. In­fi­ne, ec­co che sfu­ma­va­no dol­ci ver­so l'oriz­zon­te ma­ri­no. So­lo un at­ti­mo, un len­to im­pos­si­bi­le at­ti­mo, pri­ma di ri­pren­de­re a cre­sce­re e sa­li­re di to­no. Ge­me­va la pic­co­la, mo­du­la­va pia­no. Ca­den­za­ti, pre­zio­si pic­chi da con­tral­to. C'era­va­mo qua­si. Aspi­rai len­ta­men­te l'aria sa­la­ta com­bi­nan­do sol e fa. I ge­mi­ti di Oli­via si fe­ce­ro acu­ti, sem­pre più, fi­no a rag­giun­ge­re i tet­ti del­le ca­se, le per­sia­ne pol­ve­ro­se e sgan­ghe­ra­te, le spa­ru­te bar­che di pe­sca­to­ri an­co­ra in ma­re. Toc­ca­ro­no il cie­lo una, due, tre vol­te. La­sciai che si spe­gnes­se­ro nell’umi­do, ma­di­do, di­scre­to sce­na­rio del lun­go­ma­re.

    Qual­cu­no ap­plau­dì. Vol­tai le spal­le ri­po­nen­do l'ar­mo­ni­ca nel­la giac­ca.

    – Tu sì che fai go­de­re le don­ne. Pec­ca­to che lo fai so­lo con la mu­si­ca – dis­se la spet­ta­tri­ce sor­ri­den­do. Il can­do­re dei den­ti le il­lu­mi­nò il vi­so bru­no co­me la not­te, la pel­le co­lor eba­no trae­va lu­ci­de fa­vil­le dall'aria sal­ma­stra. Cor­ti ca­pel­li ne­ri, co­me gli oc­chi. Qua­si buie mac­chie d'in­chio­stro sul­la li­scia su­per­fi­cie eba­no del vol­to. Era l'eter­no con­tra­sto del­le don­ne afri­ca­ne, ca­pel­li e oc­chi ne­ro pe­ce con­tro den­ti can­di­di co­me ne­ve. Fa­scia­ta nell'ele­gan­te ve­sti­to cor­to tem­pe­sta­to di te­nui fi­gu­re can­gian­ti, sem­bra­va per­fi­no an­cor più sfug­gen­te e mi­ste­rio­sa del­la not­te che sta­va per sva­ni­re.

    – Chiun­que tu sia, buon­gior­no – le re­pli­cai am­mi­ran­do­ne il cor­po esi­le e pri­vo di sba­va­tu­re, in­guai­na­to nel suc­cin­to abi­ti­no. – Sei tut­ta so­la?

    – Pof! – Sbot­tò riav­vian­do­si una cioc­ca pen­den­te die­tro l'orec­chio. – Per og­gi ho da­to ab­ba­stan­za a tu­ri­sti e ma­ri­ti in­sod­di­sfat­ti, quin­di ora ri­po­so.

    – Ha­ha­ha­ha… Tan­ta sin­ce­ri­tà me­ri­ta una buo­na co­la­zio­ne, pos­so of­fri­re?

    – Me­ri­to an­che un ma­ri­to eu­ro­peo co­me te, non la pa­ten­te di pro­te­zio­ne del­lo sta­to. – Sen­ten­ziò scu­ren­do­si in vol­to. Fu so­lo un lun­go at­ti­mo di im­ba­raz­zo, poi tor­nò a sor­ri­de­re. – Por­ta­mi al bar, ti pre­go.

    – Hai mai vi­sto que­st'uo­mo? – Le chie­si mo­stran­do l'im­ma­gi­ne che mi por­ta­vo nel­lo smart­pho­ne or­mai da qual­che not­te.

    – No, mai vi­sto. Scap­pa­to dal­la mo­glie?

    – Co­me fai a dir­lo?

    – So ri­co­no­sce­re due ti­pi di uo­mi­ni, quel­li che scap­pa­no dal­la mo­glie e i per­ver­ti­ti. Lui non ha la fac­cia del per­ver­ti­to, ha gli oc­chi buf­fi co­me i tuoi – ri­spo­se stor­cen­do di la­to le bel­le lab­bra car­no­se.

