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Piccole donne in cucina: Scene di vita familiare nel capolavoro di Louisa M. Alcott
Piccole donne in cucina: Scene di vita familiare nel capolavoro di Louisa M. Alcott
Piccole donne in cucina: Scene di vita familiare nel capolavoro di Louisa M. Alcott
E-book164 pagine2 ore

Piccole donne in cucina: Scene di vita familiare nel capolavoro di Louisa M. Alcott

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Nella vita domestica della famiglia March, ritratta nel capolavoro di Louisa May Alcott, Piccole donne, e nel suo seguito Piccole donne crescono, non mancano pagine esilaranti sugli esperimenti ai fornelli, volonterosi e problematici, di Jo e di Meg come sugli inviti a pranzo, in grande stile ma sfortunati, della piccola “lady” Amy, mentre solo la timida Beth sembra trovare soddisfazione nell’attività casalinga, tanto da meritare dalle sorelle l’appellativo di “angelo del focolare”.
La vita in casa March offre però un’immagine alquanto idealizzata di quella che fu la vita della Alcott e dei suoi famigliari, travagliata dalla povertà e messa spesso a repentaglio dall’esagerato idealismo del padre. Quell’Amos Bronson radicalmente vegetariano, maniaco di uno stile di vita ispirato ai canoni della “purezza” di anima e corpo e tutto preso dalla necessità di propagandare le sue convinzioni filosofiche in giro per il mondo, a costo di trascurare il benessere di moglie e figlie.
Ripercorrendo i punti salienti del duplice romanzo e della vita della sua autrice, il tema del cibo affiora in questo libro nella sua quotidianità e viene indagato nella sua specificità storica, con il recupero di molte ricette in uso nella cucina statunitense dell’Ottocento (rese tuttavia di facile attuazione anche oggi) e in particolare di quella tradizionale del New England, dove visse la famiglia Alcott e dove sono ambientate le vicende delle quattro sorelle March.
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2013
ISBN9788865800539
Piccole donne in cucina: Scene di vita familiare nel capolavoro di Louisa M. Alcott

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    Anteprima del libro

    Piccole donne in cucina - Elisabetta Chicco Vitzizzai

    Quelle piccole donne tanto amate

    "'Un Natale senza doni non è Natale' brontolò Jo, sdraiata sul logoro tappeto". È l'incipit di uno dei libri più famosi che siano stati scritti: Piccole donne (Little Women). Chi da bambina o da ragazza non l'ha letto? Un libro che ha cavalcato i secoli e che ancora oggi a 140 anni circa dalla sua pubblicazione continua a essere divorato da legioni di ragazzine, ora amato ora messo in discussione, mai indifferente.

    Apparve in due volumi, costituenti una prima e una seconda parte (Little Women e Good Wives), nel 1868 e nel 1869. Da noi le due parti furono considerate romanzi a se stanti, che furono intitolati rispettivamente Piccole donne e Piccole donne crescono. Io li lessi a otto anni, ma poi li rilessi un'infinità di volte fino al termine della scuola media, imparandone a memoria intere frasi, ricordandone ogni minimo dettaglio. Mi piacevano tanto le quattro sorelline March – Meg, Jo, Beth, Amy – che convivevo con loro. Per me erano le quattro ragazzine della casa di fronte, di cui sapevo tutto, i caratteri, le afflizioni, le speranze, e ogni notte, prima di addormentarmi, fantasticavo su di esse, davo loro volti e voci e immaginavo altre storie che le vedevano protagoniste. Storie simili a quelle che vivevo io e che non erano poi né tanto diverse né migliori delle loro. Come capita a qualsiasi bambina vera che viva nella casa di fronte – una casa qualsiasi né bella né brutta come era appunto la mia – non c'era nulla di magico nelle loro vite, i giorni scorrevano nella più normale quotidianità, ma allo stesso tempo nulla di quello che accadeva era mai banale o poco interessante. Era la vita, con le sue noie più o meno grandi e le sue soddisfazioni anch'esse più o meno grandi. Ma con sempre qualche accadimento, che ora portava dolore ora gioia, o con problemi che a prima vista sembravano irrisolvibili ma che poi, affrontati con pazienza e coraggio, arrivavano a soluzione. Nelle loro vicende trovavo un termine di paragone perché, come me, erano ragazzine che crescevano lungo un percorso più o meno accidentato, imparando a stare su da sole, a diventare autonome compiendo scelte corrispondenti alla propria più profonda natura, a prepararsi alla vita adulta scoprendo se stesse e il mondo.

