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Più lontano di lontano, più vicino di vicino
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E-book215 pagine3 ore

Più lontano di lontano, più vicino di vicino

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Info su questo ebook

Davide, musicista 70enne, chiamato il Maestro, perde la memoria dopo aver subìto un furto e dopo che la moglie Daniela se ne è andata inspiegabilmente. Per cercare di trovare sua moglie e il ladro del suo passato assolda uno strano investigatore, Testa (imparentato a suo dire con gli aquiloni) il quale, dopo aver raccolto informazioni inutili ai fini dell’indagine, decide di rivolgersi all’Arcangelo Gabriele perché lo aiuti a fare un viaggio nel passato di Davide e di sua moglie. Chiede che gli faccia da guida (per intercessione dell’Arcangelo incontrato una notte in cima al campanile di San Marco a Venezia) il Tempo, un’entità costituita da un cappuccio e un mantello, entrambi assolutamente vuoti. Accompagnato da questo Virgilio, Testa risale le rotaie del tempo fino al 1962 e assiste ad alcuni episodi della vita dei coniugi: il primo approccio amoroso, i litigi, lo sfratto dalla prima casa, la malattia iniziale di Daniela, le sue assenze mentali dovute a una leggera forma di epilessia. L’investigatore, grazie alle sue facoltà, fa visita all’interno dei cervelli di Davide e Daniela, destreggiandosi in mezzo a foreste di neuroni. In qualche modo “dialoga” a senso unico con il Tempo, il quale lentamente va prendendo forme orribilmente umane. Tornati al presente senza importanti indizi in tasca, il sospetto di Testa cade sul Tempo ma alla fine di un inseguimento notturno per le calli di Venezia, quest’ultimo confessa di non essere lui il ladro del passato ma di essere semplicemente la Befana della Morte. Di lì a breve un episodio chiarirà tutta la vicenda e il delicato finale è a sorpresa.

Maurizio Piccoli (Venezia, 1948) è giornalista e compositore pop di chiara fama (Mia Martini, Bertè, Mannoia, Zero, Vanoni, ecc.). Si è dedicato solo recentemente alla scrittura di storie con elementi fantasy
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2019
ISBN9788830608337
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    Anteprima del libro

    Più lontano di lontano, più vicino di vicino - ​​​​​​​Maurizio Piccoli

    Spa

    Il ricavato della vendita di questo libro verrà interamente devoluto al Nucleo di Protezione Civile del Lido di Venezia.

    Più lontano di lontano,

    più vicino di vicino

    I

    Il contenitore era un cilindro di latta, cromato, con un andamento esterno da colonna ritorta come quelle del baldacchino nella basilica di San Pietro. Ludovico Testa, uno sbalestrato detective dalle facoltà non proprio normali, mai aveva incrociato un oggetto simile durante le sue scorribande professionali. Quella cosa metallica era sbucata fuori da sotto uno strato di tovaglie poste in bell’ordine nel cassetto del mobile di un salotto. Poteva essere la custodia di un sigaro di alta qualità o un porta pergamena improvvisato. Proprio con quest’ultima funzione era stato utilizzato per custodire un normale foglio di carta, arrotolato con molta cura, la cui facciata interna era coperta da un manoscritto.

    Testa srotolò il foglio e lo esaminò attentamente. Era datato 3 giugno 1969, i caratteri erano molto piccoli e con tutta probabilità la penna usata era stata una stilografica caricata con inchiostro blu pallido. Titolo: In articulo vitae. Quando iniziò a leggerlo era il 3 giugno 2017, una sera piacevolmente tiepida di 48 anni dopo la redazione dello scritto, la sera di un giorno tristemente qualsiasi nella vita del suo autore e committente, il signor Davide Stilla, chiamato il Maestro, sposato da più di quarant’anni con la signora Daniela Avezzù degli Avezzi.

