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Lazzari e scugnizzi di Napoli
Lazzari e scugnizzi di Napoli
Lazzari e scugnizzi di Napoli
E-book339 pagine4 ore

Lazzari e scugnizzi di Napoli

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Info su questo ebook

La lunga storia dei figli del popolo napoletano

La storia napoletana è legata strettamente alla sua gente e, in particolare, agli scugnizzi. I ragazzi di Napoli sono presenti in ogni epoca: lazzaroni, guagliuni, sciuscià rappresentano il carattere intrinseco e forse l’emblema del popolo partenopeo. Ma dietro la facciata oleografica che li vuole sempre sorridenti e distesi al sole – a cogliere il lato divertente della vita – esistono storie di miseria, di dolore e di degrado. Questo libro ripercorre le infinite vicende degli scugnizzi: dai ragazzi «tinti di volto» che seguivano il capopopolo Masaniello, ai lazzari del 1799, per giungere agli ardimentosi, piccoli eroi delle Quattro Giornate di Napoli. Ma non dimentica i momenti di aggregazione festosa, come la festa di Piedigrotta, di cui gli scugnizzi sono protagonisti, né l’ispirazione (nel teatro, nella musica, nel cinema, nella pittura e nella scultura) che i ragazzi hanno sempre fornito ai grandi artisti della città, non di rado essi stessi scugnizzi per vocazione o per radici.

Tra gli argomenti trattati:
Lazzari napoletani
Usi e costumi
Famosi capipopolo e loro gesta
Napoli, i lazzari e i viaggiatori del Grand Tour
La miseria tra storia e letteratura
I figli del popolo. La storia continua
I figli di nessuno: la “ruota dell’Annunziata”
Iniziative a favore degli scugnizzi
Scugnizzi in guerra
Scugnizzi in arte
Le donne di Napoli, popolane e patriote
Dentro la città: la napoletanità

Luisa Basile
giornalista pubblicista, ha collaborato con diversi quotidiani e periodici pubblicando articoli di cultura napoletana e di critica teatrale. È stata attiva con «Il Giornale di Napoli», «Il Roma», «Il Mezzogiorno» e le riviste «Prima Fila», «Nord e Sud», «Uè», «Histrio». Da molti anni non vive più a Napoli ma ha mantenuto contatti stretti con la città coltivandone sempre l'immensa cultura.Delia Morea
Ha vissuto e lavorato a Napoli. Scrittrice, giornalista, critica teatrale e letteraria, ha scritto romanzi, racconti, saggi e piéces per il teatro. Nel 2002 ha vinto il premio letterario Annamaria Ortese, nel 2004 è stata finalista del premio teatrale Napoli Drammaturgia Festival. Ha pubblicato, tra l'altro, i saggi: Vittorio De Sica, l'uomo, l'attore, il regista, la raccolta di testi teatrali La Voce delle mani e i romanzi: Quelli che c'erano, Una terra imperfetta, Romanzo in bianco e nero candidato al Premio Strega 2019. Ha collaborato con il magazine culturale «Succedeoggi», occupandosi di critica letteraria. Insieme a Luisa Basile ha pubblicato I Briganti napoletani, Storie pubbliche e private delle famiglie teatrali napoletane e Lazzari e scugnizzi di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2019
ISBN9788822739568
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    Anteprima del libro

    Lazzari e scugnizzi di Napoli - Luisa Basile

    ES675-cover.jpges.jpg

    675

    Prima edizione ebook: dicembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3956-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Manuela Carrara per Corpotre, Roma

    Luisa Basile - Delia Morea

    Lazzari e scugnizzi di Napoli

    La lunga storia dei figli del popolo napoletano

    marchio.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Introduzione

    PARTE PRIMA. LAZZARI

    Lazzari napoletani

    Usi e Costumi

    Famosi capipopolo e loro gesta

    Napoli, i Lazzari e i viaggiatori del Grand Tour

    Lazzari Europei

    PARTE SECONDA. SCUGNIZZI

    I figli del popolo. La Storia continua

    I figli di nessuno: la Ruota dell’Annunziata

    Iniziative a favore degli scugnizzi

    Scugnizzi in guerra

    Scugnizzi in Arte

    PARTE TERZA. LE DONNE DI NAPOLI

    Popolane e Patriote

    PARTE QUARTA. DENTRO LA CITTÀ

    La napoletanità

    Conclusioni

    Bibliografia essenziale

    Avimm’ ‘a sta’ a’ guagliuno ‘e simme maste

    (Dobbiamo essere garzoni, ma abbiamo la stoffa di maestri)

    Raffaele Viviani

    ringraziamenti

    Ringraziamo coloro che ci sono stati vicini durante il nostro lavoro e in special modo Francesco Basile per il suo prezioso aiuto.

