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L'ultimo sogno
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E-book427 pagine5 ore

L'ultimo sogno

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Info su questo ebook

Anna Maria Casalis, in Arese, si trasferisce nella sua nuova dimora da donna sposata. Massimo Arese, l'uomo che aveva saputo sedurla fino a farla innamorare, è ormai divenuto freddo e indifferente nei suoi confronti. Da quando avevano lasciato l'altare la stessa mattina, aveva evitato di rimanere da solo con lei, di baciarla, di farla sentire amata. In realtà, è stato costretto a sposarla in seguito a una gravidanza indesiderata. Quando mette piede nel nido coniugale, Anna Maria viene travolta da una sensazione di profonda tristezza, consapevole che per lei sta per iniziare un lungo periodo di esilio.-
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2022
ISBN9788728195321
L'ultimo sogno

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    Anteprima del libro

    L'ultimo sogno - Flavia Steno

    L'ultimo sogno

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1911, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195321

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A TE, MIO PAPÀ,

    che fosti, vivo, la mia Adorazione,

    che sei, morto, la Religione mia.

    Questo romanzo che þrima di venir raccolto in volume comþarve nell’ aþþendice di þarecchi giornali italiani, vuol essere considerato sopratutto come un tentativo d’ingentilimento del romanzo d’appendice. Questo lo scopo che I’Autrice s’è proposta scrivendolo: dimostrare come sia possibile interessare anche i lettori della puntataquotidiana narrando casi di vita che attingano non solo al dominio del fantastico, dello stravagante, del complicato e del terrificante ma alla osservazione vera e semplice di vicende che sono o potrebbero essere.

    Il successo riportato dal lavoro pubblicato in appendice e continuato a tutti gli altri romanzi che Flavia Steno ha fatto seguire a questo, ha dimostrato già come I’ Autrice abbia avuto ragione di iniziare questo tentativo nel quale ella ha portato una coscienza d’arte nobilissima.

    L'ULTIMO SOGNO

    I

    La donna depose le valigie accanto al «plaid» e alle cappelliere contro la parete presso la porta, attese un momento silenziosa e immobile se altri ordini le venissero da quella nuova padrona così bella e così seria che le incuteva una soggezione non provata mai; poi, siccome la signora continuava a non accorgersi della sua presenza, ritto dinanzi alla finestra spalancata, cogli occhi perduti sul lago, la luce del crepuscolo autunnale tutta diffusa sul suo viso pallido velato di malinconia, l’aria assente, lontana, osò:

    — Comanda nulla?

    Anna Maria Casalis — da poche ore Anna Maria Arese — trasalì un poco, si riprese subito, si rivolse:

    — Avete portato tutto? — chiese.

    — Sì, signora: erano cinque colli piccoli; i bauli sono rimasti giù.

    — Sta bene: c’è acqua nella brocca?

    — C’è; le occorre altro?

    — No, grazie; andate pure.

    Appena sola, Anna Maria s’accostò allo specchio, alzò le braccia a togliersi il cappello, si passò una mano sulla fronte a sollevare un poco le ciocche brune ripiegate sulle tempia in due piccole ali morbide, e poichè nel gesto scintillò nell’anulare della sinistra alzata, sotto una grossa perla limpida come una lagrima, il cerchietto d’oro che è vincolo e fede e che ella portava da quella mattina soltanto, una espressione dura, come di ribellione contro un dolore acuto, contro una offesa atroce, balenò improvvisa nelle sue pupille.

    Un lampo: i grandi occhi color d’acciaio pagliettati d’azzurro cupo si ricomposero subito dietro il tenue velo di tristezza, le mani cominciarono a sciogliere il fiocco di trina bianca annodato sotto il colletto dell’abito da viaggio un po’ troppo austero, troppo rigido per quella figurina di sposa giovanissima, poi ancora la tentazione della finestra la vinse ed ella vi si accostò e rimase ritta nel vano protetto e chiuso dalle lunghe tende bianche, assorta.