    – Que­sta non me l'ave­va an­co­ra det­to nes­su­no. E che vuol di­re oc­chi buf­fi?

    – Oc­chi che guar­da­no fuo­ri dal mon­do rea­le. Oc­chi da so­gna­to­re.

    Mi scap­pò da ri­de­re men­tre scuo­te­vo la te­sta. – Co­sì fi­ni­sce che ti spo­so dav­ve­ro. – Le dis­si fra i sin­gul­ti.

    – Sei di quel­li che lo di­co­no sem­pre e non lo fan­no mai, co­me tut­ti gli al­tri uo­mi­ni. – Ri­bat­té tor­nan­do se­ria per la se­con­da vol­ta. – Tu, pe­rò, al­me­no suo­ni l'ar­mo­ni­ca e sai ca­rez­za­re un cuo­re.

    – E of­fro an­che la co­la­zio­ne al­le pro­sti­tu­te che san­no far­mi sim­pa­tia, mi chia­mo An­drea.

    – Oc­chio, An­drea! So­no af­fa­ma­tis­si­ma do­po una not­te di la­vo­ro. Ti con­su­mo un pa­tri­mo­nio di brio­che­se gra­ni­te.

    – Gra­ni­te, brio­ches cal­de e bel­la com­pa­gnia. Mai pa­tri­mo­nio fu con­su­ma­to con più pia­ce­re.

    Mi rin­gra­ziò con un ba­cio in fron­te, co­me se le aves­si pro­po­sto un viag­gio pre­mio. Si ap­pe­se al mio brac­cio e si la­sciò ac­com­pa­gna­re lun­go la sa­li­ta, ver­so la piaz­za. Tre­ma­va. Ep­pu­re non c'era fred­do e l'al­ba era co­sì dol­ce e fre­sca da ri­sve­glia­re le men­ti e ria­ni­ma­re i cuo­ri. Po­te­va­no es­se­re tre­mi­ti di pau­ra (non era pro­prio nor­ma­le tro­va­re una pro­sti­tu­ta pa­ten­ta­ta in pie­na Or­ti­gia, a quell'ora) o sem­pli­ce sol­lie­vo per la fi­ne dell'en­ne­si­ma not­te di uo­mi­ni. Sta­vo per ca­ri­car­mi ad­dos­so l'en­ne­si­mo va­go­ne di guai in for­ma­to fem­mi­ni­le? Mi ac­ca­de­va fin trop­po spes­so, in­cer­ti del mio me­stie­re di vi­ve­re. Qual­co­sa mi di­ce­va che sa­rei pre­sto fi­ni­to a chie­der­le di dor­mi­re nel­la mia reg­gia. Do­po­tut­to, c'era spa­zio per un pic­co­lo reg­gi­men­to in quel­la spe­cie di ca­stel­lo.