    Introduzione

    Nel marzo del 1996 la casa editrice Newton Compton diede alle stampe il nostro saggio Lazzari e Scugnizzi. La lunga storia dei figli del popolo napoletano, nell’edizione Napoli tascabile diretta dall’indimenticato professore e studioso delle cose napoletane, Romualdo Marrone.

    23 anni dopo ci è stato chiesto di riscrivere il saggio in una versione arricchita. Abbiamo accettato con gioia la sfida, ricordando l’impegno nel ricostruire questa piccola ma complessa storia dei figli del popolo napoletano e l’entusiasmo e la curiosità di studiose che aumentava giorno dopo giorno.

    Oggi questa nuova versione ampliata ci offre l’occasione di riconsiderare quella storia, di ripercorrerla arricchendola, appunto, di nuovi capitoli che tengano conto sia del dato storico ma anche dell’attualità velocemente cambiata in questi anni. E non solo. Questo ci ha spinte ad approfondire il racconto con esempi di lazzari e scugnizzi d’oltralpe, a verificare le opinioni e le influenze degli scambi culturali a opera dei viaggiatori del Grand Tour, a dare voce alle donne lazzare, scugnizze, patriote e popolane e infine a inoltrarci all’interno di un concetto fondamentale per comprendere meglio lo spirito intrinseco della città, che è la napoletanità.

    I lazzari e gli scugnizzi napoletani, intesi come manipolo di ragazzi vocianti, allegri ed eroici, così come la storia li presenta nel corso dei secoli, non esistono più: nuove ricchezze, nuovi e veloci codici di vita li hanno sostituiti.

    Al loro posto vi sono almeno due diverse categorie di giovinezze: i ragazzini del popolo, operosi, studiosi o che s’impiegano in qualche lavoretto per aiutare l’economia familiare (ci viene in mente il fantastico personaggio creato da Eduardo De Filippo nello sceneggiato televisivo Peppino Girella del 1963) oppure, purtroppo, quelli che fanno parte di baby gang, si affiliano alla camorra che promette lavoro spietato e denaro facile o, ancora, perché cresciuti all’ombra di famiglie che rientrano nell’orbita malavitosa. Loro, i ragazzi, spesso sulla scorta di quest’esempio familiare, non saprebbero o potrebbero fare altro (anche se esistono molte forme associative che tendono una mano per una formazione, che parte proprio dalla famiglia, per rieducare alla vita).

    La nostra stessa esistenza in questi anni è cambiata. Roberto Saviano con il libro Gomorra, che ha avuto grande merito divulgativo, ha messo in luce moltissime problematiche prima taciute o poco conosciute ai più, anche se saggisti studiosi del fenomeno come Isaia Sales, Amato Lamberti, o giornalisti d’assalto, come Joe Marrazzo, ne avevano sottolineato la grave importanza.

    Né dobbiamo dimenticare che il caso relativo all’infanzia negata si è moltiplicato, investendo come sempre i ragazzini di tutto il mondo. Ragazzini sfruttati, venduti al miglior offerente per l’orrendo turismo sessuale, vittime di pedofilia, impiegati in situazioni criminali, vittime del commercio di organi, ecc., o vittime innocenti di sparatorie e stese di stampo malavitoso. Per fare un esempio vicino alla nostra realtà, due nomi su tutti: la piccola Annalisa Durante, uccisa per sbaglio il 27 marzo del 2004 a Napoli, nel quartiere Forcella, durante una sparatoria tra clan camorristici rivali. Annalisa aveva solo 14 anni.