    Il fascino del paesaggio e dell’ora si accordava mirabilmente colle disposizioni dell’anima sua; era anche in lei come nel crepuscolo silenzioso e luminoso diffuso sul lago tremulo, sui monti intorno, sulla villa quieta, sulla strada deserta, una stanchezza dolorosa, un desiderio di riposo e d’oblio, un sapore di lagrime amarissimo e pur caro, una tristezza piena di voluttà.

    Si sentì confortata da quel paesaggio, confortata dall’idea di viverci, di portare lì la sua croce, di riandare in quel rifugio il suo sogno, di essere protetta da quella solitudine contro il chiasso, la curiosità e la banalità del mondo.

    Massimo Arese era ancora stato pietoso nella sua crudeltà.

    Il pensiero del marito le fe’ corruscare un’altra volta la fronte in una contrazione di dolore.

    Ma non svanì: si formulò invece più nettamente in una domanda che non era solo curiosità: che faceva Massimo?

    Lo aveva sentito camminare fino a pochi istanti prima nella stanza accanto. Non le aveva fatto dir nulla, non s’era mostrato ancora. Sarebbe venuto?

    Il desiderio inconfessato, l’amore pur sempre vivo, quasi inconsapevolmente, nel suo cuore malgrado l’offesa, quel resto d’illusione che ancora sussisteva alla brutale esperienza della realtà, le sollevarono dentro la trepidazione della speranza.

    Forse sì, sarebbe venuto.

    E tutto il sangue le affluì a un tratto al cuore al pensiero di veder comparire da quella porta, in quella stanza, l’alta figura aristocratica di Arese, di sentire quella voce di cui aveva conosciuto un tempo tutta la maliosa potenza seduttrice, tutta l’irresistibilc dolcezza, di cui da un pezzo non conosceva più che l’inclifferenza dura e fredda, rivolgersele.… come? e con quali parole?…

    Per la prima volta erano soli in quel rifugio che l’amore avrebbe potuto cambiare in nido delizioso e che era invece destinato a diventare per lei l’esilio, per Massimo Arese la garanzia della propria libertà, e il pensiero di trovarsi sola con l u i in quella villa silenziosa, addossata al monte, di fronte al lago, di fronte a tanti altri monti, come fuori della vita reale, sola sola con lui in quella stanza che avrebbe potuto essere la loro stanza nuziale e dove sarebbe stato così dolce amarsi nella melanconia suggestiva di quel tramonto tutta pace, bastava a far rinascere la speranza suprema, l’illusione viva oltre il gelo della realtà, oltre la disperazione dell’indifferenza nella giovane anima della piccola sposa.

    Illusione e speranza che erano poco meno che follia.

    Massimo Arese, suo marito, non era stato solo con lei, da quando erano tornati dall’altare, dalla mattina di quello stesso giorno cioè, e durante tutto il viaggio non breve — nove ore — da Milano a Brissago?

    E le sue labbra non avevano avuto un bacio, e le sue mani non una carezza per quella donna diventata legalmente sua dopo essere stata sua per sola virtù d’amore: inutile era stata, in treno, da Milano a Laveno, la solitudine dello scompartimento riservato, inutile poi, sul battello, la suggestione bella e sentimentale del lago tremulo specchiante la sua cupa ghirlanda di montagne nel seno verde pieno di mistero.… Non una parola era uscita dalle labbra di Massimo Arese che suonasse altra cosa oltre la cortesia doverosa del gentiluomo verso una signora, mai il suo sguardo freddo aveva smentito l’espressione di durezza divenutagli abituale da quando vi si era spento, dentro, la luce di amore.

    E Anna Maria aveva sperato tanto! sperava ancora tanto!

    Ancora, malgrado le ripetute delusioni, malgrado la ferita atroce dell’orgoglio offeso, dell’amore sprezzato, appunto per virtù d’amore capace più d’illusione eterna che di rassegnazione disperante.

    Perchè non lo avrebbe ripreso il suo Massimo?

    Egli l’aveva pure amata tanto, tanto, con tenerezza, con adorazione, con passione. Era stata la follia di lui che l’aveva travolta.