    Una vil­let­ta di cen­to­cin­quan­ta me­tri qua­dri, cir­con­da­ta da am­pio e ri­go­glio­so giar­di­no, fuo­ri Si­ra­cu­sa e adia­cen­te al­la zo­na pro­tet­ta del Plem­mi­rio. Am­pia ca­me­ra da let­to si­gno­ri­le con ba­gno an­nes­so, un bel­lis­si­mo stu­dio bi­blio­te­ca, tre con­for­te­vo­li ca­me­ret­te, pa­tio sul giar­di­no e lu­mi­no­so sog­gior­no. Nul­la che mi ap­par­ten­ga real­men­te, un ge­ne­ro­so re­ga­lo del con­te Car­lo Ma­ria Au­re­lio Im­pa­sta­to Alai­mo, grand'uf­fi­cia­le del ri­na­to Re­gno D'Ita­lia e se­na­to­re eme­ri­to dell'Unio­ne Eu­ro­pea. Ho sem­pre pen­sa­to che sia un re­ga­lo spro­por­zio­na­to e po­co adat­to a me. Do­po­tut­to, or­mai non so­no più un po­li­ziot­to. Car­rie­ra nau­fra­ga­ta nell’al­col, di­co­no i più. Non so­no al­tro che un suo­na­to­re di jazz, sal­va­to da un’ar­mo­ni­ca a boc­ca e ri­get­ta­to den­tro una nuo­va vi­ta pri­va di pro­spet­ti­ve. Fre­quen­to lo­ca­li not­tur­ni di se­con­do or­di­ne, dor­mo po­co e scia­lac­quo tem­po. Uno, in­som­ma, che vi­ve co­steg­gian­do i mar­gi­ni e le pe­ri­fe­rie dell'an­ti­ca e si­gno­ri­le Si­ra­cu­sa, la cre­ma del Re­gno. Do­ve vi­vo io non si ve­do­no di buon oc­chio le cra­vat­te, la buo­na po­si­zio­ne eco­no­mi­ca, una mo­glie e una fa­mi­glia ma­ga­ri. So­no la mo­sca nel­la tor­ta di cre­ma, uno che vi­ve al­la – co­me vie­ne vie­ne. – Uno co­sì la lu­ce del gior­no la fre­quen­ta po­co e ma­la­men­te per­ché l'ha sem­pre tro­va­ta scial­ba, di po­ca so­stan­za, inu­til­men­te il­lu­so­ria. Uno fat­to co­sì po­co ha a che fa­re con le per­so­ne nor­ma­li, con le ca­se enor­mi e con le ric­chez­ze. Pe­rò, an­che per uno del ge­ne­re, non è con­si­de­ra­to giu­sto ri­fiu­ta­re si­mi­li do­ni quan­do ven­go­no of­fer­ti. So­prat­tut­to se chi li of­fre ha un de­bi­to fin trop­po gros­so da col­ma­re, con la pro­pria co­scien­za più che con il sot­to­scrit­to. Il mot­to di uno co­me me è sem­pre sta­to lo stes­so, in fon­do. Mai far­si com­pra­re da un ba­na­le pac­co di sol­di, se puoi scroc­ca­re fa­vo­ri a vi­ta.

    Mae­sto­sa nel suo mi­scu­glio di ar­chi­tet­tu­re, la piaz­za era as­so­lu­ta­men­te de­ser­ta. Vuo­ta e ri­schia­ra­ta ap­pe­na da una lu­ce li­vi­da, po­co ac­cen­na­ta. Il cie­lo era an­co­ra ne­ro e più umi­do del so­li­to, sco­no­sciu­to, umo­re sal­ma­stro e per­si­sten­te. Ci se­dem­mo all'uni­co ta­vo­li­no già ap­pa­rec­chia­to dell'uni­co bar aper­to. Aspi­rai il pro­fu­mo pun­gen­te dell'aria ma­ri­na, mi re­si con­to che il mo­no­to­no scia­bor­da­re del­la ri­sac­ca ar­ri­va­va fin lì. Che co­sa in­cre­di­bi­le! En­ne­si­ma not­ta­ta scon­clu­sio­na­ta.

    – Gra­ni­ta e brio­che, si­gnor Spa­da? – esor­dì il ra­gaz­zo del bar.

    – Cer­to, Pip­puz­zu. Per me e la si­gno­ra sta­vol­ta. Ah, sen­ti… ma co­me fai ad es­se­re co­sì inap­pun­ta­bi­le a que­st'ora?

    – Sem­pre spi­ri­to­so lei – con­clu­se al­lon­ta­nan­do­si.

    La mia nuo­va ami­ca mi ap­pun­tò ad­dos­so i suoi oc­chi bui ac­ca­val­lan­do le lun­ghe gam­be luc­ci­can­ti, lo spac­co fe­ce qua­si sva­ni­re il ve­sti­to già cor­to.

    – Si­gnor Spa­da… – sus­sur­rò ab­bas­san­do il to­no di vo­ce fin qua­si a imi­ta­re il ran­to­lio di un gat­to.

    – Il mio co­gno­me. Tu un no­me non ce l'hai?