    «Non ti rallegri il frontespizio, ma l’ora di varcare i confini di questa mia misera dimensione terrena potrebbe essere arrivata e i battiti del cuore finalmente fermarsi. Pensavo alla pazzia come ad una sconosciuta facoltà del dolore di andare oltre, oltre i sogni, chissà dove. Il mio è un dolore che in certe sere mi stritola il petto e la mente con una violenza inaudita. Anche oggi è qui con me. Le soluzioni e i consigli per trattare una materia poco malleabile come il nostro stare insieme ho cercato troppe volte di suggerirteli a piene mani e, per favore, non avere un orecchio stonato per le musiche dolci che ho sempre cercato di infonderti e che per me odorano sempre di salvazione.

    Ti prego di non voler farmi mutare il frontespizio nel funereo articulo mortis e scusami per quanto di libresco c’è in questa mia confessione. Anch’io vorrei che la mia vita non fosse guidata solo da una insopportabile scienza di candela, da questo snervante studio analitico di ogni cosa e situazione, attività decisamente paralizzante per quel mio Altro che sono. Portami lontano dai miei orribili pensieri e se il groviglio delle mie non risposte mi avesse già avviluppato, tessi il filo di Arianna e aiutami, amore mio!».

    Testa faticò ad attribuire al signor Stilla quella tormentata dichiarazione. L’incedere delle frasi era troppo grave, altisonante, aulico, cupo per essere di suo pugno dato che, fin dal primo incontro, gli era parso un orso parzialmente gioviale, con qualche grado di connaturata ruvidezza, fortemente abrasivo solo per difesa ma con promontori di estrema dolcezza quando si proiettava con entusiasmo nei suoi mari caldi preferiti: quello dell’amore e della comprensione. Lo scritto parlava una lingua diversa, attribuibile con difficoltà al suo cliente, ma la firma era lì, in bella evidenza e attestava chiaramente chi era stato a muovere la penna.

    La lettura di quelle frasi gli scaraventò in testa frammenti del racconto che qualche giorno prima il signor Stilla gli aveva fatto della propria giovinezza; di quanto allora fosse stato preda dei cattivi pensieri, dell’incomprensione e della delusione per le sue richieste di aiuto andate a vuoto. Alla data dello scritto, trasudante un grande disagio e una tentazione di suicidio, Davide aveva 21 anni, stava con Daniela già da un lustro e in questo rapporto da giovani fidanzati si sentiva almeno in parte rassicurato, protetto, non abbandonato, come legato a una corda; una corda sufficientemente lunga da permettergli di gironzolare tutt’intorno, di brucare qualche affetto clandestino come una capra peccaminosa e di avere la certezza che c’era sempre un luogo al quale tornare dopo le sue fughe mentali e non; poche, in effetti, ma disastrosamente squilibranti la sua unione d’amore.

    A Testa tornarono in mente alcune frasi di quel colloquio in cui era emersa la grande difficoltà a ricordare il passato da parte di Davide il quale, con smorfie di sofferenza, andava pescando nel lago delle sue memorie abitato ormai da poche alborelle.

    «Sa, Daniela significa per me la bella normalità, il mio palo fisso. Lei capisce molto bene tutto quello che di me è in superficie ma si sforza… devo dire a volte riuscendoci… di penetrare anche le mie zone più buie… di captare, se non di capire, i miei malesseri. Ha un’infinita pazienza nel sopportare le mie turbolenze! Lei, mi creda, è un antidoto ai miei veleni mentali, un sollievo, un vento carezzevole… manda via le nuvole scure».

    Il fatto che il manoscritto fosse emerso dal cassetto proprio il 3 giugno, esattamente a 48 anni dalla sua scrittura, creò a Testa non solo sorpresa ma un deciso turbamento, in quanto era venuto a conoscenza che entrambe le date erano legate a due appuntamenti del signor Davide con il dolore: la prima data rimandava al suo sprofondare nella depressione e alla voglia di farla finita; la seconda, a una freschissima, rinnovata, lacerante ferita.

    Testa sapeva bene con quanta accuratezza il tempo organizzava incontri perfetti tra accadimenti anche molto distanti fra loro. Credeva nelle coincidenze imperscrutabili; le adorava, sia che avessero esiti divertenti o confortanti, sia che provocassero angosce terribili. D’altronde, giocando in casa, per il tempo - o Classificatore di Eventi come lui lo definiva -, era un esercizio alquanto semplice tirar fuori dal cappello fatti concomitanti, combinare sposalizi temporali per poi stupire il mondo con le coincidenze più inaspettate e incredibili.