    Ella s’era lasciata prendere a poco a poco, si era abbandonata vinta, perduta, anima e corpo, innocenza e giovinezza, virtù e bellezza perchè aveva veduto il viso di lui trascolorare guardandola, perchè aveva udito in quella voce ora così fredda il singhiozzo della passione, perchè quelle mani avevano tremato accarezzandola, perchè quelle labbra le avevano susurrato le parole divine, l’inganno ineffabile che addormenta l’anima e schiude core e braccia.

    L’aveva amata Massimo: oh! come!

    Ma quello era il passato.

    Tante cose erano trascorse da allora: poco tempo — neppure un anno — ma tante cose.

    Anzitutto la fiamma era venuta meno a poco a poco negli occhi di Massimo, poi egli aveva cambiato casa, era andato a stare lontano, aveva portato via quel suo studio di scultura che ella era abituata a contemplare ogni mattina dalla finestra della sua cameretta e che era stata la causa prima della sua perdizione. Poi, poi.… ella aveva scoperto la grande ed atroce cosa: un bimbo! dal loro amore nasceva un bimbo! e la notizia aveva fatto corruscare gli occhi a Massimo, e la sua freddezza si era accentuata ancora più e finalmente, poiché le suppliche erano state vane e i giorni passavano e le labbra di Arese non avevano una parola di conforto, non una promessa, non più, quasi, una protesta d’amore, ella, che si sentiva impazzire, aveva confessato tutto al fratello.

    Così era diventata la moglie di Massimo Arese: perchè il tenente Roberto Casalis aveva minacciato lo scultore celebre di prendergli la vita in cambio dell’onore della sorella, e Massimo Arese aveva pensato che la vita serbava ancora troppe promesse per lui bello, sano, ricco e celebre per rinunziarvi a trentadue anni.

    Ma quali nozze!

    Non un amico, non un parente, non un dono, non un sorriso.

    Le pratiche indispensabili condotte con segretezza come avessero dovuto nascondere una vergogna, la sala comunale di un villaggio squallida e triste, una chiesuola di campagna deserta e fredda, poi, un bacio sulle labbra livide contratte della povera mamma in lagrime, una stretta di mano al fratello sbiancato in viso come un cadavere, gli occhi durissimi sotto la breve tesa del berretto militare, eppoi il treno, eppoi il lago, eppoi l’esilio.

    Così.

    Quella casina bianca sul ciglio della strada, in faccia al lago triste come la morte, sarebbe stata la sua dimora per sempre.

    Lo aveva detto Massimo ed ella non ne aveva sofferto.

    Meglio così: meglio la solitudine e il silenzio intorno al suo dolore, intorno al suo amore che il chiasso e la superficialità della vita cittadina.

    Purché le restasse Massimo; purché potesse riprenderlo tutto, cuore e sensi, tenerezza e passione, ora ch’ella era stia moglie!

    Perchè non avrebbe vinto?

    Sol che egli si fosse fermato in quel nido di pace dove lo spirito pareva acquietarsi, dove tutto suggeriva la bontà.…

    A poco a poco, la soavità delle cose intorno lo avrebbe penetrato: sarebbero tornati i ricordi buoni: l’orgoglio ferito avrebbe taciuto sopraffatto da tanto amore.… Forse, forse sarebbe tornata la felicità.

    Certo sarebbe tornata.

    Ella era giovanissima, era innamorata, era tanto bella ancora.

    Come la spronasse il bisogno di accertarsi di quest’ultima verità, Anna Maria si staccò dalla finestra e si avvicinò allo specchio.

    Un po’ indistinta, poiché il crepuscolo metteva già la sua ombra lieve nella stanza, ella si vide riflessa intera, alta e snella, ancora non alterata dalla maternità, la bella testina bruna ergentesi sul collo sottile come un fiore sullo stelo, gli occhi grandi nel viso pallido, sotto l’elmo nerissimo dei capelli, il profilo leggermente aquilino, la piccola bocca tumida e la linea rotonda del mento ancora un po’ infantile.

    Perchè Massimo Arese non l’avrebbe amata ancora poiché ella era bella e lo adorava?