    – Gre­ta, mi chia­ma­no tut­ti co­sì – ri­spo­se sec­ca. Scrol­lai le spal­le, qual­sia­si pro­sti­tu­ta, pa­ten­ta­ta dal­lo sta­to o me­no, ave­va sem­pre gros­si pro­ble­mi a pre­sen­tar­si per no­me. – Lo cer­chi da mol­to?

    – Chi?

    – Il tuo ami­co, quel­lo del­la fo­to

    – So­lo da un pa­io di set­ti­ma­ne. Si chia­ma Leo­ne Di Gran­de, la mo­glie lo ri­vor­reb­be a ca­sa ma io non so­no an­co­ra riu­sci­to a tro­var­ne la più pic­co­la trac­cia. – L'im­ma­gi­ne vi­vi­da dal te­le­vi­so­re gi­gan­te del bar cat­tu­rò la mia at­ten­zio­ne. Si trat­ta­va dell'en­ne­si­ma re­pli­ca del­lo sbar­co ci­ne­se su Mar­te, i te­le­vi­so­ri dell'in­te­ro Oc­ci­den­te ne era­no pie­ni or­mai da gior­ni e non c'era an­go­lo di Si­ra­cu­sa in cui non se ne par­las­se.

    – Di­cia­mo che la co­sa mi in­quie­ta, sem­bra sva­ni­to nel nul­la. – Ri­pre­si di­sto­glien­do lo sguar­do dal­le pie­tra­ie del pia­ne­ta ros­so, la po­li­ti­ca mi ave­va sem­pre an­no­ia­to. – Di so­li­to, quan­do de­ci­do di met­ter­mi in cac­cia, av­ver­to la trac­cia del mio ri­cer­ca­to qua­si co­me un odo­re in­con­fon­di­bi­le.

    – Pof, for­se è giu­sto co­sì.

    – Che vuoi di­re?

    – Se aves­si un ma­ri­to e scap­pas­se di ca­sa, mi cer­che­rei su­bi­to un al­tro uo­mo. For­se per sua mo­glie è me­glio se non lo ri­tro­vi.

    – Io so so­lo che la co­sa co­min­cia ad an­no­iar­mi. Che pos­so far­ci? La si­gno­ra, pe­rò, con­ti­nua a in­si­ste­re. Di­ce che di si­cu­ro lui è qui, a Si­ra­cu­sa. Do­vrei mol­la­re le ri­cer­che. In­ve­ce ec­co­mi qui, a per­de­re tem­po sen­za sa­pe­re co­sa fa­re e sen­za riu­sci­re a ri­nun­cia­re. Ma che te le di­co a fa­re 'ste co­se? Non so nem­me­no per­ché ti par­lo dei fat­ti miei.

    – For­se non lo fai per la si­gno­ra, ma­ga­ri lo fai per qual­cun al­tro.

    – Sei qua­si in­quie­tan­te – la rim­pro­ve­rai ir­ri­gi­den­do la schie­na sul­la ge­li­da spal­lie­ra me­tal­li­ca. – Ma chi sei, una spe­cie di ma­ga? Te l'han­no in­se­gna­to nel po­sto da cui vie­ni a leg­ge­re den­tro la gen­te?

    Non mi ri­spo­se, si li­mi­tò ad al­lar­ga­re le lab­bra car­no­se in un am­pio sor­ri­so pri­ma di tuf­fa­re il na­so nel bic­chie­re di gra­ni­ta.

