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Forse una sera: Storie di un'italiana
Forse una sera: Storie di un'italiana
Forse una sera: Storie di un'italiana
E-book422 pagine6 ore

Forse una sera: Storie di un'italiana

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Info su questo ebook

La vita di ciascuno di noi è straordinaria, unica, irripetibile. Alcune vite però, per una serie di circostanze a volte casuali a volte ricercate, risultano “più straordinarie” di altre. È il caso di quella dell’autrice, che in questo libro ci guida in un lungo viaggio personale nel tempo e nello spazio, dagli Anni Trenta fino ai nostri giorni. Un percorso sorprendente e interessante, infarcito di ricordi, di riflessioni ma soprattutto di emozioni. Un’occasione imperdibile per i più anziani di rivivere fatti ed episodi che hanno segnato un’epoca, attraverso la voce di una donna che spesso ha avuto l’opportunità di conoscerne i protagonisti. Un testo utilissimo anche per i più giovani, che avranno la possibilità di capire come la Storia non sia qualcosa di astratto, ma una pianta che cresce di continuo, i cui rami, lo si voglia o meno, si intrecciano in modo inesorabile con le nostre esistenze.
LinguaItaliano
Data di uscita21 lug 2023
ISBN9791222426563
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    Anteprima del libro

    Forse una sera - Pupa Giusti

    Pupa Giusti

    Forse una sera

    Storie di un’italiana

    Forse una sera – Storie di un’italiana

    Pupa Giusti

    © 20 2 3 Aporema Edizioni

    www.aporema.com

    Le persone, le vicende e i luoghi citati in questo libro sono narrati attraverso la memoria dell’autrice, che non ha la pretesa di riportare l’esattezza storica o di cronaca e si scusa per eventuali omissioni o inesattezze.

    A Lucio, ai miei figli, ai nipoti, agli amici

    Forse una sera andando al lago

    Sono quella che sono. Un caso

    inconcepibile. Come ogni caso.

    In fondo avrei potuto avere altri antenati.

    La sorte finora mi è stata benigna.

    Poteva non essermi dato il ricordo

    dei momenti lieti. Poteva essermi tolta

    l’inclinazione a confrontare.

    Potevo essere me

    stessa – ma senza stupore e,

    ciò vorrebbe dire qualcuno di

    totalmente diverso.

    (Wislawa Szymborska)

    io stesso sovente

    considero il poco o nulla che so

    della mia vita,

    solo pochi accenni, qualche fioco

    e pallido indizio

    qualche traccia indiretta, che cerco

    di indagar…

    (Whitman, Walt, da Foglie d’erba)

    Nota dell’autrice

    Con questo libro di ricordi vorrei rendere più lucida la mente, che temo potrebbe offuscarsi, al punto da non farmi ricordare niente: la memoria diminuisce se non la tieni in esercizio. Mi serve inoltre per rivivere le storie di mia madre e quelle dei suoi parenti; storie a mio avviso interessanti, che in qualche modo mi hanno coinvolta. I parenti di mio padre erano stati banditi per sempre dalla nostra vita dal momento in cui lui se n’era andato.

    I congiunti, vivi e morti, sono importanti, rivivono dentro di noi gettandoci a manciate le loro ricchezze e i loro sortilegi, come sostiene Marcel Proust ne La Prisonnière. Formano, con i loro geni e le loro esperienze, le persone che siamo, così come noi contribuiamo a formare i nostri figli e nipoti.

    Perché scrivo, quindi? Alla ricerca dei tempi andati, per allontanare dalla mia mente le nebbie minacciose all’orizzonte, per cercare pezzetti che mi sono sfuggiti, per vincere la noia e, perché no, anche per divertirmi.

    Un imbroglio per allungare la vita, prefiggendomi lunghe scadenze. È questo l’intento e l’auspicio, non altro. Cerco di indagare e rammentare alcuni avvenimenti per tenere la mente ancora sveglia, dato che invecchio ogni giorno un po’ di più. E per scoprire quel che è stato, e quel che avrebbe potuto.

    Pupa Giusti

    Prologo

    Sono io quella bambina che salta su un piede solo, gli occhi luminosi e il cuore in festa? Quanti anni ho, cinque, sei? Ogni volta che chiudo gli occhi, impetuosi affiorano i ricordi.