    Ma che ci faceva l’investigatore in quella stanza, la stanza di chi?

    Si trattava di una stanza dell’appartamento del suo committente, che lo aveva autorizzato a ispezionarla. Ma per quale fine? Per cercare cosa?

    Qualche giorno prima il signor Davide Stilla aveva contattato al telefono il signor Testa proponendogli un incontro. Quest’ultimo, per le sette di sera del giorno dopo, lo aveva invitato nel suo improbabile ufficio all’aria aperta, nel parco Sant’Agostino. Sorprendentemente le suppellettili a disposizione del detective erano ridotte all’osso: una sola panchina, ovviamente non di proprietà, e niente computer, scartoffie, tende impolverate. Solo un esagerato spazio mentale sempre libero e pronto a incamerare i racconti dei clienti. Nient’altro.

    Durante l’incontro, in quel posto decisamente insolito per un meeting di lavoro, i due parlarono a lungo, amichevolmente anche se risultava quasi palpabile la rabbia sedata che aveva invaso le vene del signor Stilla, un uomo solo apparentemente spinoso, sulla soglia dei settant’anni e dotato di una buona dose di ironia che gli zampillava di tanto in tanto da sotto i baffi biancheggianti. Aveva fatto il musicista per cinquant’anni e si era guadagnato sul campo l’affettuoso titolo di Maestro, titolo con cui la gente del quartiere lo salutava e che lui accettava con sorrisi di presuntuosa modestia. Aveva una corporatura robusta, brevilineo, vestito apparentemente in maniera semplice, a volte trasandata ma sempre con alcuni particolari che rivelavano una scelta accurata: per esempio, l’amata camicia blu con i bottoncini ognuno di un colore diverso o le scarpe scamosciate bicolori, blu e rosso. A spanne poteva sembrare il fratello dell’investigatore, ma si intuiva facilmente che, in quanto a mimica facciale, calore nei gesti e linguaggio, li divideva un muro alquanto spesso.

    Il signor Testa, ovvero il detective, mostrava costantemente un’espressione ghiacciata, con occhi di rana protesi a guardare più lontano di lontano. Aveva un’eccessiva rigidità nel muoversi e nel gesticolare, e solitamente esibiva pantaloni flessuosi come un cartone da imballaggio e la riga dei capelli realizzata con l’uso del righello. Le frasi, ordinate e mai troppo lunghe, gli sprizzavano dalla bocca precise e taglienti come fiori di vetro, senza inutilità, senza caramellosità. Erano pesate col bilancino e non lasciavano trasparire altri significati se non quelli per cui erano state proferite. Malgrado questa precisione svizzera nell’esprimersi, di tanto in tanto amava far esplodere qualche frase incomprensibile, come se l’avesse covata a lungo dentro di sé e non fosse più riuscito a trattenerla. Ma non era solo questo l’aspetto bizzarro di un individuo per altri versi molto misurato. Si intuiva che, alcune scelte di vita, come quella di dedicarsi all’investigazione senza dotarsi di un ufficio o il mantenere l’assoluto mistero di dove abitasse, erano frutto di una personalità in parte disturbata, istrionica, sofferta e, malgrado tutto, accarezzata. Si trattava di una decisa individualità che lasciava una porta sempre aperta al francescano il possibile impossibile.

    «Posso sapere come ha fatto a trovarmi?» chiese Testa dopo aver adagiato sulla panchina il giornale che aveva tenuto nella tasca della giacca. L’estrema cura e lentezza con cui lo poggiò, sedendovisi poi sopra, permise allo sguardo curioso del Maestro di rilevare che si trattava di un quotidiano di alcuni mesi addietro. Portava la data del 9 febbraio dell’anno corrente, il 2017.

    «Eh, io la conosco fin da quando ero bambino!» rispose il signor Davide. «E bambino lo era anche lei. Forse abbiamo la stessa età».