    Come risposta alla sua intima domanda, una voce, fuori sul pianerottolo, la fece trasalire improvvisamente.

    — Posso entrare?

    Lui! Veniva, la cercava, la chiedeva spontaneamente!

    Soffocava. Si staccò dallo specchio, fece qualche passo nella stanza, ricompose il viso con uno sforzo supremo e rispose:

    — Vieni.

    E si stupì di udire la sua voce così calma, quasi fredda mentre, dentro, tutta la sua anima e tutta la sua carne ripetevano con esaltazione quel grido.

    Massimo Arese entrò.

    Non s’era ancora tolto l’abito da viaggio e teneva in mano un telegramma. Pareva seccato.

    — Non ti sei ancora spogliata? — chiese un po’sorpreso.

    — No. Neppure tu, mi pare.

    — Già, ma io parto.

    — Parti?

    La breve domanda parve un grido disperato.

    Era uscita più che dalle labbra dal cuore della povera piccola sposa prima che ella avesse avuto la forza di riaversi sotto il nuovo colpo terribile più di tutti gli altri, di resistere, muto il viso e mute le labbra, al nuovo atroce dolore che era la delusione suprema e la suprema offesa.

    Massimo Arese non parve o non volle accorgersi di tutto lo strazio chiuso nella voce e negli occhi della sua donna.

    — Sì, — confermò come avesse annunziato la cosa più naturale del mondo. — Contavo di fermarmi sino a domani, ma Gaspare mi telegrafa che è arrivato Bartant, sai, della commissione per l’esposizione di Liegi. M’aspetta domattina alle dieci al Savini. Vedi.

    Le tese il telegramma, ch’ella respinse con un breve gesto.

    — Non occorre.

    — Ho guardato l’orario: il battello parte alle otto da Brissago; alle undici sono a Laveno, alle cinque a Milano. Ho appena il tempo di riposare un’ora, di fare il bagno, di vestirmi. Mi spiace che tu debba pranzare sola.

    Anna Maria non rispose.

    Non credeva una parola della storiella che suo marito le esponeva: sentiva la menzogna nella voce di lui e oltre la menzogna un leggero tono d’irritazione appena contenuta, la seccatura di dover fingere, il desiderio vivo di liberarsi presto.

    L’amore e l’orgoglio offesi le diedero la forza di simulare una tranquillità che era ben lungi dal provare.

    — Scenderai o vuoi che ti faccia portare qualcosa quassù? — le domandò Massimo.

    — Farò io, non ti disturbare.

    — Come vuoi. Ti mando la donna. Addio.

    Scomparve.

    Senza un bacio, senza prenderle la mano, senza quasi guardarla.

    Così la lasciava suo marito la sera stessa delle nozze.

    La porta che si richiudeva dietro l’alta figura di Massimo parve ad Anna Maria suggellasse il sepolcro dove la sua giovinezza veniva seppellita con tutto il suo corteo di sogni, con tutte le sue aspirazioni d’amore. Proprio sentì qualcosa schiantarsi nel suo core; l’ultima fede, l’ultima illusione, la speranza sopravvissuta fino allora a tutti i disinganni, a tutte le umiliazioni.

    Per la prima volta ebbe la certezza della verità spaventosa: Massimo non l’amava più! E di fronte a questa rivelazione intollerabile tutto il suo dolore, tutto il suo amor proprio ferito si sciolsero in un singhiozzo.

    Massimo non l’amava più!

    Ella non avrebbe potuto riprenderlo più poichè partiva e chissà quando sarebbe tornato. La sua vita si chiudeva; quella villa melanconica dove l’esilio le sarebbe parso dolce diventava il suo carcere.

    La disperazione l’assalse a un tratto all’idea di rimaner seppellita per sempre in quel paese, fra gente estranea, senza il suo Massimo, senza la sua mamma, lontana da tutti i suoi. Un terrore intollerabile, una paura da bimba quasi.

    Si rimproverò di non aver risposto a Massimo, di non averlo pregato, di non avergli mostrato il suo amore e il suo dolore, d’essere rimasta così fredda dinanzi a lui.