    Mi vedo girellare felice accanto al portone, la mano sul muro per non perdere l’equilibrio. Salgo i gradini, mi infilo nell’ingresso, giro a sinistra e mi addentro nella grande sala da pranzo si usava di rado, solo quando arrivavano ospiti. Di colpo mi fermo. Davanti a me la stanza proibita , d o ve era impossibile entrare. Era la stanza di mio nonno. Ci si era barricato dentro dopo il fallimento e, per la vergogna, non ne era uscito più. Solo z ia Lina poteva entrare, ogni giorno, per portargli il vassoio con i pasti.

    « Non far chiasso » mi diceva, « non disturbarlo. »

    L o vidi solo una volta. U na mattina, mentre come al solito bighellonavo per casa, a ll’improvviso la porta si aprì e d eccolo lì: mio nonno! Terrorizzata, stavo per darmela a gambe, ma lui mi chiamò . La testa canuta, il volto, un triangolo grigio con occhi tristi: « Vieni, cicetta , non aver paura, avvicinati. »

    Parlava piano, con voce di bambino, mi diede una caramella e un buffetto.

    Qualche giorno dopo morì.

    Io avevo cinque anni, ma ricordo il suo sorriso mesto e mi rivedo, abitino di velluto nero e un gran fiocco nei capelli, al suo funerale.

    1

    Questa storia inizia nella mia prima, misteriosa, indimenticata casa. Qui affondano le mie radici più profonde. Qui ho cominciato ad aprire gli occhi, nel vero senso della parola, a vedere me stessa e gli altri.

    Per qualcuno è solo un domicilio, per me un pezzo della mia vita. Oltre a vestiti, mobili e libri, custodisce i ricordi delle ore trascorse, degli avvenimenti e delle persone che l’hanno abitata con me.

    Nella mia lunga esistenza ho vissuto in molte case. Abbandonare la prima, amatissima, fu però una ferita nell’anima. Letteralmente. Qualcuno ha detto che non usciamo mai davvero di casa, la portiamo con noi, ovunque andiamo.

    Da un grande, antico portone, si entrava in un passaggio con un arco a volta allungata, che si apriva su un grande cortile rettangolare. Acciottolato, guarnito d’edera e profumato di gelsomini. A sinistra e a destra di questa sorta di tunnel c’erano le cantine. La nostra, testimone di pezzetti rilevanti del puzzle della mia vita di bambina, occupava tutto il fianco destro. Sul muro corto, contiguo, lo spazio era dedicato ai lavori degli abitanti delle case vicine , che a turno accendevano un 3 fuoco sotto il grande caldaio, sempre appeso a un gancio, o ppure usavano la tinozza, messa lì accanto.

    Di fronte alla cantina, al piano terra del lato lungo, si trovavano due abitazioni: nella prima viveva da solo u n ciabatti no; n ell’altra la numerosa famiglia di Giovanni – un omaccione con un occhio di vetro, che gestiva un bar in piazza dell’Obelisco – e della moglie Dorina, piccola e grassa, con una stretta treccia nera attorcigliata sul capo. Avevano cinque figli: Sofia, Liana, Orietta, Morella e Fausto.

    Di seguito, salendo tre scalini, si arrivava al portone del mio appartamento, che era al primo piano. Nell’ultimo alloggio, preceduto da un oscuro androne, abitavano Vinicio, un carpentiere bergamasco, spesso brillo, sua moglie Agata, lunga e secca, e le loro tre figlie, Anita, Lorenza e Maria. Nel versante opposto, i quattro appartamenti si affacciavano sulla piazza.

    Sull’altro lato corto, spiccavano le aiuole orlate di fiori. I gelsomini, il cui profumo inebriante filtrava nelle case dalle porte e dalle fessure delle finestre, si arrampicavano sulle mura della casa che dava sul vicolo. La proprietaria, una vecchietta raggrinzita e pettegola, era vittima dei dispetti di tutti.

    Per me era un luogo bellissimo, che si apriva al cielo, anche se mancavano alberi e panchine come avrei desiderato, e al sole, che lo attraversava svelto solo la mattina. Era animato soprattutto da zia Lina, ma anche da me e dalle ragazze che vi abitavano.

    La mia casa.

    Amata e misteriosa. Undici ampie stanze. Tre al piano di sopra, non rifinite, che fungevano da soffitta. Le chiamavamo semplicemente il pesele . L’abitavo con mio padre, mia madre, mio fratello, più grande di me di sei anni, mio nonno e una zia nubile. Erano gli anni Quaranta.

    Adoravo mio padre. Gli occhi neri, profondi e ridanciani, le labbra orlate di baffi che mi solleticavano le guance, un’incipiente calvizie. S empre dolce e gentile.

