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Fuochista
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E-book177 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Negli anni sessanta un’altra onda migratoria si sposta dai paesi del centro sud verso le grandi città dove è richiesta prevalenza di mano d’opera. Le campagne continuano a spopolarsi, le case rimangono vuote. Una condizione che perdura inarrestabile ancora oggi.

Dopo essere vissuto in citta e coltivato l’aspettativa di un ristabilirsi in paese, durante i suoi viaggi saltuari nel luogo di nascita, il protagonista del romanzo si confronta con i pochi abitanti ancora là residenti.

Il “mondo” di quando aveva dieci anni si andava trasformando. Anche i paesi si erano conformati a nuovi modelli di vita proposti in maniera prepotente dai media. Il protagonista del romanzo percorre a ritroso il suo vissuto; nello strampalato colorito ricordo acquisisce una coscienza. Il passato non può tornare, rimane comunque vivo nella sua mente sognante. L’unico suo interlocutore è una stufa a legna alla quale racconta se stesso e i suoi ricordi, fino al giorno della pacata e serena conclusione di una vita.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2017
ISBN9788892663961
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    Anteprima del libro

    Fuochista - Gustavo Tempesta

    FUOCHISTA

    Anni sessanta

    Erano gli anni del sedicente boom economico. Intorno agli anni sessanta, intere famiglie dai paesi si trasferirono nelle principali città italiane, dove c’era richiesta di mano d’opera. Il primo a spostarsi era il capofamiglia. Si trasferiva da solo, sondando il terreno e provvedendo nel cercare una abitazione e un lavoro abbastanza stabile e tutte le altre cose necessarie a uno stile di vita diverso dalla micragna esistente nei paesi, che si vuotavano di braccia per sostenere il miracolo economico delle città. In seguito la famiglia intera si trasferiva, masserizie comprese.

    Così, negli anni che trascorrevano insieme ai saltuari ritorni in paese del capofamiglia, si potevano vedere i camioncini pronti alla partenza con stipato nel carico e in buon ordine il vecchio mobilio della nonna, scorporato per l’occasione in: portiere, cassetti e doghe di varia foggia e misura.

    Armadi bombati, comò dalle linee schiette e massicci di legno, subivano la divisione della loto unità strutturale.

    Spesse coperte ammortizzavano mettendo al riparo da urti, specchi dai quali traspariva a chiazze il fondo lasciato dallo scorticamento che il tempo aveva riservato alle superfici speculari.

    In un ritroso conteggio di anni quei mobili furono alberi; conservavano ostentandolo: l’odore di pece e la statica quiete delle nature morte.

    Nella piazza del paese venivano proiettati filmati che propagandavano elettrodomestici. Di pari passo, operai erano richiesti dalle fabbriche del Nord. Nelle città, le massaie avrebbero ingentilito le mani e fatti sparire i calli procurati da falcetti e zappe.

    Il governo Tambroni reprimeva a fucilate le rivolte operaie e i morti di Reggio Emilia restavano dei perfetti sconosciuti in quei paesi senza informazioni.

    Dopo l’annuncio dato dal banditore

    Alla piazza questa sera si fa il cinema!

    Dalle rufe sbucavano le comari con appresso la sediolina impagliata a guadagnare un posto di prima fila per godersi lo spettacolo. I bambini scorrazzavano nella piazza disturbando gli adulti, che essendo entusiasmati dalla proiezione riprendevano i vivaci monelli imponendogli il fare silenzio.

    Il Molise nel ’64, sottoposto alla divisione dall’Abruzzo acquisì una autonomia regionale che lo rese ancora più povero di quanto fosse. L’antica politica del divide et impera segnò soprattutto i paesi dell’alto Sannio, sprofondandoli maggiormente nella arretratezza economica e culturale.

    Passarono quasi cinquant’anni dal giorno in cui in Giuseppe prese forma il sogno, tanto voluto e mai abbandonato, prospettato quanto preparato, di ritrovare quelle radici del vivere quotidiano di un tempo. In una città che gli pareva straniera, lo aveva conservato tenendolo accalcato in un remoto ripostiglio di memoria.

    Quella memoria a lungo termine conservava i ricordi dei suoi primi dieci anni vissuti in un paese di montagna. La città lo aveva adottato; lo aveva forgiato secondo suoi canoni e modelli e lui ne era perfettamente consapevole. Si rendeva conto: i giochi del passato non sarebbero più tornati per tenergli compagnia insieme a prati e sassi. Essi, comunque rimasero un riferimento sicuro al suo percorso di vita; un ricordo protetto e racchiuso all’interno della corteccia cerebrale. Nessuna economia di mercato avrebbe potuto intaccarlo. La teneva serrata in se quella infanzia passata che lo rincuorava e gli fortificava il pensiero nei momenti di smarrimento. Conservò l’uso del suo dialetto, lo parlava correntemente in famiglia, ma come gli antichi Sanniti, venne in pratica travolto dalla prepotenza di Roma. Anche conservando la fierezza e le radici della sua gente, dovette adattarsi. Molisano e Cittadino di Roma. Residente e strapiantato.