    Forse s’egli l’avesse veduta piangere, come ora, tutta sgomenta, tutta vinta, avrebbe avuto pietà e sarebbe rimasto.…

    Prese a un tratto una risoluzione disperata.

    Così no, così no; non avrebbe potuto resistere! Si alzò, uscì dalla sua stanza, fece pochi passi sul pianerottolo già tutto invaso dall’ombra, trovò a tastoni l’uscio della stanza di Massimo e senza bussare entrò bianca e rigida col volto alterato dall’angoscia e dalle lagrime.

    — Massimo!

    Arese si rivolse stupito.

    Non l’aveva udita entrare; stava alla finestra sorvegliando dall’alto il carrozziere che, giù nel cortile, finiva d’attaccare per accompagnarlo dalla villa all’imbarcadero.

    Anna Maria vide subito che la sua sorpresa non gli faceva piacere.

    Tra gli occhi di Arese s’era disegnata una ruga profonda e il suo molle viso aveva riassunta la maschera di durezza che Anna Maria conosceva troppo bene.

    Tuttavia le si rivolse cortese:

    — Ti occorre qualche cosa?

    Tutto il cuore della piccola sposa salì alle labbra:

    — Massimo! — ella singhiozzò, — non partire!

    Egli ebbe un gesto di stanchezza annoiata e tacque un istante dinanzi alla desolatissima che s’era accasciata singhiozzando sul piccolo letto intatto.

    — Non partire! Non partire, Massimo!

    — Non posso: ti ho spiegato.

    — Ah no! taci! sai che non ti credo!

    — Anna!

    Ora la voce annoiata rimproverava impaziente.

    — Perdonami, ti credo, sì! Ma non partire, non te ne andare, Massimo, non lasciarmi qui sola! ti ho voluto tanto bene! ti voglio tanto bene io!…

    Un’altra volta i singhiozzi la interruppero.

    Da quanto tempo non piangeva così! ora tutte le lagrime inghiottite, tutte le offese sofferte, tutte le amarezze taciute uscivano dal suo povero cuore gonfio in singhiozzi e sussulti.

    E le pareva impossibile che quelle lagrime, che quell’accasciamento di tutto il suo essere che diceva tutta la sua miseria spirituale, tutta la sua dedizione d’amore non dovessero ridarle il suo Massimo.

    Ma Arese non parlava.

    Soltanto quando la vide un po’ più calma, un po’ sollevata dalle lagrime le si avvicinò.

    Senza brutalità ma senza pietà le espose ciò che aveva risoluto di fare, il piano che avrebbe preferito non esporre ma che ella aveva il torto di non aver capito.

    — Io parto, Anna, e ti prego di risparmiarmi altre scene.

    Distolse lo sguardo dagli occhi di Anna Maria che nella penombra lo fissavano smisuratamente grandi nel viso pallido e pieni di un terrore che rasentava la follia.

    Continuò:

    — So bene che non è normale ciò che io faccio: nessun sposo abbandona la propria moglie la sera delle nozze, ma converrai che noi non siamo degli sposi normali. Tu hai voluto diventare la signora Arese e ci sei riuscita: permettimi di non rammentare come. Sei la signora Arese e sei in casa tua. Non ti basta?

    Si pentì subito d’aver parlato.

    Anna Maria s’era alzata rigida e bianca come una morta, spalancati gli occhi come non comprendesse, spalancata la bocca quasi si sentisse soffocare e stendeva le braccia verso di lui in un gesto di suprema disperazione, di preghiera e di terrore.

    Ma non potè reggersi e non riuscì a parlare: barcollò invece e ricadde sul piccolo letto bianco senza un lamento.

    Massimo Arese fu assai turbato da quell’incidente che non si aspettava e a cui non era preparato: aveva conosciuto Anna Maria sempre così sommessa e buona come amante, sempre così dignitosamente tranquilla durante lo scabroso periodo che aveva preceduto quelle disgraziate nozze che quella scena passionale gli riusciva inattesa e assai sgradita.