    Noemi, di appena 4 anni, ferita anche lei per errore lo scorso 3 maggio 2019 durante una sparatoria a Napoli, in Piazza Nazionale, che è riuscita miracolosamente a salvarsi.

    Situazioni terribili che dimostrano quanto ancora bisognerebbe e bisogna fare per preservare l’infanzia e la giovinezza, per offrire ai giovanissimi e ai giovani un futuro migliore e degno di questo nome.

    Nel percorrere questa strada ci viene incontro la nostra introduzione del 1996 che si avvaleva di considerazioni e motivazioni, ancora valide, che riportiamo.

    Napoli terra mia / Terra di liberi / Che ai Francesi sapesti opporre i Lazzaroni / Agli Spagnoli Masaniello / Ai candidi spontanei i Rossi di Montecalvario / Ai Tedeschi nelle gloriose Quattro Giornate gli Scugnizzi.

    Queste significative parole desunte dal libro di Pasquale Mastropaolo Napoli leggenda e storia, sono state illuminanti per la conferma della tesi che in questo volume abbiamo cercato di sostenere: la storia della città di Napoli, nella sua espressione della difesa della libertà, non può prescindere dal popolo che con le sue gesta ha contribuito a scrivere queste pagine.

    E per popolo non va intesa genericamente una popolazione, cioè l’insieme degli individui che formano la compagine sociale ed economica della città. Per popolo noi abbiamo inteso individuare la parte più povera, infima, quella che ha sofferto le maggiori frustrazioni e che, sospinta da un desiderio di ribellione, è riuscita a imporre la propria presenza nei secoli. Certamente l’analisi prescinde da giudizi approfonditi e specifici di carattere storico, da quei giudizi, cioè, che mettono in luce la bontà, l’opportunità e la necessità di interventi epocali.

    Di una cosa siamo certe: Napoli non sarebbe esistita senza la sua plebe; Napoli non avrebbe avuto la possibilità di esprimersi se non avesse avuto tanti figli rappresentativi di essa. Ecco perché favole, miti, leggende e oleografia hanno spesso preso il posto della storia amplificando i significati. Perché molte voci, molti canti, molte grida hanno tuonato, hanno schiamazzato.

    Infatti il popolo napoletano è vociante, per nulla silenzioso, costituzionalmente esplosivo, estroso, frenetico, euforico. Ma ha pagato spesso un caro prezzo per una regola di vita eccessiva, è stato considerato nei modi e nelle maniere più negative, dipinto con tratti mortificanti e soprattutto, considerato sempre povero, nullatenente, affamato e per questo disprezzabile.

    Eppure confidando in una tesi, finanche azzardata, si potrebbe dire che esso ha vinto su tutto e su tutti, ha vinto sulla Storia perché mai si finirà di descrivere in ogni modo possibile le sue gesta, mai si finirà di comprendere veramente, profondamente le ragioni che sottendono certi comportamenti, che hanno generato certe vicende.

    Abbiamo cercato un filo conduttore che ha legato il passato al presente e che, pur nel trascorrere dei secoli, ha segnato un percorso nel labirinto della Storia. Questo comune denominatore è stato evidenziato attraverso i modelli più rappresentativi della napoletanità: i figli del popolo, lazzari prima e scugnizzi poi, fino ad approdare agli odierni muschilli, che con gli antenati cugini forse condividono un’ansia perenne di libertà – per quella costante di trasgredire alle regole – seppure espressa attraverso una scelta di degrado umano e sociale. Scelta malavitosa che spesso li vede strumenti di affari molto più grandi di loro. Questa condizione dovrebbe trovare da parte della socialità i modi e i termini per agire su una possibilità di recupero di vite sbandate.

    In questo difficile e accidentato cammino non è mancato di evidenziare come la Storia si sia fatta beffe di queste giovani vite, strumentalizzando con violenza, con veemenza, la voglia di affrancarsi da una stratificata condizione di sottoproletariato che, per questo, non si è mai appieno realizzata. Occasioni in passato ce ne sono state, soprattutto quando è nato quasi dal nulla un capopopolo, un uomo in grado di dirigere quei fuochi ardenti, o quando le fiamme dell’incomprensione, dell’ignoranza hanno fatto terra bruciata. Così sul terreno sono rimaste le tracce di un eroismo sprecato.