    Gli anni della cinque lire

    Erano gli anni della cinque lire di alluminio, quella con impresso il grappolo d’uva. Era abitudine di alcuni adulti affidare ai bambini scorrazzanti nella piazza, la moneta per comprare quattro nazionali dall’unico tabaccaio del paese. La tenevano stretta nel palmo come a proteggere una reliquia o un qualcosa a loro affidato rendendoli responsabili di un tesoro da amministrare. Spesso ci usciva per loro anche una caramella! Qualche ragazzino con le mani unte di pane e olio tornava al committente con le sigarette impataccate.

    In quel paese del centro sud abbarbicato sui pinnacoli di roccia, come in molti altri paesi dell’entroterra molisano non c’era da scialacquare

    Le uniche fonti di sostentamento consistevano nel raccolto di quel poco di grano e di patate e granturco che gli avari e pietrosi piccoli appezzamenti di terreno si sforzavano di fare crescere. Unito a questi, l’ausilio della paga ricavata da qualche giornata di lavoro che i capifamiglia riuscivano a racimolare verso Alfedena e i paesi confinanti con l’Abruzzo. Circa cinquanta chilometri fatti in bicicletta, su strade polverose e sconnesse. Venticinque per l’andata, il restante per il ritorno.

    Chissà cosa passava per la testa di quegli uomini che prima erano stati mandati nelle trincee e poi erano stati catturati e internati nei campi inglesi. Quali fantasie circuivano i loro quarant’anni, percorrendo la strada dell’andata e del ritorno! L’ulteriore sacrificio della propria giovinezza per mantenere una famiglia? Votare le proprie mani scorticate al lavoro, gratificandosi nell’avere in futuro dei figli laureati?

    Decaduto il sabato fascista, l’unico giorno dedicato al riposo rimaneva la Domenica. Una fila di giovanotti con le mani in tasca e rigorosamente in piedi si pavoneggiava davanti al bar.

    Se qualcuno di loro fosse stato visto a sedere, si sarebbe sparsa la notizia di quel mal vedere, perché: il solo sedersi o peggio lo stravaccarsi era considerato sinonimo di pelandronaggine. Nella vernata gli uomini rimanevano in paese a occuparsi di varie riparazioni domestiche e della cura degli attrezzi per lavorare i campicelli. Si rifaceva la stila del bidente tenendo poi l’attrezzo a ndurterarse¹ nell’acqua.

    L’economia del paese sapeva di poco e I capofamiglia continuavano ad emigrare: ‘stavolta non tanto come in passato verso paesi oltre confine ma verso le grandi città della penisola dove era richiesta mano d’opera per ricostruire. Gli unici telefoni esistenti in paese erano: quello del municipio e quello di una cabina pubblica locata nella bottega del barbiere; all’occorrenza rivendita di giornali e profumi; e lo stesso barbiere, all’occorrenza anche sagrestano. L’unico televisore in bianco nero era alloggiato nel dopolavoro, paesano cinema ante litteram in abbonamento settimanale di poche lire. Fine programma ore ventiquattro.

    RADIOTELEVISIONE ITALIANA. Unico canale. Una specie di lunga e ritorta calzamaglia appariva sullo schermo antracite a comunicare in modo perentorio il termine delle trasmissioni. C’era più nulla da vedere.

    La chiusura dei programmi era sottolineato dal finale del Guglielmo Tell di Rossini, mentre la calzamaglia si attorcigliava su se stessa snodandosi verso l’alto.

    La liberazione dalla tirannide nazifascista sottolineata da quella metafora espressa in musica. Oltre il muro le macerie rovinose lasciate dall’oppressore; oltre le rovine la libertà.

    Erano stati giorni di freddo, di pioggia e di fame, nelle capanne costruite con rami e fogliame nella intricata vegetazione del bosco di Vallazzuna.²

    La nonna e la comare

    Con i racconti della nonna materna Giuseppe cresceva; non poteva rendersi conto di cosa fosse stata, la guerra; era un brutto ricordo di chi l’aveva vissuta.

    Le storie raccontate davanti al camino mentre lui azzannava la sua merenda fatta di pane olio e zucchero avevano anche risvolti comici, e lui puntuale alle quattro del pomeriggio si piazzava sulla sediolina bassa ad ascoltare divertito. A volte non mancava la visita di qualche comare che volendo rinverdire la giovinezza perduta prendeva parte alle reminiscenze della nonna; cosicché tutti insieme si facevano delle grasse risate pensando a fatterelli comici che non mancano mai di manifestarsi, anche in situazioni tragiche.