    Dormivo in un lettino accanto al lettone dei miei genitori e la mattina dei giorni di festa, dopo che mamma si era alzata per preparare la colazione, mi rifugiavo tra le sue braccia.

    « Vieni qui, accanto a me » mi diceva. Mi coccolava, mi accarezzava i capelli, mi raccontava storie vere e inventate. Di quando era ragazzo, di quando era in guerra, del suo soggiorno in Africa. Erano i momenti più belli. Il giorno cominciava in piena beatitudine. Indossavo le collane d’avorio, i bracciali, i monili di filigrana che mi aveva portato dal continente nero e fingevo di essere la sua principessa. Allora lo ero davvero.

    Si chiamava Osvaldo, mio padre, un bell’uomo socievole e brillante, erudito. Ma era un accanito giocatore d’azzardo e uno sciupafemmine, come si diceva in quei tempi. Aveva amanti da tutte le parti. Fingeva di avere appuntamenti di lavoro e andava alla ricerca di donne facili. Fascista convinto, aveva partecipato alle guerre di Spagna e d’Africa, era stato ferito e decorato, era perciò un eroe di guerra.

    Al contrario, mia madre Amalia, detta Lia, era repubblicana. Bella, colta, intelligente. Era vissuta a Roma per qualche anno, con l’intenzione di iscriversi all’università ma, bruciata dalla R iforma Gentile [1] , era rimasta una semplice maestra. Tuttavia faceva il suo lavoro con grande dignità e bravura. Nel periodo bellico aveva trasformato in aula una stanza della nostra casa e insegnava lì, per non lasciare soli i suoi amati alunni. L’analfabetismo [2] in quegli anni era una piaga molto diffusa nei piccoli borghi e, come sosteneva lei, andava combattuto .

    Ricordo quei ragazzini, troppo grandi per frequentare le elementari, malvestiti e sgraziati, aggirarsi per casa con aria smarrita.

    Lei non era fascista, separata dunque dal marito anche negli ideali politici. Non aveva mai voluto comprarsi una divisa, che allora era obbligatoria, e se doveva sfilare alle parate e indossarla, dalle amiche si faceva prestare qualche capo, che le stava sempre troppo stretto o troppo largo. Era una donna di sani principi, di adamantina virtù che, pur amandolo, non accettava un uomo dalla vita tanto sregolata.

    I miei nonni paterni, espatriati in America [3] con uno dei figli, avevano incautamente affidato a mio padre terre, frutteti, alberi e casali: in pratica tutti i loro beni, perché li amministrasse. Ma lui era un giocatore temerario e sconsiderato e, in breve, era riuscito a dilapidare il patrimonio. In una sola notte, aveva perso a poker addirittura un querceto. Venduti tutti i beni – a eccezione della casa paterna, di piccoli appezzamenti di terreni coltivati a grano e di sparuti alberi da frutta – era sul lastrico e pieno di debiti.

    Avevo sei anni quando scoppiò un grande scandalo: papà aveva un’amante, la moglie del suo avvocato. Una gran bella ragazza, madre di due bambini. Ne aveva anche un’altra, di amante, che, gelosa, mentre i giocatori erano intenti con le loro carte, aveva infilato, nel cappotto del marito tradito, un biglietto in cui denunciava l’inganno. Lo scandalo fu inevitabile e la signora cacciata. A quei tempi mio padre dovette testimoniare in un processo a porte chiuse e mamma, umiliata e piena di disagio per i tradimenti del marito, non uscì più, se non per recarsi a scuola, a pochi passi da casa. Dopo quello scandalo papà trovò lavoro in un altro paese, ebbe numerose scappatelle qua e là, finché – avevo appena quindici anni – ci lasciò per una ragazza di poco più grande di me e se ne andò a vivere con lei. Mamma non seppe impedirlo. Non l’ho mai perdonata. Novella Ermengarda, si sentì ripudiata e si chiuse in un mondo tutto suo, in un doloroso silenzio, straniata e incattivita.

    Anni dopo ho incontrato quella signora, l’amante, a casa di uno dei suoi figli che era mio amico, con un nuovo compagno; era benvoluta e riverita da tutti. L’avvocato, il suo ex marito – grazie alla legge sul divorzio [4] , tanto vituperata in seguito da mia ma dre – nel frattempo aveva sposato una minorenne.