    Napoli era e resta, ancora oggi, una città in perenne credito con la Storia, per cui la parola riscatto accompagnerà sempre la sua evoluzione. Riscatto dalla povertà, riscatto dalla miseria, riscatto dall’ignoranza, perché a Napoli – prendendo a prestito le parole di Atanasio Mozzillo: «assai prima della metà del Settecento la miseria della plebe era tale da non avere confronto in nessun’altra città italiana ed europea».

    Ma se allora il mondo conosciuto finiva all’Europa, di cui Napoli era parte molto rappresentativa e importante, oggi il paragone può essere allargato a molti paesi a Sud dell’emisfero.

    L’analisi condotta è rigorosamente inquadrata in un preciso ambito spazio-temporale e legata alla città. Tuttavia l’attualità che viviamo non può farci prescindere da alcune considerazioni che, oltre tutto, rendono quanto mai viva questa analogia.

    I figli del popolo di tutti i paesi che si collocano in una latitudine particolarmente esposta al sole, cioè ai raggi della vita, molto spesso si vedono negato questo naturale diritto all’esistenza. Così guerre, soprusi, devastazioni, violenza e dunque miseria, povertà regnano sovrani falcidiando moralmente e materialmente soprattutto le vite più giovani.

    Il paragone è azzardato nella misura in cui esclude uno studio specifico e comparato delle condizioni politico-ambientali ed economiche che hanno alimentato certe sacche di povertà. Dunque non è nostra intenzione addentrarci in un tema che prescinde totalmente dall’analisi che ci riguarda. Ma è, invece, giusto riflettere sul fatto che tanti piccoli, minuti scugnizzi si ritrovavano in altre parti del mondo a combattere la propria, insuperabile battaglia quotidiana.

    Dunque se i viaggiatori dell’Ottocento ancora trovavano a Napoli putridi fondaci, dove famiglie intere stavano assiepate così, oggi, nelle favelas sudamericane si ritrovano condizioni di vita inaccettabili, così come in molti campi profughi che ospitano vittime di guerra che in questi nostri anni si sono scatenate in medio oriente e più di recente, a opera di gruppi terroristici che hanno distrutto intere città e preziose vestigia storiche, per non parlare dei paesi africani. E se l’immagine dello scugnizzo in guerra ha fatto il giro del mondo nell’ultimo conflitto mondiale, allo stesso modo girano oggi immagini di bambini vittime dell’industria della morte, della distruzione. A ciò si devono aggiungere altre spaventose istantanee, prodotte invece dal benessere: quelle dei bambini usati per spacciare, per procurare paradisi artificiali.

    Questa disquisizione potrebbe sembrare un andare oltre l’argomento partenopeo che stiamo trattando ma non è così, perché si tratta di riflessioni che allargano gli orizzonti di un consunto stereotipo, che non ha più ragione di esistere e che noi abbiamo cercato di confutare: scugnizzo uguale figlio del popolo esclusivamente scaltro e furbo.

    Parte prima

    Lazzari

    13.tif

    F. Palizzi, Lazzari e facchini (da De Bourcard, Usi e costumi di Napoli).

    Lazzari napoletani

    Se c’è un luogo a Napoli che conserva fra le sue pietre, le sue chiese, un grande capitolo della storia napoletana, questo è sicuramente piazza Mercato. Tre gli avvenimenti dolorosi che si sono avvicendati macchiando di sangue il suo selciato: la decapitazione di Corradino di Svevia, l’uccisione di Masaniello, l’impiccagione dei martiri della Repubblica Partenopea (o Napolitana) del 1799. Parimenti la piazza è stata il palcoscenico migliore di un popolo lì radunato nei secoli, a fare mercato, a chiedere l’elemosina, ad assistere a queste morti, spettatore attivo e protagonista di una storia che segna le sue pagine anche incitata dalla folla tumultuosa e incalzante per forza e partecipazione.