    Non c'era facile ottimismo, ma c'erano speranza e fiducia e capacità di reagire alle contrarietà e di superarle contando sulle proprie risorse di volontà, di coraggio, di pazienza, di tenacia. E ritrovarmi nella serenità della loro famiglia alla fine di ogni giornata fu per tanto tempo un modo per darmi tranquillità e fiducia.

    Quei libri mi piacevano anche perché negli anni in cui li leggevo e rileggevo si pativano ancora i disagi e le fatiche del dopoguerra e le sorelle March non vivevano affatto nel lusso e neppure nell'agiatezza. Vivevano anche loro in anni di guerra e dovevano lavorare o andare a scuola, e scontrarsi con i bambini antipatici e viziati a cui facevano da baby-sitter o con una vecchia zia bisbetica a cui erano costrette a tenere ogni giorno compagnia o con un maestro di scuola severo che per punirle usava la bacchetta. Le cose che potevano capitare a chiunque, per quanto spiacevoli fossero. Perché Piccole donne non ti faceva evadere in un mondo di sogno, ti offriva invece l'esempio di come affrontare la realtà nei momenti difficili e allo stesso tempo mostrava che la serenità non andava perduta neppure nelle circostanze più tristi, come quando il papà torna dalla guerra ammalato o invalido o quando muore una sorellina che hai tanto amato. Perché la vita, senza miele e senza occhiali rosa, è questo: né sempre commedia né sempre tragedia, ma un'alternanza di gaie risate e amari pianti, di giornate nere e di ore felici. E mi piaceva che le quattro ragazze March avessero età e caratteri e sogni e destini diversi e che fossero circondate da persone – la mamma, la domestica Hannah, il giovane vicino di casa Laurie e il suo vecchio, burbero nonno – dai tratti solidi e concreti, proprio come le persone vere. C'era Meg, che aveva già sedici anni ed era la maggiore, dolce e saggia e tranquilla, ma che sapeva recitare. C'era Jo, che di anni ne aveva quindici e che, all'opposto di Meg, era una specie di maschiaccio dal carattere impulsivo e ribelle, ma che amava sopra ogni cosa leggere e scrivere. C'era Beth di tredici anni, piena di tenerezza per tutti e che suonava il piano con passione, c'era la dodicenne Amy, la piccola di casa, un po' smorfiosetta ma anche molto buffa e con una grande attitudine al disegno. Come Jo anch'io adoravo leggere e come Amy da sempre disegnavo e come Beth cercavo di imparare a suonare il pianoforte e come Meg mi piaceva prendere parte alle recite.

    So che la maggior parte delle lettrici ha finito per preferite Jo (alta, magra, bruna, fa pensare a un puledro la descrive la Alcott sottolineando altresì che la sua unica bellezza è la folta e lunga capigliatura, che tiene imprigionata in una reticella perché non le dia fastidio). Forse perché è il personaggio più moderno, espressione in piccolo di quella New Woman americana, energica, intraprendente, volitiva, che non aveva molto in comune, a metà '800, con le ragazze europee tutte delicatezza, sentimento e svenevolezza, almeno secondo gli standard educativi a cui dovevano uniformarsi. Persino negli Stati Uniti, però, era forse un tipo un po' inusuale una ragazza che come Jo spingeva a tal punto la sua volontà di autonomia e di libertà da rimpiangere di non essere nata maschio e da non perdere occasione per ostentare pose maschili (noi in Europa avevamo però George Sand). Credo che l'origine dello straordinario successo del romanzo sia da cogliersi proprio nel suo proporre un modello di comportamento femminile non tradizionale, tendente all'autorealizzazione, all'autonomia e al libero sviluppo dell'individualità.

