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L'uomo del sacco
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L'uomo del sacco
E-book192 pagine2 ore

L'uomo del sacco

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Info su questo ebook

1942, Torino è in guerra. Ad un giovane medico, richiamato in servizio dall'Esercito, viene affidata una missione: recarsi in Turchia per rintracciare un suo amico e recuperare dei documenti di rilevante importanza industriale e strategica. Il viaggio, gli imprevisti, i luoghi, le persone sono immaginarie fotografie che illustrano la guerra, la passione, l'avventura. Gli eventi narrati sembrano creare casualmente un contatto con la realtà di oggi. Un semplice sacco di juta acquista nell'insieme il simbolo della speranza per un futuro diverso. Allora come adesso.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ago 2012
ISBN9788867514106
L'uomo del sacco

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    L'uomo del sacco - Francesco Greco

    Publishing

    Copyright © 2012

    Youcanprint Self-Publishing

    Via roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0833.772652

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo : L’uomo del sacco

    Autore : Francesco Greco

    Immagine di copertina © Tupungato - Fotolia.com

    ISBN: 9788866189817

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    "Perdonare o dimenticare significa gettare dalla finestra

    le preziose esperienze fatte".

    Schopenhauer

    Ringrazio Alessandra e Giulia,

    colleghe di Corso al Circolo dei lettori di Torino,

    per il loro incoraggiamento.

    Ai miei figli:

    Matteo, Lidia, Paolo e Ilaria.

    1

    L’uomo pedalava veloce nel buio fondo della notte. A causa dell’oscuramento, la città vista da lontano sembrava coperta da un manto nero. S’intravedevano appena le onde formate da un mare di tetti ricoperti di tegole granata, dai quali emergevano camini che sbuffavano un fumo grigio e denso. Occorreva avvicinarsi, inoltrarsi nelle sue vie buie, per notare un po’ di luce filtrare dai vetri delle finestre oscurati con della carta blu. Anche il silenzio contribuiva a creare un generale stato d’ansia agli abitanti chiusi nelle loro case. Torino, dopo due anni di guerra, era molto cambiata. Per le strade prive di luce si vedevano camminare frettolosi pochi cittadini tristi, pallidi, mentre il loro pensiero andava alle giornate piene di sole, quando la domenica passeggiavano sereni nei parchi o nelle colline circostanti.

    La città comunque appariva dignitosa e altera. Nell’immobilità della nebbia, che l’assenza di vento faceva depositare lenta sul lastricato, rare automobili nere, con i fari schermati e i paraurti dipinti di bianco, si muovevano lente sulle strade inumidite del centro dove i monumenti, ingabbiati per essere protetti dai bombardamenti, sembravano si fossero nascosti per non vedere quel periodo. Alcuni addetti alla raccolta rifiuti, con addosso lunghi grembiuli di tela, camminavano tenendo per il morso stanchi e smagriti cavalli, si fermavano a ogni portone, scaricavano i bidoni sul carro e proseguivano silenziosi nella notte.

    Il mattino riapparivano i colori della città, i suoi contorni diventavano più nitidi, il nuovo giorno da vivere la metteva in moto. Già alle prime luci dell’alba, nonostante il freddo, si formavano code davanti ai negozi per comprare quella misera razione di pane prevista dalle recenti restrizioni. Il carbone e molti altri generi di prima necessità, nonostante il contingentamento, non erano sufficienti al fabbisogno dell’intera popolazione. Ovunque era possibile, volenterosi avevano allestito degli orti nei parchi o nelle piazze per coltivare quello che si poteva; il più grande di tutti era al parco del Valentino dove si coltivavano prevalentemente patate.

    Occorreva risparmiare su tutto: era stato ridotto l’orario di erogazione del gas, soppresse molte fermate del tram, la benzina razionata, vietati i liquori stranieri, proibito il caffè, ma nonostante queste e molte altre limitazioni, gli abitanti avevano imparato ad arrangiarsi per continuare a vivere.

    Quello che mancava era reperibile alla borsa nera, molto fiorente in quel periodo, dove specie i generi alimentari costavano molto di più.

    Tutti erano diventati più poveri, eppure in apparenza nessuno si lamentava. Educati alla disciplina, al rispetto delle istituzioni e all’obbedienza, nessuno manifestava inquietudine. Ognuno adempiva al proprio dovere in silenzio, con dignità, perché così erano stati formati e indottrinati a scuola, nei raduni del sabato, dalla propaganda alla radio e dai cinegiornali Luce.