    A Napoli, come nelle altre grandi città, c’era una enorme concentrazione di poveri, che costituiva un vero e proprio sottoproletariato, dovuto, in larga parte, all’inurbamento massiccio dalle campagne a partire dal Cinquecento e per tutto il Seicento. La città ebbe un aumento impressionante della popolazione, che passò, in poco tempo, da 100.000 a 400.000 abitanti. Questo comportò una coabitazione non sempre civile e semplice tra i vari ceti, soprattutto tra quelli ricchi e quelli poveri, ben più numerosi e anche suddivisi in vari sottogruppi sociali. Si può dire, infatti, che la costruzione dei palazzi aristocratici, che abbellirono notevolmente la città, portò anche all’incremento di un: «proletariato clientelare, formato dai servi di casa: criati, camerieri, cocchieri, paggi, cavalcanti, eccetera, tutti di estrazione plebea, ma diventato lo strato superiore della plebe, per stile di vita e ideologia. Al tempo stesso l’aumento della popolazione, la crescita della ricchezza e il dilatarsi dei bisogni e dei consumi determinò ancora l’incremento di una infinita serie di piccole attività artigianali, quelle che Croce definì dei commessi e conservienti di altri mestieri, lanaiuoli, setaiuoli, falegnami, ebanisti, orefici, argentieri, gioiellieri».¹

    Tutti costoro si sentivano superiori a una terza categoria, quella dei lazzari, che rappresentavano l’infima plebe, formata dai facchini, dai lavoratori e dagli apprendisti dei mestieri più umili: «funaiuoli, ferrari, ottonieri, stagnini, chiavettieri, ferri vecchi, conciatori di pelli, sarti e calzolai».²

    C’erano infine: «i rivenditori al minuto di ogni genere, e coloro che, privi di qualsiasi attività, vivevano di espedienti, a Napoli come in qualunque altra delle metropoli europee».³

    Di questa folla cenciosa, di questo rumoroso popolino, i ragazzi sono sempre stati un simbolo vivace, la narrazione più immediata e simpatica, ma di frequente violenta. Abituati ad affrontare la fame e la miseria con l’arte dell’arrangio e con la fantasia. Pronti alle rivolte, a sostituirsi ai re per mantenere l’ordine, o a fare barricate per cacciare l’invasore francese o tedesco. Fedelissimi nell’abbracciare la bandiera del più forte, del potente, incuranti di scivolare sulla strada del ladrocinio, delle ruberie e dell’ingiustizia. Soprattutto capaci spesso di considerare la vita come un gioco o una sfida, tramutandola in un’eterna festa anche nei momenti di tensione e di dramma.

    Si avvicinava la festa del Carmine, celebrata a Napoli con particolare fervore, concorso di popolo e speciali cerimonie che duravano più giorni. Una delle attrattive era l’assalto al castello: sulla piazza del Carmine veniva eretto un munito castello di legno e coloro che volevano provarsi, chiamati alarbi, dovevano espugnarlo. Masaniello pose la sua candidatura e passò al reclutamento dei suoi alarbi, scegliendoli tra i ragazzi dai 14 ai 17 anni. Erano […] una giunta di figlioli scalzi di umilissima sorte, vestiti alla moresca, e tinto il volto, e la maggior parte del corpo in colore rosso e di negro, avvolti in vilissimi cenci e con una cannuccia in mano. Reclutò una prima compagnia di duecento ragazzi, aventi come ornamento nient’altro che una canna, come musica dei tamburi sfondati.

    Si rintraccia sicuramente nei giovani tinti di volto che scorazzavano dietro il capopopolo Masaniello, il primo episodio storico importante, che vede coinvolti i guaglioni di Napoli, organizzati in truppe di assalto e in un vero movimento politico, non esclusivamente spontaneo.

    L’organizzazione delle rivolte viene infatti individuata proprio durante la ribellione antispagnola del 31 luglio 1647.

    […] i pezzenti, vale a dire mendicanti ciechi, storpi, sordi, muti, ragazzini cenciosi ed altra gente inutile, armati di bastone e di mazze si riuniscono al Largo del Mercatello, eleggono un capo e si arrampicano su per il colle minacciando di incendio la certosa di S. Martino. Come sempre nelle sommosse popolari di ancien régime vi è la ricerca di un principio di diritto legittimo da rispettare. Si tratta in questo caso di un antico legato della regina Giovanna i, secondo il quale i poveri debbono in perpetuo ricevere dai Certosini una palata di pane, et una carrafa di vino per ciascheduno che anticamente solea darsi nell’Ecclesia dell’Incoronata nel largo del Castello.