    Anche a me piaceva Jo per il suo spirito di indipendenza e per la sua fantasia, ma di ognuna delle sorelle March mi piaceva qualcosa. La bellezza di Meg, con quella sua carnagione luminosa e i grandi occhi e la bocca dolce e le mani candide delle quali andava orgogliosa, la timidezza di Beth, dai modi schivi, lo sguardo intelligente, i capelli fini, i comici svarioni linguistici e i riccioli biondi di Amy, graziosa come un angioletto ma con delle pose a volte un po' affettate da signorina attenta alle belle maniere. E mi piaceva soprattutto il carattere casalingo del romanzo, non solo per gli ambienti e le figure tratteggiati, ma anche per lo stile colloquiale e l'umorismo bonario, non sofisticato che lo pervade.

    A tavola con la famiglia March

    Piccole donne offre nel complesso anche un quadro della società americana di metà '800, in particolare della società del New England, ancora in gran parte basata sui valori dei Puritani, i Padri Pellegrini che, in fuga dall'Inghilterra, sbarcarono nel '600 a Plymouth Rock dal Mayflower. Ma soprattutto rappresenta realisticamente la vita delle donne appartenenti a quel ceto medio di cui fanno parte le ragazze March e la stessa autrice Louisa May Alcott.

    In questa minuta descrizione del quotidiano femminile e domestico il cibo non può non comparire con una certa frequenza, senza tuttavia assumere una particolare rilevanza, quella per esempio che traspare nel romanzo realista borghese da Flaubert a Zola, dove si mangia e si beve fino all'esagerazione e le vivande sono descritte minuziosamente nelle loro varietà gastronomiche. Fedele alle convenzioni narrative ottocentesche, che disapprovavano l'interesse per il cibo da parte delle signore come un segno di mancanza di spiritualità, e fedele soprattutto alla estrema sobrietà che caratterizzava il suo desco familiare, dove abbondavano le conversazioni interessanti e scarseggiavano i manicaretti, Louisa Alcott ci dà sull'argomento indicazioni sommarie, non prive però di specificità. Si tratta in genere di una cucina semplice e tradizionale con piatti e cibi che sono propri del New England con qualche apporto tedesco, dal momento che gli Alcott avevano vissuto per alcuni anni in Pennsylvania, dove, a Germantown, era nata Louisa. Uno stato dal suolo ricco e fertile, sul quale lavoravano coloni soprattutto d'origine tedesca e olandese, di cui il New England aveva assimilato senza difficoltà le tradizioni culinarie unendole a quelle derivate dalla originaria Inghilterra.

    Nel New England, e in casa Alcott in particolare, dati i gusti del capofamiglia, appassionato coltivatore di meli, la torta di mele (Apple pie) godeva del massimo favore così come i pudding di tradizione inglese, dal Plum pudding al Bread pudding. Concord, dove vissero a lungo gli Alcott e dove è ambientato Piccole donne era poi particolarmente famosa per la sua uva dai grossi acini scuri e succosi: uva da pasto e non da vino, ottenuta dall'incrocio della vite nativa, resistente agli inverni freddissimi e alle estati umide del luogo, con una varietà di vite europea. Altri frutti tipici, sovente utilizzati anche nelle torte, nei pudding, nelle gelatine e conserve fatte in casa, erano le prugne, i mirtilli, le more, il ribes. Nei pranzi di una certa importanza non mancavano ostriche e aragoste. La carne veniva consumata fresca o conservata sotto sale mentre legumi e verdure venivano messi in

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