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Una storia nella Storia
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E-book212 pagine2 ore

Una storia nella Storia

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Info su questo ebook

Salvatore Castellana fu catturato dai Tedeschi in Montenegro dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, deportato in Polonia e liberato dagli Inglesi nel 1945, al termine della guerra.
Con una scrittura sorvegliata ed efficace, la figlia Serafina rievoca i fatti salienti della sua infanzia sotto il regime fascista e degli anni del conflitto mondiale, fino al ritorno del padre.
La seconda parte del testo è la trascrizione del Diario di Salvatore Castellana, redatto durante gli anni della prigionia, e costituisce un documento di indubbio valore storico, oltre che affettivo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2022
ISBN9788855392365
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    Anteprima del libro

    Una storia nella Storia - Serafina Castellana

    Prefazione

    Ogni storia non raccontata è una storia perduta, lo sa bene Serafina Castellana, Nuccia per chi la conosce da tempo, che a 90 anni fa il suo esordio nel mondo editoriale condividendo con noi lettori una duplice testimonianza: la sua vita e quella della sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale, e il diario autografo che il padre, il tenente Salvatore Castellana, scrisse durante la prigionia in diversi campi di detenzione affinché "i suoi figli potessero avere una conoscenza più quotidiana dei drammatici fatti che egli si trovò a vivere".

    Padre Paulus, uno dei personaggi più riusciti di Underworld di Don DeLillo, definisce straordinaria la parola quotidiano, in quanto capace di suggerire la profondità e la portata del luogo comune. All’apparenza una guerra è talmente eccezionale da stravolgere il quotidiano, in realtà ci spinge – e i fatti recenti lo confermano – in un nuovo presente che ha bisogno di riorganizzarsi per diventare sopportabile e superabile.

    Un concetto chiave attorno al quale ruota la quotidianità imposta dalla guerra è l’attesa: durante i primi anni del conflitto descritti da Serafina, genitori e figli sono insieme e aspettano che la guerra finisca, consolati dalla reciproca presenza e dalla capacità di Salvatore e Amelia di essere sicurezza in un momento di assoluta insicurezza. Salvatore, uomo intelligente e consapevole, ascolta i figli e suggerisce loro di fare attenzione alle parole, come quando Nuccia dice di avere fame e lui ribatte che quello è l’appetito, perché la fame è un’altra cosa. Da lì a poco la fame la proveranno per davvero: la famiglia quando il conflitto si inasprisce, e Salvatore nei campi di detenzione. E mentre tutti attendono (il ritorno della pace, il ritorno del padre, il ritorno in patria e nella propria casa), la fame diventa un altro legame che, in modo diretto e indiretto, tiene salda una famiglia divisa dalla distanza. Nuccia bambina ha fame, suo fratello e sua sorella hanno fame, eppure rinunciano con fermezza ai viveri che gli zii riescono a procurare per preparare i pacchi da mandare al padre che, con tutta probabilità, gli salvarono la vita: Eravamo così felici quando ne potevamo spedire uno, che ci sentivamo un po’ meno affamati. E in mezzo alla farina, a un po’ di riso, al tabacco, si studiava il modo di infilare un biglietto in un dolce fatto a mano così da nutrire, oltre al corpo, l’anima, per incoraggiarla a continuare: continuare ad aspettare.

    Il lavoro sulla memoria di Serafina Castellana è anche una importante testimonianza storica sugli I.M.I., Internati Militari Italiani, che vennero rastrellati e deportati in Germania e in Polonia dopo l’8 settembre del ’43. La maggior parte di essi rifiutò di combattere al fianco di nazisti e fascisti e pagò tale scelta con l’esclusione dallo status di prigioniero di guerra e dalle relative tutele internazionali. Ingannato Malmenato Impacchettato, Internato Malnutrito Infamato, Italia Mi Ignorò, così e in decine di altri modi Giovannino Guareschi, che con il tenente Castellana condivise la detenzione a Wietzendorf, descrisse la condizione degli I.M.I che, sentendosi abbandonati e dimenticati dalla Patria, avevano la necessità vitale di essere presenti nei ricordi dei parenti e nei gesti spiccioli che permettevano loro di aggrapparsi all’amicizia tra compagni di sventura, per non farsi sopraffare dall’orrore del lager.