    In merito al rispetto delle leggi e dei legati, afferma Lucia Valenzi: «Questo legato infatti non è più rispettato se non con l’offerta di un po’ di pane e di un bicchiere di vino, ma soltanto a chi raggiunge il convento in cima alla collina. L’episodio viene presto risolto con qualche promessa da parte dei frati, ma non è per questo meno interessante, anche se lascia aperti tutti gli interrogativi su queste organizzazioni dei mendicanti».

    Vestiti di nulla, svelti, scaltri e pronti a impadronirsi dei giorni di festa come dei giorni di guerra, scatenano la violenza, soprattutto contro i ricchi e non nei confronti di un nemico politico che il lazzaro non comprende. Citando Carlo Augusto Mayer, il lazzarone «approfittando dello smarrimento generale, che può anche non essere dovuto ad una rivoluzione politica, ma bensì ad un’epidemia o ad un’eruzione del Vesuvio, è sempre portato ad abbuscare e a mettere la mano sui beni dei ricchi».

    Sono smunti figli di una città sempre affamata, descritta, cantata, dipinta da stranieri e italiani nelle maniere più diverse. È indubbio che il filo conduttore di tutte le storie sorte intorno alla plebe napoletana sia la vilissima fame, compagna eterna. Ragazzi cresciuti in una città dai mille volti, inenarrabile per le sue mille storie, misteriosa con i suoi mille miti, evanescente con le sue mille leggende e, soprattutto, ingovernabile con i suoi mille re, difficile da afferrare ma affascinante di chiaroscuri, dove il popolo è artefice e strumento, attore e spettatore di una rappresentazione che non avrà mai fine.

    Il lazzaro, da sempre re del popolo, è uno di questi interpreti. I lazzari rappresentano il ceto più infimo della plebe, gente senza arte né parte, senza casa né mestiere, a cui tuttavia viene riconosciuta una capacità di influenzare l’intera massa: ciò è dovuto in parte all’organizzazione interna che prevede l’elezione di un capo, riconosciuto dalle stesse autorità statali. Pertanto anche tra i lazzari esiste una gerarchia, una piramide che ha un vertice e una base, dove le regole sono dettate da un codice riconosciuto dal popolo spesso secondo un principio di opportunità.

    Per citare Dumas:

    Il lazzaro non ha padroni, non ha leggi, è al di fuori di tutte le esigenze sociali: dorme quando ha sonno, mangia quando ha fame, beve quando ha sete. Gli altri popoli si riposano quando sono stanchi di lavorare: lui, invece, quando è stanco di riposare lavora […]. Il lazzaro non ha una ferma opinione politica. Si può dire innanzi a lui tutto ciò che si vuole del re, della regina o del principe reale. Purché non si parli male della Madonna, di S. Gennaro o del Vesuvio, il lazzarone lascerà dire.

    Il basso popolo seicentesco descritto da Dumas ha dentro di sé un unico padrone: la libertà, l’affrancarsi da ogni obbligo e dovere. Per essa in alcuni momenti egli ha combattuto, in altri si è lasciato vincere per restare quell’essere unico, irripetibile nella compagine sociale, che per cibo ha qualche filo di maccherone, quando è fortunato, altrimenti erba, foglie di verdura, per tetto il cielo o la copertura di un bancone di mercato. Per lui la libertà è un vero e proprio segno di potere; dice il lazzaro che Napoli ha tre padroni: «primma san Gennaro, poi lo rre e poi è d’a mia».

    18.tif

    La rivolta di Masaniello in un disegno della fine del Seicento (particolare).

    Uno strano concetto di libertà, quindi, che gli permette di distaccarsi completamente, non solo dall’artigiano, ma anche dal mendicante per trasformarsi, quando vuole, in bassa manovalanza. Per il resto il lazzarone è uno che possiede principalmente sé stesso, uno che ha venduto la propria pelle, la propria vita quando gli è piaciuto, quando ha visto che un re lazzarone si è tanto avvicinato al suo modo di vivere da diventare importante come san Gennaro.