    «Sì, lo credo anch’io. Sono sceso sulla terra nel ‘48, nel mese delle rose! E lei?» domandò l’investigatore.

    «Giusto lo stesso mese. Che coincidenza! Ma lo sa che mi ricordo ancora gli scherzi che faceva alle statue dei santi! Nella casa parrocchiale ce n’era più di una. C’era quella di san Francesco, quella di sant’Antonio in refettorio, in canonica c’era quella della Madonna del Sacro Cuore… Una volta ha appeso una borraccia, o qualcosa di simile a una fiaschetta, al braccio di sant’Antonio!» disse Davide sorridendo.

    «Oh sì! Mi divertivo un mondo a far arrabbiare il prete. Se avesse potuto impiccarmi… Anche perché, in più di un’occasione, mi aveva sorpreso a bere il vino per la santa messa!» - precisò Testa, portando un invisibile bicchiere alla bocca.

    «Sì, sì, me lo ricordo!» esclamò il Maestro, felice di aver riesumato il fatto. «L’ultima volta che lei aveva bevuto il vino, il prete di allora… Se lo ricorda don Mario? Il don le aveva fatto assaggiare le sue scarpe. Qualche pedatina sul sedere gliel’ha data, eh! Era una bella birba lei! Come lo ero io, d’altronde. Ho la sensazione che abbia mantenuto questo carattere un po’ sopra le righe. O è solo una mia impressione?»

    Testa sorrise con l’asprezza di un limone acerbo e in quel momento a Davide parve di avvertire un profumo di violette, molto simile a quello dei fiorellini che infestavano il suo giardino. Gli venne in mente che la storia degli odori si collegava a fenomeni che avevano a che fare coi santi. Di questa storia dell’osmogenesi, o per meglio dire della fragranza della santità, era certo di averne letto diffusamente da qualche parte, ma gli veniva difficile pensare che quell’uomo, con il fisico da anziano sollevatore di pesi e la faccia da buttafuori, incarnasse la perfezione divina e avesse una qualche parentela con l’Altissimo.

    «Il prete di adesso, don Loris, mi ha parlato molto di lei. Immagino lo conosca bene. Riguardo a come ho fatto a trovarla, posso dirle che il tutto è successo un giorno di una mia grande debolezza interiore. Non frequento la chiesa, ma in quell’occasione avevo bisogno di qualcuno con cui parlare e il don è una persona che mi piace molto. L’ho cercato e lui mi ha concesso di stare insieme per un intero pomeriggio. Gli ho confessato il mio disorientamento per i fatti che poi le dirò. Mi ha ascoltato con la solita serenità e alla fine mi ha detto che per capire gli eventi anormali che mi erano capitati ci volevano facoltà superiori, come quella di riuscire a forare lo spazio, di immergersi nel tempo… Io, sinceramente, non capivo. E continuo anche adesso a non capire, ma alla fine mi ha dato la sua soluzione, porgendomela come un dono prezioso, con la stessa intensità con cui l’ho visto offrire l’ostia consacrata. Insomma, per farla breve, mi ha consigliato di rivolgermi a lei. Io gli ho risposto che non avevo bisogno di un illusionista che trapanasse lo spazio, di un subacqueo dei giorni, ma mi interruppe subito dicendomi che la persona che mi proponeva era una specie di filosofo indagatore… cioè lei! Disse chiaramente che si trattava di un uomo in odore di santità e di dannazione, proprio così mi disse. E garantì la grande affidabilità, aggiungendo il suo ammirevole equilibrio instabile… equilibrio instabile, disse proprio così! Io rimasi perplesso, lo ammetto, e ho pensato che la nuova fornitura di vino per la messa avesse una gradazione ben più alta del solito!».

    Testa tagliò corto.

    «Non so nemmeno io chi sono, mi sento di essere la metà di un intero. L’altra metà mi manca, io la cerco, in continuazione. La troverò. Ho qualche frequentazione con gli aquiloni. Ammiro quel loro sostenersi solo d’aria, il loro osservare le cose dall’alto, ma comunque sempre legati con quel filo alla terra. Ho imparato molto da queste amicizie. Credo, comunque, che sia preferibile lasciar perdere le mie doti o non doti. Mi dica semplicemente in che cosa posso esserle utile».