    Gli pareva d’aver compiuto intero il suo dovere di galantuomo sposando quella donna che non amava più, dando il suo nome al figlio che sarebbe nato da quel capriccio passato che si rimproverava e malediceva. Non aveva mai pensato che Anna Maria potesse amarlo ancora, o almeno, poichè la cosa non lo interessava più, non se ne era curato mai. E non lo lusingava punto quella scoperta; quando l’amore è davvero finito in noi, ci annoia ch’esso sussista sempre nel cuore che per noi è morto.

    Poi, Arese detestava le lagrime, i rimproveri, i lamenti, le scenate, tutto ciò che potesse turbare l’equilibrio del suo sereno egoismo. Non si sentiva disposto a sacrificare l’ombra di un capriccio, il più lieve piacere alla volontà degli altri, ma non aveva neppure vocazione e gusti da carnefice: veder soffrire gli era penoso quasi quanto soffrire, non per eccessiva pietà o delicatezza di cuore, ma per amore della propria serenità.

    Più forte d’ogni altro aveva il culto della libertà personale e appunto s’era ribellato — fin che aveva potuto — all’idea del matrimonio perchè gli era parso, da parte di Anna Maria, un attentato alla sua libertà. E quando aveva dovuto piegarsi, accettare, arrendersi, aveva posto ben chiare le sue condizioni: il matrimonio sì, ma poi, lui a Milano, libero come fosse sempre scapolo, e Anna Maria al «Bon Repos», la sua casa di campagna sul Lago Maggiore di là dal confine svizzero. E nessuna partecipazione agli amici e nemmeno le pubblicazioni d’obbligo a Milano; le pubblicazioni escono sui giornali e il pubblico le legge; ora, pel pubblico, egli voleva essere sempre scapolo.

    Aveva mascherato la ferocia di queste condizioni sotto il pretesto delle sue necessità ďartista e di fronte al suo aut-aut: o così o altrimenti la separazione legale subito dopo la nascita del bimbo, la famiglia Casalis aveva chinato li capo: Anna Maria nell’illusione di riprendere suo marito una volta sola con lui, sua madre e suo fratello nell’intento di evitare un altro scandalo.

    Ma al consenso di Anna Maria, Massimo Arese dava la forza di un contratto, un contratto a cui ella veniva meno ora con quella scena che voleva forzare la sua commozione e vincerlo colla potenza della debolezza appassionata.

    Forse, se egli non avesse avuto il cuore e gli occhi pieni dell’immagine di un’altra donna, non avrebbe potuto contemplare indifferente lo strazio di questa che lo amava, che gli era moglie, che sarebbe stata la madre della sua creatura, Inoltre, la sua sensibilità di artista si sarebbe commossa di fronte all’incanto che il dolore metteva sul viso di Anna Maria.

    E per un attimo, fugacemente, quella bellezza serena e martoriata lo vinse.

    Un’ispirazione di bontà, venutagli dalla commozione improvvisa, lo spinse a mettere una tenerezza profonda nel piccolo nome che chiamava commesso:

    — Anna! Anna!

    Ma non rispondeva Anna Maria: giaceva tutta bianca, cogli occhi chiusi, la bocca semiaperta e tra le labbra apparivano i piccoli denti minuti come perle, serrati, convulsi.

    — Anna! mi senti? Anna, ascolta!

    Nessun segno di vita.

    Le posò una mano sul cuore; sotto il seno bianco, tepido che cedeva alla pressione delle dita aperte, sentì il cuore pulsare lentissimo come una voce di vita che venisse da lontano lontano e minacciasse di spegnersi a un tratto.

    Si guardò attorno realmente spaventato cercando un soccorso, un aiuto, un’ispirazione; Gaspare doveva aver messo nel suo bagaglio una boccetta di sali, dell’etere, un cordiale qualsiasi.

    Si staccò dal letto, prese sul tavolo una valigetta, l’aperse, frugò.… Ma prima del cordiale gli cadde sott’occkio la carta gialla di un telegramma e ne rivide il contenuto. «La signora è stata qui stamane, l’aspetta domattina alle nove. Gaspare».