    Ferdinando iv di Borbone, regnante a Napoli dal 1759 al 1799, infatti, era spesso chiamato dai suoi sudditi re Lazzarone, perché si racconta che amasse fare svariate incursioni nei quartieri napoletani travestito da plebeo. Così sembra frequentasse mercati, taverne, teatri partecipando attivamente alla vita del suo popolo. Nonostante Ferdinando regnasse col pugno di ferro e nonostante atteggiamenti di padre, padrone (veniva chiamato anche tata che nella lingua napoletana settecentesca significa appunto padre) era venerato dal popolo quanto san Gennaro, il santo patrono, il santo del miracolo della liquefazione del sangue.

    Il lazzaro nella storia napoletana nasce, come per virtù di popolo, al fianco di Masaniello, pescivendolo del mercato, per appoggiare la rivolta del 1647 contro le infami gabelle con cui il vicereame tassava anche gli alimenti più semplici. Ma il lazzaro si pentì presto di questo suo spirito rivoltoso e fu esso stesso a uccidere e atterrare il suo capopopolo facendo il gioco dei potenti. Forse è anche questa una costante del carattere, a nostro avviso poco esaltante, del lazzaro: adeguarsi alla convenienza del potere, voltarsi e andare verso l’autorità conosciuta, per lui rassicurante, per viverne, poi, di luce riflessa.

    A riprova della storia, il lazzaro napoletano fu imitato altrove e in altre epoche da altre plebi cenciose, sicché come lazzari si indicarono i rivoltosi di Palermo e quelli di Piano di Sorrento.

    A voler scoprire l’origine del termine, bisogna esaminare le ipotesi di diversi studiosi. A tal proposito un punto fermo resta l’indagine effettuata da Benedetto Croce, il quale cita l’Abate Galiani che: «Pel primo mise innanzi la congettura che il nome fosse trasportato ai plebei napoletani dai lebbrosi o lazzari, detti così perché avevano per protettore San Lazzaro, ed erano curati in ospedali che perciò appunto si chiamavano lazzaretti».

    Non si comprende come il significato della parola, attribuito ai malati di lebbra, si sia poi allargato alla plebe, se non si ricorre all’influsso della lingua spagnola.

    Infatti Croce ci ricorda che: «Nell’antico spagnolo si trova laceria così nel senso di lebbra come in quello di miseria. I lazarillos erano […] los muchachos que se curan de la tina en los hospitales de San Lazáro […] Lazaro, poi, […] ha il significato di pobre andrajoso, cioè a dire di pezzente cencioso […]».¹⁰

    A sostenere la tesi dell’origine spagnola della parola, cosa verosimile vista la dominazione imperante, è lo studio sul dialetto napoletano che, fino a quella data o avvenimento, non riporta in alcun modo la parola lazzaro. Non vi è traccia né nel Basile, né nel Cortese, né nello Sgruttendio, che rappresentano la massima espressione di scrittori in lingua dialettale del periodo storico esaminato.

    «Gli spagnoli, o i signori napoletani spagnoleggianti di lingua come di costumi, dovettero chiamare ripetutamente turba de làzaros i popolani laceri e seminudi che attorniavano Masaniello. E costoro, udendo quel nome al loro indirizzo, ignoranti […] del vero senso della parola, stimandolo nome di persona potente e grande, non solo non lo ebbero a male, ma di vantaggio se ne onorarono e fregiarono».¹¹

    Il motivo di tanta onorabilità era di natura religiosa, essi infatti pensavano che tale soprannome discendesse direttamente dal famoso Lazzaro del Sacro Vangelo.

    Dunque i lazzari appartenevano a quella classe sociale che in termini moderni si può denominare sottoproletariato urbano, che presentava caratteri simili in molte città, ma che a Napoli aveva assunto delle connotazioni del tutto autoctone. Un sottoproletariato che godeva di alcuni beni naturali insiti alla salubrità dei luoghi: il clima mite, la vita all’aria aperta. Ciò permetteva a queste povere genti di dormire spesso in baracche improvvisate o addirittura sotto il cielo e di avere, come riflesso di tanti doni, un carattere altrettanto arrendevole, sereno, gioviale. Ma questa è una visione leggendaria, tradizionale, che ha

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