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Negli occhi di mia madre: romanzo
Negli occhi di mia madre: romanzo
Negli occhi di mia madre: romanzo
E-book202 pagine3 ore

Negli occhi di mia madre: romanzo

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Info su questo ebook

In una Napoli ferita a morte dai bombardamenti, protetto dalle umide pareti tufacee dei ricoveri sotterranei, un bambino, Gaetano, sta diventando grande. Nello stesso momento, nelle strade gelide e desolate del ghetto di Varsavia, sta diventando grande un’altra bambina, Benedetta. E così Gaetano e Benedetta, vittime innocenti che il delirio collettivo di quegli anni catapulterà nell’età adulta con la violenza traumatica di una lacerazione, in questo scenario apocalittico saranno costretti a portare, ognuno a suo modo, il fardello delle loro paure. Unico conforto e riparo, reale o immaginario, è l’amore materno, il filo conduttore del romanzo che ricompatta e illumina l’universo disgregato dei protagonisti. È questo un altro modo di definire il romanzo: “una elegia sulla madre”, perché molteplici sono le figure di madri nel libro e ognuna di loro è realmente straordinaria.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2014
ISBN9788868150983
Negli occhi di mia madre: romanzo

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    Anteprima del libro

    Negli occhi di mia madre - Titti Federico

    Negli occhi di mia madre

    romanzo

    Titti Federico

    Published by Giuseppe Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2014

    Copyright Titti Federico

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868150983

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Titti Federico

    Copertina

    Dedica

    PREFAZIONE

    Negli occhi di mia madre

    CAPITOLO PRIMO - Mia madre

    CAPITOLO SECONDO - Edda

    CAPITOLO TERZO - Benedetta

    CAPITOLO QUARTO - Guerra

    CAPITOLO QUINTO - Irina

    CAPITOLO SESTO - Fuga

    CAPITOLO SETTIMO - Benedykta

    CAPITOLO OTTAVO - Diluvio

    CAPITOLO NONO - Una nuova vita

    CAPITOLO DECIMO - Un’identità

    CAPITOLO UNDICESIMO - La bottiglia in mare

    CAPITOLO DODICESIMO - Ritrovarsi

    CAPITOLO TREDICESIMO - Negli occhi di mia madre

    RINGRAZIAMENTI

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    Licenza d’uso

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    Titti Federico

    Titti Federico, nata a Genova da genitori napoletani, abita a Carrara dall’età di due anni. Laureata in Lingue e letterature straniere moderne ad indirizzo europeo, insegna lingua e letteratura francese. Ha pubblicato il suo primo romanzo, Prima che venga sera, nel 2008. Con Meligrana ha pubblicato Oltre le cose (2012) e ripubblicato nel 2014 Prima che venga sera con cui è arrivata finalista al prestigioso Concorso letterario San Domenichino di Massa.

    Contattala:

    concetta.federico@gmail.com

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    Dedicato a mia madre, Enza.

    PREFAZIONE

    Come vivono gli uomini e le donne, le bambine e i bambini quando l’ala della grande storia, quella che di solito non sfiora le vicende degli umili, si tinge di nero e si avvicina pericolosamente alle loro piccole storie quotidiane? Cosa accadrà alla loro anima? Diventeranno volenterosi carnefici o manterranno la propria umanità? Saranno vittime innocenti o si salveranno?

    Negli occhi di mia madre ci risponde conducendoci dapprima in una Napoli popolare e viva ma segnata dalle leggi razziali, dove una donna di forte tempra, una levatrice, difende tenacemente la vita.

    Titti Federico ci accompagna poi in una Varsavia devastata dall’orrore dell’occupazione nazista, dove una giovane polacca s’immola per salvare altre vite.

    Il romanzo diventa così una potente e salvifica storia d’amore che accende in chi legge la speranza: a prescindere dallo stesso libro che stiamo leggendo, e da ogni fattispecie storica, è la speranza del bene, da proiettare verso tutti coloro che hanno subito la violenza della storia, che la stanno subendo o la subiranno, dai bambini del ghetto di Varsavia, ai figli dei desaparecidos o dei profughi, ai minori rapiti o alle vittime dei barconi. Il libro ci chiede un impegno per aiutare le vite strappate alla loro vita a tornare, ritrovando radici e memoria e senso del futuro. Il dolore e il male che lo genera, infatti, sono narrati con una sapienza che ci spinge una volta ancora a dire no.