    «Mi scusi, sa, se posso averle fatto credere di aver dubitato delle sue facoltà. Non vedo l’ora di ricredermi! Comunque, andiamo al sodo e… piroette, volteggi e trapanature a parte… faccia lei! Io desidererei ottenere una qualche risposta su chi ha profanato la mia casa, la mia vita e quella di mia moglie Daniela. Il farabutto che ha osato tanto, ha rubato tutti gli incartamenti, le fotografie, le piccole cose mie e di mia moglie, le nostre cose… molto di tutto quello che apparteneva al nostro passato e questo senza una ragione comprensibile. Non erano oggetti di valore, erano solo le nostre fontanelle di ricordi, come dei post-it delle nostre piccole felicità, dei nostri viaggi, delle ricorrenze. È come se mi avesse svuotata l’anima! Mi capisce? Purtroppo assieme alle cose rubate se n’è andata anche gran parte della mia memoria. È stato un crollo improvviso, si è aperta una voragine che si è inghiottita cinquant’anni di vita coniugale. Di Daniela, adesso, faccio perfino fatica a ricordare il viso, mi si sommano una moltitudine di immagini che ne creano una… ma tutta confusa, in cui mi succede al massimo di riconoscere gli occhi… Già gli occhi…».

    Davide socchiuse i suoi e incrociò le braccia quasi a impedire che quanto gli rimaneva ancora vivo del passato volasse via definitivamente.

    «E poi… non so se il fatto sia collegato… Daniela mi ha lasciato senza un motivo, senza una spiegazione, senza l’ombra premonitrice di un sospetto che ci fosse… che ne so?… un progetto di fuga, magari un nuovo amore… Ma alla nostra età?! Se lo immagina? No, no… Sì, certo, tutto può succedere, ma lo troverei ridicolo pensando a tutto il bene che ci vogliamo! Degli ultimi tempi non ricordo proprio nulla. Lei… lei cosa pensa di tutto questo? Se la sente di occuparsi di questa vicenda? Problemi di soldi, le assicuro che non ce ne sono. Ce ne fosse bisogno, venderei tutto quello che ho, la casa, i libri, gli strumenti… tutto!».

    La voce di Davide ogni tanto zoppicava come se la lingua si incagliasse da qualche parte. Testa lo guardò con aria assente, tanto assente che dopo qualche secondo il Maestro ebbe la netta sensazione che l’uomo non fosse più lì, che stesse veleggiando sopra le acacie del parco con le sembianze di una grande piuma d’uccello. Tale improvvisa allucinazione era stata annunciata dal decollo di un rumoroso fruscio alla sinistra di Davide, il quale, istintivamente, ne aveva seguito la traiettoria arrivando con lo sguardo fino alle chiome degli alberi. Per qualche attimo rimase a guardare in su, inebetito, ma senza vedere nulla. Poi tornò a guardare la panchina, ma la scoprì vuota! Cosa stava succedendo? Per liberarsi dall’agitazione che lo aveva preso e per riattivare una visione finalmente veritiera della realtà, Davide chiuse gli occhi come per lavare via l’immagine di quella presunta sparizione. Prima di aprirli, però, la figura del detective, immersa in un celeste accecante, gli si proiettò sulla parete interna delle palpebre. Il Maestro ne seguì il fluttuare in quel nulla colorato fino a che, aprendo gli occhi, gli parve di assistere agli ultimi istanti dell’atterraggio del detective sulla panchina. Pensò che qualcosa di pericolosamente anomalo stesse succedendo in una zona del suo cervello. Si tastò anche la fronte temendo gli fosse scoppiata una febbre improvvisa, ma la fronte era bella fresca. Allora atteggiò la bocca a un sorriso per verificare se aveva avuto un ictus o qualcosa del genere, ma mentre assumeva un’espressione un po’ ebete, sentì che il Testa, in posizione seduta, pronunciava solennemente una frase alquanto strana:

    «Il pensiero è fratello dei miei fratelli aquiloni».

    Davide, incapace di una

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