    N on conoscevo i miei genitori. Salvo per alcuni aneddoti che a loro modo mi narravano, non sapevo chi fossero in realtà. Poco a poco ho scoperto tante storie sul loro conto. Non avevano niente in comune. Lei era fiera, dignitosa, con un forte senso del dovere. Lui non sopportava vincoli, era egoista e, come già detto, gli piacevano molto le donne.

    La mia infanzia è stata triste e dolorosa. Il rapporto tra mamma e papà peggiorava, a volte litigavano per tutta la notte. Non si accorgevano che li sentivo, credevano che mi fossi addormentata. La testa coperta dal lenzuolo, le dita nelle orecchie, restavo sveglia per molte ore, disperata, immobile nel mio lettino, atterrita dall’idea che si separassero.

    Per favore, smettetela, fate pace, pensavo .

    Non smisero. Come temevo, la mia famiglia andò all’aria.

    Una sera mio padre rincasò ubriaco. Lo sentii gridare a mamma parole cattive e minacce. Vidi mio fratello correre verso il cassetto che conteneva i coltelli e chiuderlo a chiave.

    Sommessamente, mia madre, in fondo alla stanza, il vestito a fiori strappato, piangeva.

    Sgomenta, rimasi per qualche istante come paralizzata: intuivo che stava succedendo qualcosa di irrimediabile. Strinsi i denti per non piangere, presi la mano di papà – che nel vedermi si era calmato – lo condussi nel pesele, la soffitta, e gli tolsi gli stivali che portava sempre. Rimase accovacciato lì per tutta la notte. Mentre dormiva, andai ad affacciarmi all’abbaino, avevo bisogno di respirare. La vista del paese, illuminato da luce fioca, riuscì a frenare il battito del mio cuore.

    Per tutta la notte gli restai accanto.

    Da quella orribile sera, la mia famiglia andò a rotoli.

    Le ossa mi fanno male di notte, se c’è umidità. Se il dolore mi impedisce di dormire, mi alzo, cerco a tentoni la mia poltrona, accendo la luce e comincio a pensare, a parlare con i fantasmi.

    Mi è venuto il desiderio di scrivere, ora che sono sola e ormai vecchia, perché Diletta, un’amica ritrovata dopo anni, mi ha inviato un video e una cartolina del paese dove sono nata, con la piazza dell’Obelisco, sulla quale si affacciavano le mie tre finestre, sempre in primo piano.

    La mia bella e misteriosa casa! È tutta dipinta di rosso, un rosso acceso, che mette allegria; ma non è più lei e quel colore si addice poco a una piazza di origini medievali. Ed eccoli là, fantasmi dimenticati, alcuni rimossi, tutti i miei ricordi. L’aver rivisto la mia casa ha scatenato tanti flashback e riavvolto la mia vita, evocando avvenimenti del mio passato.

    Perché sto scrivendo? Per dare un senso alla mia vita? Per lasciare memorie di me ai miei figli, che non so neppure se mai le leggeranno? Oppure per fermarle, prima che scompaiano per sempre dalla mia mente? Scripta manent.

    Nel cortile, salivo tre gradini di ferro all’esterno, aprivo il portone e mi arrampicavo sui diciassette alti e sconnessi scalini all’interno della casa. Arrivavo nell’ingresso con la volta di cemento armato, dove si rifugiava mia madre, quasi per proteggersi, se sentiva i tuoni che annunciavano il temporale. Aveva quest’abitudine da quando, appena quindicenne, aveva assistito terrorizzata al drammatico terremoto della Marsica, nel 1915. Uno spaventoso movimento tellurico che aveva devastato la regione e distru tto tutti i paesi vicini, risparmiando per buona sorte il mio. La terra si era spalancata inghiottendo case uomini alberi montagne animali, ogni cosa. Mamma lo riviveva a ogni minima scossa , gli occhi ancora pieni di orrore.

    Quando si era verificato il sisma, lei e ra ospite di una zia, in uno dei borghi devastati. Un boato e tutto aveva cominciato a tremare. I cani abbaiavano furiosamente, gli animali erano inquieti, il lampadario oscillava, il pavimento si spezzava, le mura crepavano e si sgretolavano. La zia aveva avuto la prontezza di scaraventare mia madre lontano, oltre lo steccato, sui prati. Voltandosi, mamma aveva visto la casa crollare come fosse di carta e seppellire tutti, tra macerie, nuvole di polvere e pietre che volavano. Aveva perso i sensi ed era stata salvata da volontari accorsi in aiuto. Era stata l ’unica a sopravvivere.