    Così, dall’assurdo delle leggi razziali, dall’orrore del ghetto di Varsavia sale un canto di pace.

    Una narrativa nutriente, quella de Negli occhi di mia madre, nutriente come le tre madri che v’incontriamo, come il senso etico che vi aleggia, come i processi di crescita e di consapevolezza personali che finiscono per colorarsi di un senso di esemplarità.

    Un romanzo, quindi, da leggere tutto d’un fiato, con il quale soffrire e gioire per il suo intenso ritmo, cadenzato dalle scelte delle donne che non solo sanno ciò che è giusto, ma fanno ciò che è giusto. Ma se lo scenario della grande storia consente di ritrarre figure femminili che, per il solo fatto di aver sfidato i loro tempi, richiedono le tinte forti, l’autrice si tiene sempre lontana dalla retorica dell’eroismo. Il testo non è epico, o non soltanto, per la cifra esistenziale che lo caratterizza attraverso la costruzione del tracciato psicologico dei personaggi.

    Le figure stanno nelle pagine come su un proscenio teatrale, dove la filigrana storica consente comunque di tessere anche la tela di conflitti e di sogni eterni: Edipo, il senso di colpa, l’abbandono, il ritorno, la terra promessa. L’ultimo lavoro di Titti Federico è pertanto portatore di vari registri, un testo maturo che ha alle spalle una ricerca letteraria genuina e profonda, sorretta da una sapienza narrativa dal lessico diretto, essenziale e profondamente poetico al contempo.

    Giovanna Bernardini

    Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce.

    Quando non potrai camminare veloce, cammina.

    Quando non potrai camminare, usa il bastone.

    Però non trattenerti mai.

    Madre Teresa di Calcutta

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in parte frutto della fantasia dell’autrice.

    Negli occhi di mia madre

    CAPITOLO PRIMO

    Mia madre

    Napoli, maggio 1963

    Mentre infilavo le chiavi nella toppa della pesante porta blindata, sentii il solito senso di inquietudine. Come avrei trovato oggi la mia vecchia madre?

    Seduta sulla sua malefica sedia a rotelle, il maledetto aggeggio, come lo chiamavo io per farla sorridere, lo sguardo un po’ spento, le mani che tremavano, il respiro affannoso. Mi avrebbe riconosciuto, oggi? Ogni giorno poteva accadere, che mia madre mi guardasse senza ricordarsi di me, il dottore me lo aveva detto di prepararmi a questa eventualità.

    Mia madre. Mia madre Edda Capasso, levatrice di professione ora a riposo, ancora così bella, forte, dritta come un fuso e sana come una ragazza appena cinque anni prima, mia madre che divorava libri come un bambino divora caramelle, che già guidava la macchina all’epoca in cui le donne erano relegate al ruolo di angeli del focolare. Mia madre, imperiosa e aristocratica, padrona della sua mente e con i pensieri chiari e leggeri come quelli di una giovane che si affaccia alla vita. Mia madre, che aveva fatto nascere tutti gli scugnizzi del vicolo e che aveva camminato nel fango senza mai sporcarsi, e si librava senza peso sulla vita pesante e imbrattata di tutti i giorni. Certo, il dolore non l’aveva graziata, perché il dolore non risparmia nessuno, eppure lei gli si era sempre rivoltata contro, con il coraggio indomabile di una lottatrice che non vuole mollare, e mai, in nessun caso, in nessun evento della vita l’avevo vista abbassare la testa e rassegnarsi. Mai, neanche quella volta, quando le avevano portato via la sua creatura, per sempre.

    Anche allora la disperazione, la solitudine, la paura non l’avevano spinta in un angolo buio, a leccarsi le ferite. Anche allora mia madre aveva lottato come una guerriera e non si era arresa all’inevitabile, e quando il senso della perdita era stato così forte da riempire la casa deserta, mia madre aveva sperato e creduto che tutto sarebbe tornato come prima, e che la piccola sarebbe tornata a riempire il silenzio di quelle stanze vuote.