    E una vampa lo sconvolse.

    Dimenticò quello che stava cercando, e il passato e le convenienze e Anna Maria malata: disparve la commozione che lo aveva vinto un istante, non vide più che un viso: quel viso, non ebbe altra impressione se non che era buio, che si faceva tardi, che il battello sarebbe tra poco partito.

    Come un pazzo si sporse fuori dalla finestra, chiamò:

    — Domenico, un dottore!

    — Che diamine, signor padrone?

    — No, aspettate, andiamo insieme.

    Scese le scale a precipizio; nel vestibolo chiamò la cameriera:

    — Sentite, Giustina, la signora s’è sentita male; non è nulla, voglio sperare. Salite su e non abbandonatela, io vado pel medico.

    Non udì le esclamazioni addolorate della donna; prima che questa si riavesse della sorpresa egli era già salito nel carrozzino e comandava:

    — A Brissago, sferza.

    Per via, seduto accanto a Domenico, gli spiegò: la signora s’era sentita male, cosa da poco, ma bisognava, mandarle un medico. Lo avrebbe accompagnato lui stesso, Domenico, alla villa appena tornato dall’imbarcadero.

    — Non perderemo il battello? — domandò con una trepidazione che tradiva l’inquietucline.

    — Non dubiti, signor padrone, è appena partito da Ascona: eccolo là.

    Accennò nella penombra della notte chiara sul lago tremulo striato qua e là di luce l’ombra nera del vaporetto coi fanali tutti accesi.

    — Quale dottore devo chiamare? — domandò Domenico.

    Il pensiero di Massimo era lontano.

    — Uno.… uno qualsiasi, — egli rispose.

    Poi si riprese, corresse:

    — Il migliore, s’intende; li conosci tu?

    — Sì, isignor padrone. C’è Massoni, il vecchio, si ricorda? è sitato qualche volta alla villa, anni fa, quando lei passava le vacanze qui.

    — Non so più.

    — Lavora poco ormai: i migliori clienti glieli ha presi il dottor Cave, un giovanotto venuto di fuori; lo dicono molto bravo.

    — E allora prendi questo.

    — Se il signor padrone gli vuol parlare.… sta a due passi dairimbarcadero; laggiù, guardi.

    Indicò colla frusta una delle prime case del paese vicinissima.

    — Non faccio a tempo, arrischio di perdere il battello e devo trovarmi assolutamente a Milano stanotte.

    Saltando dal carrozzino in faccia all’imbarcadero, dove il vaporetto s’era fermato sbuffando, rivolse al domestico un’ultima raccomandazione che lo mise in pace colla propria coscienza.

    — Domattina mi telegrafi come sta la signora e quello che ha detto il dottore. A giorni son qua io.

    Disparve confondendosi nel gruppo di ombre che affollavano il breve ponte e appena ebbe posto piede sul battello trasse un profondo sospiro di sollievo.

    La serata era dolce e mite; rinunziò a scendere sotto coperta; si scelse un posticino appartato presso la bordata, in un angolo di prua, e si abbandonò tutto all’incanto dell’ora, lasciando il suo pensiero correre là dov’era il suo cuore.

    II.

    C’era festa in casa di Fabrizio Delù per il compleanno del maestro.

    Una festa assai melanconica per Delù, che finiva i cinquantasei e da men di un anno era sposo e sentiva scavarsi quel giorno ancora un po’ più profondo l’abisso che lo separava dalla giovinezza rigogliosa e fiorente della sua donna, sua di fronte alla legge e agli uomini, intatta, in fatto, come una vergine e adorata come una Madonna.

    Ci ripensava a quei cinquantasei anni con infinita tristezza mentre finiva di vestirsi dinanzi alo specchio nella sua camera aperta sul giardino tuto verde costellato qua e là di aiuole dove sbocciavano al sole, pallidi e violacei, i melanconici fiori autunnali Non per s’è li deplorava ma per lei, per la sua Olga, la sua bimba, la sua regina, la sua Madonna e.… sua moglie! Quel matrimonio era stato per Delù poco meno che un atto di eroismo e ancora, dopo un anno, egli non poteva darsene pace, ci ripensava con una specie di rimorso come avesse commesso una cattiva azione unendo i suoi undici lustri ai venti anni fiorenti di Olga Valeri.