    La no­ia nau­sea­bon­da ri­pre­se a mon­ta­re in­sie­me al­la lu­ce del gior­no, sen­za che la fra­gran­za di bur­ro del­la brio­che o la dol­cez­za al­gi­da del­la gra­ni­ta po­tes­se­ro mi­ti­gar­ne il sa­po­re ama­ro­gno­lo. Gre­ta la mi­ste­rio­sa ave­va col­to nel se­gno, ero ar­ri­va­to a quel­la si­tua­zio­ne di stal­lo per col­pa di Ro­se e so­lo per lei. Tut­ti han­no dei pun­ti de­bo­li, il mio è lei. Stan­ga, ros­sa, oc­chi ver­di, ele­gan­te, ir­lan­de­se di Gal­way. Ado­ra­va il jazz, vi­ve­va di mu­si­ca or­ga­niz­zan­do con­cer­ti not­tur­ni con ar­ti­sti lo­ca­li. Ma­ni in pa­sta con tut­ti i lo­ca­li più in­te­res­san­ti di Or­ti­gia e din­tor­ni, spo­sa­ta con uno stron­zo mol­to più vec­chio, uno de­gli ame­ri­ca­ni più po­ten­ti di Si­ra­cu­sa. Que­sta è Ro­se, il mio agen­te mu­si­ca­le, la mia ex. For­se era la cre­scen­te ama­rez­za che mi im­pa­sta­va la boc­ca, for­se so­lo il sen­so di scon­for­to di quel mat­ti­no. Io, pe­rò, a di­stan­za di an­ni or­mai, con­ti­nua­vo a de­fi­nir­la sem­pre e so­lo – fal­li­men­to. – Qual­co­sa pre­se a ron­za­re nel­la ta­sca in­ter­na del­la mia giac­ca. Non era pro­prio un ron­zio so­no­ro, piut­to­sto un ron­zio mi­sto a vi­bra­zio­ne per­si­sten­te. Non era Oli­via, la mia ar­mo­ni­ca ri­po­sa­va iner­te. Si trat­ta­va dell'al­tra be­stio­li­na, quel­la su­per tec­no­lo­gi­ca scroc­ca­ta all'il­lu­stre se­na­to­re e no­bi­luo­mo Im­pa­sta­to Alai­mo. Gual­tie­ro, uno smart­pho­ne Hang­mei non pre­di­spo­sto per la vi­sio­ne olo­gra­fi­ca (in col­le­ga­men­to olo­gra­fi­co, le per­so­ne sem­bra­no fan­ta­smi ed io non amo par­la­re con i fan­ta­smi), non mi sta­va af­fat­to sim­pa­ti­co, lo odia­vo an­zi. Quel­la mat­ti­na, pe­rò, con mez­zo di­sco di so­le che già fa­ce­va ca­po­li­no fra i pa­laz­zi da­gli ela­bo­ra­ti fre­gi ba­roc­chi, mi sal­vò in­spe­ra­ta­men­te dai so­li­ti cat­ti­vi ri­cor­di. Ti­ran­do­lo fuo­ri mi ac­cor­si, in­fat­ti, che l'ico­na dei mes­sag­gi lam­peg­gia­va al­le­gra­men­te di­straen­do­mi da qual­sia­si pen­sie­ro ma­la­to. Ave­vo ap­pe­na ri­ce­vu­to una email ri­sa­len­te al­la se­ra del gior­no pri­ma. Pos­si­bi­le che una tec­no­lo­gia che non si con­ce­de mai ri­po­so, nem­me­no quan­do il mon­do dor­me, ri­tar­das­se co­sì la con­se­gna di un ba­na­le mes­sag­gio? Mi af­fret­tai ad apri­re il link, una se­rie di ca­rat­te­ri ben mar­ca­ti e ro­ton­di si com­po­se ve­lo­ce sot­to i miei oc­chi sgra­na­ti.

    La pre­go di con­tat­tar­mi ap­pe­na pos­si­bi­le, vor­rei in­con­trar­la per l'ora di pran­zo. Ho qual­co­sa per lei. Aga­ta Cri­fò Di Gran­de.

    – Pro­ble­mi? – chie­se la mia nuo­va ami­ca asciu­gan­do­si le lab­bra umi­de di gra­ni­ta.

    – Fa­sti­di, Gre­ta. Inu­ti­li fa­sti­di. La si­gno­ra ti­ra le re­di­ni, vuo­le no­vi­tà ed io non so che dir­le.