    Ed ora il tempo, solo quello, l’aveva messa all’angolo.

    Una vecchiaia efferata e tiranna l’aveva messa a sedere su quella sedia di ferro con le ruote, e le aveva spento gli occhi e corroso la vita.

    Fatta eccezione per il periodo relativamente breve in cui c’era stata la piccola e mio fratello Nico era ancora in casa con noi, io e mia madre avevamo vissuto sempre da soli nella casa del vicolo degli Spagnoli.

    Avevo tredici anni, era il 1938, la guerra era alle porte quando mio fratello maggiore, la pecora nera della famiglia, era stato chiamato alle armi, alla veneranda età di ventitré anni. In seguito aveva partecipato con onore a svariate operazioni della Marina Militare e poiché l’Arma si era rivelata il contesto ideale per gratificare il suo smodato narcisismo, là era rimasto anche dopo la guerra, finché non aveva pensato bene di metter su famiglia in un paese del nord Italia, distante centinaia di chilometri da Napoli, e da nostra madre.

    Dunque, il binomio madre-figlio e la condivisione in solitudine dello stesso spazio vitale non potevano che tradursi in un legame tormentato e indissolubile, legame che aveva condizionato tutta la mia giovinezza. Conseguenza inevitabile, questa, della mia condizione di orfano cui è rimasta solo una figura genitoriale, quella materna.

    Ad aggravare la situazione e rendere ancora più forti le catene che mi legavano a quella che è stata l’unica donna della mia vita per i miei primi venti anni, era il fatto che questa madre era una donna con gli attributi, all’epoca definita bonariamente dalla gente del vicolo la bersagliera.

    Tanto più che quel padre, che pure in qualche modo doveva aver contribuito alla mia presenza in questo mondo, io non l’avevo mai conosciuto, visto che il suddetto padre aveva pensato bene di morire prima della mia nascita.

    Così ero cresciuto con lei e solo con lei, compagno di viaggio delle sue vittorie, delle sue battaglie, delle sue cause perse e vinte. E lei lo era stata delle mie. Nel bene e nel male.

    Eppure migliaia di volte quando ero un ragazzino, l’avrei mandata volentieri a quel paese, lei che mi condizionava, che non me ne faceva passare una, che voleva trasformarmi in un soldatino. E più esigeva la perfezione da me, più mi divertivo a sfidarla, vestendomi come uno straccione quando mi voleva vestito come un bravo bambino, facendo filone a scuola senza preoccuparmi di nascondere le mie fughe, o semplicemente ridendo quando mi voleva serio e compunto o restando serio quando avrebbe voluto che sorridessi. Insomma, io e mamma eravamo in lotta continua, e questa guerriglia ci teneva vivi. Lei era il generale, io il soldato semplice promosso ad ufficiale in età adulta e, come ogni buon generale, mamma aveva insegnato al suo soldatino a non crollare mai davanti alle circostanze inaspettate della vita, a reggere il colpo senza mai lasciarsi andare all’inevitabile perché, come insegna il nostro Machiavelli che con tanto trasporto insegno ai miei apatici studenti, la fortuna è donna, e come tale aiuta i giovani e gli audaci e ama farsi mettere sotto.

    Ma negli ultimi anni il mio baldanzoso generale aveva perso il suo smalto. Mamma diventava vecchia, di una vecchiaia impietosa e maligna, e si stava impegnando con il suo coraggio di sempre nella battaglia estrema della sua vita. E in questo non potevo esserle di grande aiuto, se non con le mie visite quotidiane che pure mi costavano immensamente. Cercavo di starle vicino, ora che stava lottando per l’ultima volta. Ma il nemico di ora era il peggiore, l’aveva stremata nel fisico e nello spirito.

    Era questo che mi destabilizzava: vedere mia madre, l’araba fenice che risorgeva sempre dalle ceneri più forte e vitale di prima, abbattuta e spenta. La sua mente brillante che aveva perso la luce, gli occhi mangiati dalle rughe che non avevano più voglia di guardare il mondo, e le labbra, tirate da una smorfia fissa che voleva essere un sorriso quando vedeva me, l’unica cosa viva che le appartenesse ancora.