    Giuseppe si formava a quella voce che si esprimeva in un italiano avente il sapore di lingua parlata quasi un secolo prima. Spesso, la nonna si esprimeva con modi del verbo inconsueti: io non aveva capito, io non aveva mai potuto credere di vedere tutte codeste cose -si riferiva alle invenzione del novecento-

    Modi di parlare e di scrivere che hanno sapore di stantio e di muffa al giorno di oggi.

    Le mattine di maggio, quando con il bidente sulla spalla e la mappətella³ contenente il pranzo ci si incamminava verso la campagna, lungo la strada, Giuseppe imparava il nome delle erbe commestibili che probabilmente erano servite da cibo durante la permanenza nel bosco di Vallazzuna durante l’occupazione tedesca. La nonna, esprimendosi in dialetto gli indicava: rə cascégn’, la nəvìna, rə sangarəllòtt e la cassèlla e l’erva spragna.

    I frutti e le bacche selvatiche: rə cacavàsc,’ "rə prugn’ lə lécən’ e rə langrùnə, le pera, le mela salvaggə e re sprəscìm’

    lə murìchəra e lə vəllànə…

    Luglio odorava di tarda primavera e il raccolto sapeva di poco; il grano maturava più tardi rispetto alla pianura e il sole svogliatamente temporeggiava nel non volere tramontare. I capofamiglia erano a lavorare nelle città e tornavano a casa una volta al mese. Il prete raccoglieva fedeli per le processioni, e la scuola elementare aveva cinque maestri e cinque classi; c’erano cinque cantine per ritrovarsi di fronte a un quartino… C’erano.

    Primavera

    Primavera: l’aratro arrugginito tornava al suo splendore ostentando la punta aguzza del vomere. In paese arrivava rə ualanə⁴ con i suoi buoi per chi non poteva permettersi delle bestie proprie.

    Aguzzi vomere scarnificavano il terreno sotto il tiro dei grossi e miti animali, pungolati e stimolati per procedere possenti e rassegnati sul suolo indurito.

    Da quelle ferite inferte alla terra per darle aria e luce, affioravano pietre, che raccolte, erano accatastate ai bordi del campo per segnarne il confine. Le macere a fine estate, inorgoglivano di rovi che in settembre inoltrato picchiettavano le pietre col sangue rosso cupo delle more.

    In luglio tardo si mieteva il grano, e i covoni sapientemente legati disponevano la giunonica vita a delle cinture color di sole fatte di stoppie e sudore.

    Le messi di quelle damigelle bucoliche erano riunite e trasportate a dorso di mulo in un’ara deputata per la trebbiatura.

    Da pochi giorni era arrivata in paese la infernale macchina; in lingua, trebbiatrice, ribattezzata in loco machəna ca tresca.

    La curiosità dei bambini era tale da stimolare una lunga scia di pantaloncini e gonnelline rattoppate a seguire fino allo stanziarsi in Santamaria l’ingombrante macchinario, mentre un pigolare di vocine contrastava con un rumore di ruote dentate cigolanti. Giuseppe ascoltava affascinato quel gran rumorio di ferraglia e ammirava le larghe cinghie che trasmettevano il movimento ad altre pulegge. Cosa realmente avvenisse nelle ventresca di quel mostro color mattone rimase per lui sempre un mistero. Quando il misterioso e affascinante mostro venne ancorato al suolo e messo in funzione, il ragazzo poté osservare i chicchi di grano fuoriuscire da un portello, mentre la pula si conificava⁵ in un monticciolo giallino che una leggera brezza rubacchiava scorrazzandola per il mattino di inoltrata d’estate. Dalla parte opposta al portello di ingresso del grano saltellavano le balle di paglia già compresse e sagomate in dorati parallelepipedi lucenti. Era la pappa per le bestie, da stipare nei fienili e affrontare il lungo inverno di montagna.

    Quanda lamba alla marina, piglia rə suacchə e va arrə mulinə

    -sentenziavano gli anziani- ossia, se verso la marina è cattivo tempo nell’entroterra sarà tempo buono.

    I sacchi di juta rigonfi da stipati chicchi erano caricati, e a dorso di soma trasportati alla macina. Il compenso del mugnaio nella maggior’ parte dei casi, veniva stabilito in percentuale da trattenere rispetto alla quantità di frumento da macinare.

    I sacchi di grano si vuotavano del loro contenuto in una macina di pietra azionata dalla forza dell’acqua, dove era possibile. In altri casi la ruota del mulino era mossa dalla forza muscolare di buoi o animali da soma. I chicchi di grano si spianavano dolcemente rivelando il loro contenuto armonizzante con la crusca, donando all’insieme il colore povero e sincero della terra. Nessuno di essi veniva sfranto e maltrattato. Pareva che ogni uno volesse assolvere al suo dovere di diventare pane. Pane non perfettamente bianco, non necessariamente morbido; rugoso e crespo, ignorante e ruvido come le mani che lo avevano raccolto spiga.

    A pranzo, mentre il sole si portava allo zenit iniziando il suo lento declino verso ovest, colorava i capelli dei bambini imbambolati,

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