    All’epoca mio nonno materno, Sergio Gamboni, proprietario terriero ed erudito studioso di latino e greco, aveva ereditato i beni di tutti i parenti deceduti a causa del sisma. Era così diventato all’improvviso molto ricco. La nuova ricchezza però era avulsa d alla sua vita reale, che si svolgeva sui libri da quando la bella e nobile moglie, Enrichetta Riccardi, sposata appena sedicenne, dopo aver messo al mondo sei bambini, due maschi e quattro femmine, lo aveva lasciato solo. Colpita dalla Spagnola , una terribile pandemia che aveva provocato moltissime vittime.

    Mentre i suoi figli, che avrebbero potuto consigliarlo, erano lontani a studiare, mio nonno fu raggirato e derubato da scaltri amici avvocati. Lo convinsero a investire in una fabbrica di mattoni perché, sostenevano, in tempi di ricostruzione avrebbe fruttato una fortuna.

    Non so bene come andò quella storia, ma, al di là delle aspettative, fallì. Il nonno perse tutti i suoi beni, anche la grande villa, appena fuori del paese, dove viveva, e si rifugiò nell’appartamento in piazza. Lo aveva sottratto ai creditori, insieme con un podere sul colle e alla cappella mortuaria di famiglia, grazie a una falsa vendita in favore del genero Domenico, il marito sgradito di Vittoria, sua prima figlia. Il patto, con scrittura privata, era che costui dovesse restituire tutti questi beni ai maschi, Angelo e Claudio, emigrati in America dopo il tracollo del padre, qualora fossero tornati.

    Rimanemmo sole nella mia casa in piazza , mamma, zia Lina e io. Mio fratello era andato a Roma a studiare, papà ci aveva lasciati e il nonno era volato in cielo. Lì sono cresciuta, lì ho cominciato ad accumulare sensazioni e memorie.

    Mio zio, bontà sua, ci aveva permesso di restare perché povere e abbandonate. Senza alcun restauro, la casa negli anni diventava sempre più fatiscente e per me, piccola, molto misteriosa.

    I ricordi, prima sbiaditi, si fanno via via più vividi.

    Che stanchezza!

    Dopo essermi girata e rigirata nel letto, mi decido.

    Devo alzarmi. A fatica, mi preparo e vado a fare una passeggiata nel parco. È primavera, i prati sono fioriti, tutto è verde. Seduta sulla panchina, torno indietro nel tempo.

    A un tratto mi rivedo bambina.

    In bicicletta, con l’abito giallo e il grande cappello di paglia, raccolgo violette e violacciocche per Gesù morto, disteso sanguinante sulla sua barella. Quanto l’ho amato, quanto ho pianto per i suoi patimenti! Rammento la Madonna seguirlo, vestita tutta di nero, con una lacrima sul viso bianco e un fazzoletto di merletto in mano.

    L’adorata processione mi affiora alla mente, quella del venerdì di Pasqua, che mi ha lasciato un segno indelebile oltre a un’affascinante sensazione di mistero. Rivedo i babalosci , uomini con un cappuccio nero, i fedeli con le torce accese nella not te. Sento ancora la banda suonare la Marcia F unebre di Chopin.

    Allora avrei voluto un simile funerale anche per me.

    Oggi ho cambiato idea. Il mio corpo andrà, quando verrà il momento, alla facoltà di Anatomia, per gli studenti che devono indagare i segreti e le malattie degli uomini – scarseggiano i cadaveri per la ricerca, bisogna comprarli all’estero – con il patto che i miei miseri resti siano cremati e le ceneri consegnate ai miei figli. Insieme a quelle di mio marito, le verseranno nell’amato lago di Bolsena.

    Tutta la nostra vita si svolgeva nella cucina.

    Una grande stanza, il soffitto a cassettoni, un lavandino in un angolo con acqua corrente e mattonelle blu, un camino del settecento, ampio tanto da contenerci tutti e scaldarci. Era l’unica fonte di calore dell’intera casa, dove il freddo era davvero intenso. Se alla sera mettevi un bicchiere d’acqua sul comodino, al mattino lo trovavi pieno di ghiaccio.

    Era indispensabile anche per cucinare, il camino. Il fornelletto a carbone, messo lì accanto, con i ciocchi di riserva stipati sotto, serviva solo per fare il caffè o scaldare qualcosa al volo. Un grande paiolo di rame era appeso per il manico a una catena con un uncino ricurvo. Al centro, sulla brace ardente, c’era un treppiede, su cui si poneva una teglia con le vivande da cuocere: carni o verdure o patate o torte. A mo’ di forno si copriva, ricolmo di carboni accesi, con il coppo, il coperchio tradizionale abruzzese, usato per la cottura di alimenti con la brace. Meravigliosi sapori e profumi, ricordi del palato e dell’olfatto. Ancora oggi mi fanno venire l’acquolina in bocca!