    Il te­le­vi­so­re gi­gan­te emi­se un rom­bo pro­lun­ga­to e co­stan­te. Dal­le pie­tro­se sab­bie di Mar­te, la Xie­zi Sha VI si ap­pre­sta­va a far de­col­la­re il pic­co­lo ve­li­vo­lo da esplo­ra­zio­ne Ma­feng dal pic­co­lo han­gar sul­la som­mi­tà dell'astro­na­ve. Os­ser­vai per qual­che se­con­do quel pic­co­lo og­get­to toz­zo e bom­ba­to, una sor­ta di sgra­zia­to ca­la­bro­ne pri­vo di ali, men­tre si stac­ca­va gof­fa­men­te dal suo an­co­rag­gio. Poi la no­ia eb­be il so­prav­ven­to. Se la not­te era sta­ta in­con­clu­den­te, la gior­na­ta si ap­pre­sta­va a di­ven­ta­re peg­gio di una trap­po­la bol­len­te. Gi­rai la te­sta e fis­sai lo sguar­do sul sor­ri­so il­lu­mi­nan­te di Gre­ta, quin­di sul­le sue lun­ghe gam­be ne­re, luc­ci­can­ti e in bel­la mo­stra.

    DUE.

    – In mol­ti han­no par­la­to del suo par­ti­co­la­re ta­len­to, si­gnor Spa­da. Una do­te uni­ca e ra­ra che so­lo lei pos­sie­de, ri­tro­va­re per­so­ne scom­par­se sen­za uti­liz­za­re la mi­ni­ma trac­cia, sen­za bi­so­gno di in­da­ga­re. Pen­si, mi ave­va­no ri­fe­ri­to di una spe­cie di se­sto sen­so. Una sor­ta di leg­gen­da si­ra­cu­sa­na, in cui lei ri­tro­va le per­so­ne qua­si a fiu­to co­me un se­gu­gio. Ve­do, tut­ta­via, che non è af­fat­to co­sì.

    – Tut­te chiac­chie­re, si­gno­ra Di Gran­de – re­pli­cai cer­can­do di igno­ra­re il vo­lu­me al­to del te­le­vi­so­re. – Leg­gen­de, si­gno­ra, pu­re leg­gen­de me­tro­po­li­ta­ne.

    Sto­rie vec­chie, ri­sa­li­va­no al­la mia vi­ta pre­ce­den­te di po­li­ziot­to. Di scom­par­si ne ave­vo tro­va­ti so­lo una de­ci­na e non cer­to per se­sto sen­so. Mac­ché! La ve­ri­tà? De­vo dir­la tut­ta? For­tu­na. Una spe­cie di de­sti­no che, per gli ex scom­par­si do­ve­va av­ve­rar­si. Io, in fon­do, che ave­vo fat­to di mio? Ero sta­to una sem­pli­ce vit­ti­ma di even­ti che scor­re­va­no a ca­so, in­con­trol­la­bi­li e in­con­trol­la­ti. Por­ta­to sem­pre al po­sto giu­sto, al mo­men­to giu­sto. Tut­to qui. Ma qua­le in­tui­to, qua­le se­sto sen­so? Pi­lo­ta­to dal ca­so, tra­sci­na­to dal­la cor­ren­te e pun­to. Mi gi­rai tut­to in­tor­no fin­gen­do di cer­ca­re il ca­me­rie­re. Vo­le­vo so­lo di­sto­glie­re lo sguar­do dal fac­cio­ne ton­do, ro­seo e oc­chia­lu­to di Han Ho Xiang, mi­ni­stro del­lo svi­lup­po del­la Re­pub­bli­ca Po­po­la­re Ci­ne­se e pro­ta­go­ni­sta as­so­lu­to del pro­gram­ma te­le­vi­si­vo dif­fu­so nel­la sa­la. A di­spet­to di quel­la sua vo­ci­na mo­no­cor­de e sua­den­te, ot­ti­mo sot­to­fon­do per un pran­zo di lus­so, i sot­to­ti­to­li in espe­ran­to con­ti­nua­va­no a bal­lar­mi sot­to gli oc­chi a ma­gni­fi­ca­re i ri­sul­ta­ti del­lo svi­lup­po spa­zia­le del gran­de al­lea­to ci­ne­se. Il ri­sto­ran­te, pe­rò, era qua­si vuo­to seb­be­ne fos­se la una spac­ca­ta del po­me­rig­gio. Una gior­na­ta di stre­pi­to­so so­le, l'en­ne­si­ma, get­ta­va la sua lu­ce im­pu­di­ca in­sie­me a vam­pa­te di ca­lo­re set­tem­bri­no ovun­que. Ta­vo­li, to­va­glie im­ma­co­la­te, se­die ba­roc­che re­stau­ra­te e ca­me­rie­ri inap­pun­ta­bi­li. Tut­to get­ta­to lì co­sì, nel­la più espli­ci­ta ba­na­li­tà. Scon­fit­to dall'as­sen­za di ca­me­rie­ri in di­vi­sa, sgan­ciai sul­la lin­gua il con­te­nu­to del­la for­chet­ta. Me­glio tap­par­si la boc­ca con del buon pe­sce fre­sco, sa­tu­ra­re il pa­la­to con l'odo­re pun­gen­te di me­di­ter­ra­neo e li­mo­ne, che sve­la­re ad al­ta vo­ce la ma­la pian­ta che col­ti­va­vo in te­sta. Tan­to al­la gen­te, in fon­do, pia­ce cre­de­re al­la ma­gia, al toc­co ri­so­lu­to­re. Tut­ti, nes­su­no esclu­so, ama­no cre­de­re al­la buo­na po­li­ti­ca ame­ri­ca­na, al gran­de al­lea­to ci­ne­se e al­la cre­sci­ta eco­no­mi­ca. Per­ché, dun­que, di­strug­ge­re la leg­gen­da me­tro­po­li­ta­na di An­drea­Spa­da e del suo se­sto sen­so.