    Eppure, nessuna considerazione egoistica e non una idea di sciocca vanità e nemmeno una follia di passione erano entrate, in quel matrimonio, ma solamente una bontà infinita e un tenerissimo affetto che soltanto dopo s’era mutato in passione, quando una più intima comunione di vita e la vicinanza continua di quella cara creatura gli avevano mostrato quello che avrebbe potuto essere se la sua vita non avesse cominciato da un pezzo a discendere la parabola. Prima no.

    Quando erano venuti a dirgli: «Valeri muore e lascia sola quella creatura», egli l’aveva raccolta come una figlia propria molto per l’affetto fraterno che lo legava da trenta anni al collega disgraziato, un poco anche per simpatia verso quella biondissima Olga che rammentava bambina colle vesti corte, gli occhi indiavolati e un fascino bizzarro nella voce, nei gesti, in tutti gli atteggiamenti della flessuosa personcina lunga e sottile, cresciuta viziata, idolatrata, rovinata, forse, per troppo amore da quel padre squilibrato e debole, ignara della madre — una russa un po’ principessa e molto avventuriera — che l’aveva messa al mondo e non se ne era curata più, spinta lontano, verso altri paesi e altre avventure da chissà quale strano destino.

    Valeri gliela aveva affidata con una parola profonda, più solenne ancora sulle labbra che dopo qualche istante la morte aveva chiuso e che diceva tutta la preoccupazione e l’angoscia dell’agonizzante:

    — Salvala.

    Quello che forse non avrebbe saputo far lui, il padre lo chiedeva all’amico.

    E Olga, che aveva allora diciassett’anni, era diventata sua figlia. Una figlia che non era più possibile plasmare, cresciuta in un ambiente scapigliato, lussuoso senza solidità, irregolare e mondano e un’infinità di amici intelligenti e altrettanto audaci, tutta la «bohème» elegante dell’intellettualità, tutta la spuma della vita inebbriante, fragile e vuota.

    Egli aveva tentato dapprima di affidarla a una sua sorella che viveva a Milano ricca e sola dacchè le eran morti il marito e l’unico figlio, ma dopo pochi giorni di esperimento la buona signora si era spaventata di quella tutela e riconosciutasi inetta a guidare quella creatura bizzarra piena di bontà e di ribellione, abituata a fumare, a cavalcare, a dar del voi agli uomini, a coricarsi alle ore piccine per alzarsi dopo mezzogiorno, a uscir sola senza render conto a nessuno delle sue passeggiate e che spalancava gli occhi smarrita e stupita dolorosamente a ogni più piccola osservazione, gliela aveva riaccompagnata a casa.

    — Sto molto meglio qui, — aveva dichiarato la fanciulla, prendendo possesso dell’appartamento del suo protettore, un appartamento composto di quattro gusci a un ammezzato in piazza del Duomo.

    Ma Delù non aveva pensato come lei.

    Olga Valeri, nella sua arditezza innocente, poteva non accorgersi della sconvenienza di convivere col giornalista abbastanza vecchio per esserle padre, non ancora così vecchio d’aver rinunziato per sempre all’amore e all’avventura; Fabrizio Delù vedeva e sentiva per lei. Tanto più sentiva l’impossibilità di quella vita in due in quanto che Olga gli piaceva e il falcino di quella figurina alta e sottile come una giovane palma, biondissima e bianchissima cogli immensi occhi neri pieni di una innocenza autentica assai in contrasto coll’audacia delle labbra aperte e pronte a ogni sorta di verità, ad osservazioni sorprendenti e sbalorditive, gli dava una impressione di giovinezza nuova colla tentazione di tutte le follie inerenti.

    Così la fanciulla aveva cominciato un pellegrinaggio di casa in casa attraverso tutti i parenti di Fabrizio Delù, fermandosi quindici giorni da una zia del suo protettore, un mese da una cugina, due presso una

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