    Mia zia, abilmente controllava la cottura.

    Ai lati, tra i due alari con il pomello d’ottone, c’era lo spiedo, mirabile strumento su cui si infilzavano grossi pezzi di carne: un maialino, un pollo, anguille o capitoni e salsicce di maiale o di fegato, che veniva fatto ruotare sul fuoco. Lentamente.

    Una volta alla settimana, come nel Far West, si allestiva in cucina una tinozza per il bagno: nel nostro mancava la vasca.

    Dopo cena mi assaliva l’ansia: « Vai a dormire, che è tardi » mi imponeva mamma. Dovevo andare a letto da sola, percorrere un corridoio e incrociare, sulla destra, il salotto buono , la stanza più misteriosa di tutte. Anche solo da fuori mi incuteva una grande paura. Non aveva finestre, prendeva luce da un lucernario e, se pioveva, il ticchettio incessante delle gocce, i bagliori dei lampi, il fragore dei tuoni, mi trasportavano in un antro di streghe. Una sontuosa tenda di broccato verde scuro, con mantovana, celava una seconda porta che si apriva sulle scale. Un’ étagère, con appoggiato sopra un enorme specchio incorniciato, era zeppa di soprammobili d’argento e di cristallo. Lo spavento più grande però me lo suscitavano le fotografie dei parenti defunti. Ben allineate sul piano bianco di marmo di un tavolo rotondo, erano illuminate dalle fiammelle tremolanti dei ceri votivi, sempre accesi. Per di più, la stanza aveva il pavimento che oscillava a ogni passo: i bicchieri del servizio buono, chiusi nella cristalliera, tintinnavano con un suono sinistro. Passare lì davanti mi metteva un tale spavento che correvo, temendo di essere inseguita da quei fantasmi, per rifugiarmi nel letto, come avessi le ali ai piedi. Lì faceva un freddo cane . Chissà perché si dice così? [5] Invece di spogliarmi, mi vestivo. Mi coprivo alla bell’e meglio con quello che potevo e mi infilavo sotto le coltri con tutto il prete [6] , uno strumento formato da quattro lunghi bastoni tenuti insieme da due tavole con ripiano metallico; su una si poneva una terracotta riempita di braci ardenti e cenere.

    Infilavo con me i vestiti che avrei indossato l’indomani, per scaldarli; anche le calze, perché al mattino la stanza e il pavimento in cotto a losanghe bianche e nere erano gelidi. Mamma aveva inserito tra le lenzuola il prete con la sua bacinella e io, ormai di marmo, piano piano mi scaldavo e mi addormentavo, senza neanche toglierlo. Veniva poi lei a sfilarmi adagio tutto quell’ambaradan e mi rimboccava le coperte.

    Appena sveglia, specie dopo le giornate di pioggia, mi aspettava una gradita sorpresa: il soffitto di carta presentava numerose gore. In ognuna, nella mia fantasia, vedevo un vecchio barbuto o un bimbo in lacrime o una mucca o una nave, sulla quale veleggiavo verso lontani lidi, magari caldi. Mi divertivo a ravvisare figure in quelle macchie d’umidità, era come leggere un fumetto.

    Dopo questa lunga descrizione accuso un po’ di stanchezza, devo fare una sosta, ma sorridendo penso: Meno male che oggi ho una magnifica coperta elettrica!

    Ora però è cominciato il caldo, l’afa si fa irrespirabile, in men che non si dica sta arrivando l’estate.

    Servirebbe adesso un po’ di quel freddo!

    Be’, come dice il poeta, riprendo il fardello dei miei ricordi e ricomincio a scrivere.

    Le stanze in piazza.

    In fondo al lungo corridoio che partiva dalla cucina c’erano tre stanze, rivestite di carte da parati con strisce, losanghe o fiori bianchi e grigi, qua e là strappate o sbiadite dal tempo. Si affacciavano su una grande piazza, circondata da palazzi d’epoca. Al centro, una fontana ottagonale, sormontata da un antico obelisco, da cui trae il nome.