    Ma­sti­cai sen­za ri­te­gno, un boc­co­ne die­tro l'al­tro. Gli oc­chi ca­sta­no ra­ma­to del­la si­gno­ra non smet­te­va­no di squa­drar­mi get­tan­do­mi ad­dos­so una sor­ta di re­pres­sa in­quie­tu­di­ne. Ma che pre­ten­de­va, che il ma­ri­to glie­lo tro­vas­si in quat­tro e quat­tr’ot­to? E poi, mi­ca le ave­vo chie­sto sol­di o pa­ga­men­ti gior­na­lie­ri? Tut­to gra­tiis et amo­re dei. Sti­rai le lab­bra in un sor­ri­so e la­sciai che pen­sas­se ciò che le pa­re­va, fin­ge­re con gli abi­tan­ti del gior­no era sem­pre la mi­glior so­lu­zio­ne. So­prat­tut­to se la si­gno­ra era co­sì ge­ne­ro­sa da of­fri­re il pran­zo. In fon­do, il ve­ro de­lu­so ero io non lei. Cac­ciai la de­lu­sio­ne giù, in fon­do al­lo sto­ma­co, in­sie­me all'ul­ti­mo pez­zo di spi­go­la. Mi il­lu­de­vo sem­pre che, al­la fi­ne, qual­cu­no mi cer­cas­se per co­me suo­na­vo l'ar­mo­ni­ca. In­ve­ce…

    – Si­gno­ra – mor­mo­rai qua­si a me stes­so – ades­so so­no so­lo un mu­si­ci­sta. Ado­ro il jazz, la not­te e il ca­lo­re del­la gen­te. Non fac­cio se­du­te spi­ri­ti­che e non so­no un me­dium. Se non ci cre­de, per­ché non vie­ne a sen­tir­mi al Bir­die Pub? Non è lon­ta­no da qui, ba­sta se­gui­re il lun­go­ma­re di Or­ti­gia.

    Ri­cam­biò il mio sor­ri­so ac­ca­val­lan­do le gam­be. Ave­va un vol­to se­to­so e pal­li­do, so­lo qual­che ru­ga d'espres­sio­ne. Si ve­de­va che non mol­to tem­po fa era sta­ta bel­lis­si­ma. A ve­der­la ades­so, con il cor­po re­so es­sen­zia­le dall'età ma­tu­ra, non si ca­pi­va esat­ta­men­te quan­to tem­po era pas­sa­to, po­te­va­no es­se­re me­si o an­ni. Ora era sem­pli­ce­men­te

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