    Continuavano la loro vita per inerzia come avviene per le masse in qualsiasi parte del mondo, mentre i giovani, gli idealisti, credevano ancora in un cambiamento; s’illudevano ancora d’avere la forza per migliorare la loro vita, la loro Patria. Combattevano, nonostante tutto, ostinati nella convinzione che un risultato positivo potesse, agli occhi del mondo, far valere la propria Nazione, renderla più autorevole per potersi ancora sentire orgogliosi di essere italiani e riscattare l’opaca immagine di poveri emigranti sparpagliati nei vari continenti. Non si accorgevano della realtà. L’ideologia accecava i loro occhi, non vedevano che tutto stava cambiando, che la fine di un’epoca, di quell’epoca, stava arrivando lenta e inesorabile. Un sogno stava per finire, occorreva solo svegliarsi per farlo svanire e vivere la realtà di un nuovo giorno.

    Torino era passiva e silenziosa. Adagiata nella sua ampia valle, con i suoi palazzi austeri, i suoi viali ampi e alberati, i suoi borghi ordinati di periferia, le sue numerose fabbriche, era diventata la più grande città manifatturiera d’Italia.

    L’autarchia, imponendo la completa autonomia economica alla Nazione, aveva impresso un ritmo forzato senza precedenti alle sue industrie. Il bisogno di produrre tutto quello che prima si poteva importare aveva fatto crescere a dismisura il potenziale manifatturiero. La città era il simbolo del progresso industriale e tecnologico del Paese. Questo merito era dovuto anche alla crescita, nei più svariati settori, della sua industria simbolo: la Fiat. L’azienda era impegnata oltre che sul piano produttivo, anche su quello sociale; i suoi lavoratori, come quelli della Lancia, Venchi Unica, Italgas, SIP e altre, erano considerati dei privilegiati perché potevano comprare negli spacci aziendali i generi essenziali.

    Nonostante la guerra e i sacrifici che comportava, il morale era tenuto alto dalla squadra di calcio chiamata, per le sue ripetute vittorie, il Grande Torino. La domenica macinava successi per la gioia dei tifosi presenti allo stadio, per quelli che la seguivano per radio e anche per quelli la cui soddisfazione era di poterne discutere per il resto della settimana.

    Il risvolto negativo della sua industrializzazione arrivò chiaro in quel periodo. La presenza delle maggiori fabbriche di ogni settore la esponeva a bersaglio del nemico che aveva iniziato proprio in quell’anno a bombardarla. La città con la sua forza lavoro, la sua tecnologia, era considerata un obiettivo militare strategico. Per questo, dall’inizio della guerra, c’era l’ordine rigoroso dell’oscuramento totale in modo da disorientare gli aerei nemici nelle loro incursioni notturne.

    Di giorno le fabbriche lavoravano a pieno ritmo nonostante le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime; gli operai si recavano al lavoro puntuali, i negozi rimanevano aperti, le scuole e gli uffici pubblici funzionavano. La vita continuava.

    Di notte nelle vie semideserte la polizia vigilava discreta. Picchetti armati, al passo cadenzato, sorvegliavano i punti nevralgici: fabbriche, caserme e depositi erano sempre sotto tiro, mentre le ronde battevano le vie del centro. La vita nell’oscurità quasi totale sembrava si fermasse, ma non era così. La notte dava riparo sia a chi portava un contributo attivo, un aiuto concreto ai bisognosi, sia a quanti volevano trarre profitto dal bisogno. Nelle vie del centro, buie e silenziose, questi soggetti si muovevano ognuno seguendo la propria coscienza.

    La polizia era informata sulle varie attività clandestine che si erano organizzate approfittando di quella situazione. Grazie a vari informatori, conosceva molto bene chi lucrava con il contrabbando, ma agiva nei loro confronti in modo superficiale, attuando qualche fermo ogni tanto, per dimostrare un minimo d’impegno nel contrastare il fenomeno; si rendeva conto di quanto queste fossero utili alla popolazione. Quello che la polizia cercava di debellare con più accanimento era il pericoloso e redditizio spionaggio che avrebbe portato a indebolire ancora di più la già precaria situazione bellica.

    Nei negozi, nei bar del centro, tra le bancarelle del mercato si parlava di un uomo misterioso che, con un sacco sulle spalle, avvolto in un ampio mantello nero, si aggirava di notte, su una vecchia bicicletta, nelle strette e buie vie dei quartieri popolari. Anche la polizia ne era al corrente, grazie a numerosi informatori e alle segnalazioni di alcune pattuglie che avevano più volte intercettato il soggetto senza mai poterlo raggiungere.

    Al caso si occupò anche il controspionaggio, perché quell’individuo era stato visto aggirarsi più volte nei pressi di alcune caserme e vicino ad importanti fabbriche di produzione bellica. Per gli inquirenti non era facile districarsi. Le notizie raccolte, giunte da varie parti, erano informazioni generiche, anonime, voci non controllate, notizie strane e contraddittorie. Le indagini proseguivano serrate: a tutte le pattuglie fu ordinato di segnalare con tempestività l’avvistamento dell’uomo del sacco e di bloccarlo per poterlo interrogare anche se nei suoi confronti non pendeva nessun capo d’accusa.