    Nella prima stanza a destra – dove sono nata, il parto era avvenuto in casa – dormivamo mamma e io. Era l’unica arredata con mobili liberty, che lei aveva comprato quando si era sposata. Fregi in legno e bronzi, un grande letto con testiera intarsiata, un armadio, una cassettiera, l’immancabile toletta con un grande specchio incorniciato, poltroncine imbottite ricoperte di raso, geniali lampade Tiffany formate da centinaia di pezzetti di vetro colorati. Accanto al letto grande, il mio lettino.

    Nella stanza di mezzo c’era il soggiorno. Al centro, il tavolo rotondo in massello di noce, le sedie Luigi Filippo e un secretaire con cassetti segreti. In un angolo, una stufa di terracotta decorata, bella, ma inservibile perché faceva fumo.

    Nell’ultima camera, arredata con un comò in piuma di noce e zampe di leone, comodini uguali, un armadio a doppie ante, dormivano mia zia e mio fratello. I mobili, molto preziosi, provenivano dalla villa del nonno.

    La sera, gli alti zampilli di acqua perenne della fontana mi accompagnavano con il loro sciabordii nella ricerca del sonno.

    Non dimentico il mio amato pesele, come chiamavo io la soffitta. Vi accedevo da una porta nel corridoio, accanto a quella del bagno, che era un gabinetto, in realtà. Freddo, una vera ghiacciaia, con una piccola finestra sulla parete che dava su un vicoletto. D’inverno dovevo andarci con una trapunta per coprirmi le gambe e un braciere di legno dal bordo di ottone, pieno di carboni accesi.

    E niente vasca o doccia.

    Nell’antibagno, appoggiati a un trespolo di ferro, un catino e una brocca di maiolica fiorita stavano davanti a uno specchio. Qui, al mattino, ci si lavava, rabbrividendo in inverno, e ci si pettinava.

    Il pesele.

    Per mezzo di una scala che portava al secondo piano, arrivavo finalmente al mio rifugio preferito. Tre stanze, intonacate e pavimentate, non rifinite, e molte altre nel sottotetto, dove camminavi sulla sabbia. Culminavano in un abbaino con una vista mozzafiato: una panoramica della piazza, di prati verdi oltre i tetti, dell’infinito.

    Nella prima di queste stanze leggevo i miei libri proibiti , lavoravo a maglia piccoli golf per le bambole e poi, divenuta esperta, per me. Era il mio rifugio. L ì ero sola, lontana dalle liti sempre più frequenti dei miei genitori, dal rumore delle stoviglie infrante, delle porte sbattute. Lì potevo fare quel che più mi andava.

    L’avevo arredata con una sedia e un vecchio tavolino traballante, sul quale tagliavo pezzi di stoffa che si trasformavano in graziosi e originali vestiti. Non avevo alcuna esperienza, ma avevo capito che potevo ricavare i modelli da un mio vecchio abito. Le pezze le prendevo da tre bauli abbandonati in quel posto , che contenevano, oltre alle coperte riposte, divise militari, abiti da sera ricamati e piume e altre meraviglie. C’erano pure un vecchio manichino senza testa, molto utile per i miei lavori, e scatole di vecchi libri. Una meravigliosa macchina Singer a pedale completava l’arredamento.

    Lì mangiavo le mele sane.

    Le altre due stanze fungevano da dispensa. In una, distese sulla paglia a maturare, c’erano pere e mele – tra le altre una varietà che non ho mai trovato nei vari mercatini rionali, le mele limone o limoncelle , giallognole e allungate, con un sapore acidulo, simile a quello degli agrumi.

    Mia madre all’ora di pranzo mi diceva: « Va’ su, prendi la frutta toccata prima che marcisce. » La portavo a tavola, quella toccata. Io mangiavo le mele sane!

    Nella terza stanza c’erano i sacchi di grano e di granturco destinati al mulino per la farina, le ceste di noci, mandorle e nocciole che i pochi contadini rimasti, ormai sempre più di rado, portavano a mamma. Vivevano su quelle terre fin dai tempi di mio nonno paterno con un contratto a mezzadria , il che significava che lavoravano la terra, curavano gli alberi, allevavano gli animali e il ricavato veniva diviso a metà. Spettava al padrone, tuttavia, sostenere le spese per comprare le granaglie da seminare, i concimi, i cuccioli. Mia madre però non aveva soldi e dopo varie discussioni i contadini non si videro più. A detta loro non c’era stato alcun raccolto, né animal i da dividere. Finirono così le distese di frutta, i sacchi di grano e le ceste di gusci. Quando chiesi a mamma: « Dove sono le mele? Perché non siamo ricchi? » Lei mi guardò, uno sguardo triste. Poi, di nascosto, s i asciugò una lacrima con una manica. « Il denaro non è tutto. Non preoccuparti» mi rispose.