    Avevo dovuto metterla nelle mani di un’estranea, un’infermiera di professione che la tormentava con i suoi orari rigidi e le sue regole per una vita sana: Ve la rimetto al mondo io, vostra madre, lasciate fare a me! Avevo dovuto lasciar fare a quell’estranea, non avevo scelta, la mia vita era piena come quella di tutti i figli che sono costretti ad affidare le loro vecchie madri a una terza persona. È un meccanismo grottesco nella sua semplicità, una madre ti cresce e, quando diventi adulto, lei diventa vecchia e ha bisogno delle stesse cure che ti ha dato quando eri bambino e ti affidavi a lei per vivere. Un figlio dovrebbe poter ripagare una madre di quelle cure, e poterle preparare da mangiare, imboccarla, lavarla, vestirla, portarla a fare lunghe passeggiate al sole, e parlarle di notte quando ha paura. Aiutarla a vincere la paura come lei ha insegnato a te.

    Così dovrebbe essere, se le cose funzionassero in questa farsa tragicomica che è la vita. Non glielo avrei mai confessato neanche sotto tortura, ma a volte, quando arrivavo nella casa buia e la trovavo seduta in poltrona davanti a quel televisore più spento dei suoi occhi, mi veniva un’insana e patetica voglia: avrei voluto inventare per la mia mamma bambina una bella storia, una favola a lieto fine come quelle che lei raccontava alla piccola. Un figlio dovrebbe raccontare le favole a sua madre, quelle che finiscono con e vissero tutti felici e contenti... per farle dimenticare la morte e la paura del buio. E così, solo così, la vecchiaia avrebbe un senso, e sarebbe accettabile. Un cerchio che si chiude, il grano che si raccoglie in estate, e i vecchi che tornano bambini nelle mani di chi li ama. Con tutta la loro dignità.

    Invece no, maledizione, i figli non hanno tempo e non hanno coraggio. E forse si vergognano di aprire il loro cuore alle loro vecchie mamme bambine. Io, questo, non l’ho mai fatto con lei, neanche quando ero un ragazzo. Non so perché, ma credo di non averle mai detto che le volevo bene, a mia madre. Forse l’avevo sempre ritenuto superfluo, era evidente che la amavo. Forse me ne è sempre mancato il coraggio. Ma anche se quel coraggio l’avessi avuto, e non mi fossi vergognato di essere tenero con lei, ci sarebbero volute due vite per fare a pieno quello che sentivo mio dovere. Invece ne avevo una sola, di vita, e il tempo scivolava via più veloce delle rughe che cominciavo a vedere sulla mia faccia, e non ce la facevo, a prendermi cura di questa madre tornata bambina.

    E mi sentivo in colpa, e a disagio, perché la sua vecchiaia mi disorientava e mi intristiva, esattamente come disorientava e intristiva lei, che se la portava addosso come un cilicio. Avrei voluto liberarla da quel peso, e soprattutto avrei voluto consolarla e farla ridere, riaccendere i suoi occhi e farla arrabbiare come una volta, perché in questo sono sempre stato un maestro...

    E invece restavo lì, in piedi, con un sorriso ebete stampato sulla faccia mentre quell’estranea la portava in bagno, le faceva la doccia e la toccava senza amore.

    E sopra la spalla di quell’energumena incontravo gli occhi di mia madre, e quello sguardo un po’ rassegnato, un po’ incazzato e tanto triste mi sembrava un rimprovero. E avrei sbattuto la testa contro il muro per frantumare il mio senso di colpa, la mia impotenza, la maledetta energumena, e quella balorda vecchiaia che si stava portando via mia madre e sapevo che dopo toccava a me. E il cuore si spaccava in due.

    Una parte di me la voleva ancora mia madre, anche così, massacrata dagli anni, purché ci fosse ancora, lei che era le mie radici, perché senza di lei anche la mia vita di albero adulto e sano poteva essere spazzata via dal vento. Perché era questa la sensazione che mi piombava nell’anima quando mi immaginavo solo, senza più mia madre.

    La paura che il vento mi portasse via, che la terra non mi trattenesse più.

    Eppure, una parte di me desiderava che mia madre sparisse, per non continuare a vederla

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