    Una notte una pattuglia in servizio nella zona di Piazza Vittorio, nonostante l’oscurità e la nebbia, avvistò il misterioso individuo in bicicletta con il suo caratteristico mantello. Lo videro in lontananza avvicinarsi ad un portone, posare un sacco di juta vicino ad un mucchio di stracci e allontanarsi pedalando in fretta. I militari di corsa raggiunsero il posto per verificare il contenuto di quel sacco e rimasero sorpresi quando si accorsero di un uomo che emergeva dal suo rifugio frastornato dal rumore dei passi e dalle intimazioni dei poliziotti: era un vecchio dall’aspetto laido che dormiva rannicchiato seminascosto da logore coperte grigie. Con gli occhi gonfi dal sonno e arrossati dal freddo e dalle privazioni, guardò incuriosito gli uomini in divisa chinati su di lui che s’impossessavano di un sacco che aveva accanto, lo aprivano con circospezione poi, sorpresi, iniziavano a interrogarlo. L’anziano mendicante, smarrito, riuscì solo a farfugliare incomprensibili parole rimanendo completamente indifferente alle domande che gli venivano poste mentre si accarezzava la folta barba bianca.

    Lo condussero negli uffici della questura per identificarlo; poteva essere un complice o un semplice testimone. Seguirono gli accertamenti, gli interrogatori, ma il vecchio stringendosi nelle spalle, ripeteva ostinato di non saperne niente, di non conoscere quell’uomo. Ne aveva sentito parlare però: una volta anche un suo amico aveva ricevuto di notte un sacco senza sapere da chi, ma di sicuro sapeva il perché.

    <> chiese il commissario che avendo inquadrato il soggetto, non volle applicare nessuna coercizione emotiva.

    <> rispose rinfrancato dal calore dell’ufficio e dall’atteggiamento morbido del funzionario. <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    Le parole oziose del vecchio, anche se non furono di grande aiuto per le indagini del commissario, lo scagionarono da ogni presunto coinvolgimento come sospetto collaboratore dell’uomo del sacco.

    Un altro episodio aveva lasciato perplessi gli investigatori: una notte una pattuglia aveva segnalato alla centrale di aver avvistato un individuo, avvolto in un mantello nero, con un sacco sulle spalle, che correva veloce in bicicletta nella zona di Porta Palazzo; aveva dato impressione di uscire da un nascondiglio, l’androne di una casa diroccata dai bombardamenti, nei pressi dell’arsenale militare.

    Altre pattuglie furono subito inviate nella zona per essere battuta e controllata con scrupolo, ma senza nessun risultato.

    Le indagini proseguirono e fu accertato che le elargizioni dell’uomo del sacco erano state frequenti e generose. Da dove proveniva tutta quella roba? Dove era nascosta? Doveva esserci per forza un’organizzazione sotto, persone ben preparate e con larghezza di mezzi, non poteva essere il lavoro di un solo individuo.

    Scoprirono anche che fosse in stretti rapporti con parecchi delinquenti usciti dal carcere e che riusciva a procurare medico e medicine a gente ricercata dalla questura. Decisero quindi di agire. In quel periodo non si poteva lasciar correre, si andava a fondo su qualsiasi reato, anche il più insignificante sospetto andava verificato.

    Fu subito predisposto dalla polizia un rastrellamento a Porta Palazzo; tutta la zona della piazza dei mercati dove fu visto l’ultima volta fu circondata, furono controllati e interrogati tutti i passanti, uno per uno: nessuno sapeva niente. Circondarono allora una vecchia casa sulla sinistra dell’imbocco di Corso Giulio Cesare, dove una volta era stata segnalata la sua presenza.

    Una squadra di agenti iniziò a salire in silenzio le scale dai gradini di pietra consunti. Ad ogni pianerottolo c’erano due alloggi, uno di fronte all’altro: bussarono a ogni porta, controllarono ogni inquilino. Un’altra squadra intanto occupò, per ispezionarlo, l’ampio e scuro cortile oltre l’androne dal pavimento acciottolato. Gli uomini si fermarono al centro per abituarsi all’oscurità del luogo: tutt’attorno s’intravedevano alcuni locali chiusi da infissi scrostati con vetri verniciati alla meglio; alcuni erano dei magazzini, altri dei veri e propri ripostigli, in un angolo immondizia buttata su dei bidoni, cattivo odore, scatole vuote, l’unico rumore era quello di un gatto che raspava in cerca di cibo. In fondo al cortile, in penombra, c’era un locale più vasto, chiuso da una porta di legno con la vernice marrone scrostata e dal buco piuttosto ampio della consunta serratura

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