    Mi rifugiavo nel pesele anche perché all’inizio ero ingenua, fragile di fronte alle difficoltà della vita, alla cattiveria degli adulti che volevano distruggere ogni mia spensieratezza. Volevano che uniformassi i miei comportamenti alle loro idee e ai loro stili di vita. In quel nascondiglio diventai forte, imparai a difendermi, a non lasciarmi sopraffare, a infischiarmene delle convenienze e a rimanere me stessa. A buttarmi con forza nella mischia.

    Pur non essendo mai ricorsa a una terapia di psicoanalisi, ho cercato per tutta la vita di guardarmi dal di fuori, di analizzare il mio inconscio, di scoprire qualcosa di me e dei miei sentimenti.

    Un primo trauma mi segnò quando scoprii – mi fu rivelato direttamente da mamma un giorno che era irata con me – che non ero il frutto dell’amore, ma un non riuscito tentativo di tenere insieme una coppia lontana anni luce. È raro che un figlio unisca due persone che non si amano. Accade più spesso che si dividano ancora di più, come è accaduto nel mio caso.

    Un altro shock l’ho avuto quando ho scoperto un secondo tentativo di usarmi: mamma vedeva di buon occhio il feeling che c’era fra di noi ed era convinta che papà, per amor mio, non se ne sarebbe andato via. Non mi perdonò mai di non averlo convinto a tornare. In definitiva, ci siamo accusate per anni della stessa colpa, non ci siamo amate per un uomo che non ci amava e che ha abbandonato entrambe.

    Il cortile.

    Scendevo a giocare e chiacchierare con le ragazze che lo abitavano e con quelle che venivano dal vicolo. Mi piaceva molto il cortile.

    Assistere insieme all’uccisione del maiale diventava eccitante. I contadini, che l’avevano allevato, legavano le zampe divaricate della bestia a degli appositi uncini sulla porta della nostra cantina e la squartavano. Tolte le interiora, la lasciavano tutta la notte, con una bacinella sotto al muso per raccogliere il sangue e farne il sanguinaccio. Un dolce meraviglioso; quello venduto nei vari negozi non era mai così buono. Un norcino specializzato preparava prosciutti, salami, salsicce e altre bontà. Io adoravo quelle di fegato, dolci. C’era un gran via vai e noi eravamo lì ad aiutare e assaggiare. Un cortile davvero animato. Noi ragazze eravamo molto legate e complici.

    Fare il bucato era un avvenimento. Il giorno stabilito, piene di entusiasmo, dirette da z ia Lina, eravamo tutte pronte a collaborare. Sofia, alacre, riempiva d’acqua il grande caldaio di rame, il manico di ferro ad arco appeso al gancio nell’angolo del cortile. Lidia, seria e impettita, reperiva la cenere – zia riteneva che la cenere fosse più efficace di qualsiasi candeggina – io e Morella trasportavamo la legna e i cesti della biancheria sporca. Orietta, il viso rosso e i capelli scarmigliati, accendeva il fuoco. Appena l’acqua bolliva, aggiungevamo il bucato, lo lasciavamo immerso in quella poltiglia per tutta la notte. Al risveglio, dopo averlo sciacquato, lo sciorinavamo al sole. Tutte partecipavamo ai lavori in allegria.

    Ricordo vagamente piccole storie.

    Una mattina, mentre giocavo a campana con Morella, sentimmo urla, rumore di piatti rotti, di porte che sbattevano.

    « Che vergogna ! » si lagnava Dorina, l a m adre . « Ora d evi sposarti subito. »

    « Dov’è quel mascalzone? » gridava il padre, e giù botte e strilli.

    Scoprimmo che Sofia, una ragazza esile, bruttina, sempre insieme a Diego, il fidanzato biondastro e segaligno, aspettava un bambino. La domenica successiva, in gran fretta, si celebrò la cerimonia di nozze. Fummo tutti invitati. Una grande tavolata venne allestita nel cortile. Il pranzo rasserenò gli animi con cibi casalinghi, buon pane e brindisi. Il vino animò la compagnia; alla fine eravamo contenti e sollevati.

    Sofia ci lasciò per la sua nuova vita.

    Fu poi la volta di Lidia, la mia babysitter, di prender botte. Contro il volere del padre frequentava il garzone di un fornaio. Era la più bella, Lidia, il viso dolce e lo sguardo intelligente, vestiva sempre

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