    Ogni storia non raccontata è una storia perduta, ecco perché Serafina Castellana non si rassegna e scrive e trascrive: lo fa per recuperare, per tessere, per trasmettere, per consegnare. Ce la immaginiamo china sul diario del padre a indovinare i caratteri sbiaditi dal tempo, a tracciare il viaggio degli I.M.I. su una mappa, a cucire i propri ricordi con quelli altrui, con l’emozione della figlia, la lucidità della narratrice, il rigore della storica e la piena umanità di chi sa che la memoria sfida il tempo e, come scrive Marco Balzano riprendendo Pasolini, rimette in discussione l’oggi con la sua capacità di far crollare il presente e le sue infinite guerre. Se l’esercizio critico della memoria è sempre una manifestazione di libertà, ringraziamo Serafina Castellana per essere una persona libera. Per spingerci a esserlo sempre.

    Paola Cereda

    INTRODUZIONE

    Cara Serafina, sei ormai molto vecchia. I medici ti collocano nella categoria dei grandi vecchi.

    La vita è passata in un lampo, dura a volte giorno per giorno, ma velocissima a decenni.

    Tra le cose che mi rattristano in questi tempi, sono i rigurgiti neofascisti e neonazisti di cui i giornali danno troppo sovente resoconto: cimiteri ebraici vengono violati, svastiche compaiono su targhe riportanti nomi di importanti cittadini ebrei e, caso anche più grave, minacce di morte costringono a dare la scorta a chi, scampata allo sterminio, ha il grave torto di essere testimone del misfatto più feroce che si sia perpetrato contro l’umanità.

    Per questo, prima che i miei occhi terreni si chiudano per sempre, ho deciso di lasciare un ricordo di quegli anni lontani, di cui ho ancora memoria tanto viva.

    Gli avvenimenti sono visti con gli occhi di una bimba e di un’adolescente, perché ritengo che il periodo bellico vada inserito nella storia del ventennio fascista, di cui fu frutto e tragica conclusione.

    foto_nonno

                         Tenente Castellana Salvatore

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO I

    ANNI FELICI

    Quando vado indietro nel ricordo alle prime immagini della mia vita, vedo una bimbetta sui due anni (non era ancora nato mio fratello, che ha due anni, due mesi, due giorni e due ore meno di me) terribilmente chiacchierina, tanto da costituire la meraviglia e il divertimento di quanti si trovavano a incrociare i miei passi. Mia mamma diceva che fin da piccolissima ho sempre dimostrato un carattere deciso e risoluto. Mi raccontava ad esempio che, stanca di attendere quel fratello di cui mi si parlava spesso e che non arrivava mai, un giorno mi vestii di tutto punto, mi armai di una capace borsa e me ne uscii di casa, annunciando che sarei andata a cercare mio fratello e lo avrei finalmente portato con me. Mia mamma mi seguì giù per le scale e lungo la via, fino alla prima traversa, dove mi raggiunse e mi convinse con dolcezza a rimandare il mio progetto ad altra occasione.

    Dei miei primi anni di vita ho globalmente un ricordo solare. I miei genitori erano giovani, innamorati, piuttosto poveri, ma pieni di coraggio e di progetti per il futuro.

    La mia era una famiglia dove la vita scorreva in armonia e serenità. Certo i miei genitori dovevano avere le loro preoccupazioni, ma a noi figli non ne giungeva neppur l’eco, tanto eravamo immersi nei nostri giochi, ai quali, quando potevano, si univano anche loro, la mamma bella e dolcissima, il papà severo e affettuoso.

    L’occupazione di mio padre concorreva a rendere più felice la nostra esistenza. Egli lavorava infatti presso l’ufficio del Catasto ed era impegnato nella costruzione della mappa catastale del Piemonte, cosa che lo occupava per tutta la bella stagione, in un duro lavoro di misurazioni attraverso colline e montagne. Appena terminate le scuole, tutta la famiglia si trasferiva da Alessandria nel paese dove era stato fissato il campo base per il lavoro di mio padre e incominciava per noi bambini una vita favolosa, errabonda in mezzo ai boschi dell’Alessandrino e del Cuneese, dove passavamo le giornate ad arrampicarci come caprette, a raccogliere fragole e mirtilli, a riempirci i polmoni di aria leggera e ossigenata.

    Si pranzava in campagna, con quello che mia mamma cucinava su un fornelletto da campo e si tornava la sera, con il carico dei tesori raccolti lungo il cammino e pieni il cuore di una inebriante sensazione di libertà.

    Questa vita ci portò anche un altro frutto importante. Quando mio papà poteva tenere il suo ufficio provvisorio in un paese che si trovava a una quota più bassa, vivevamo tra i contadini e immancabilmente stringevamo amicizia con qualche famiglia. Questo, a mio fratello e a me, permetteva non solo di avere una conoscenza diretta delle difficoltà e delle durezze della vita quotidiana degli agricoltori, ma di partecipare, secondo le nostre possibilità, ai loro lavori. Ci mettevamo tanto entusiasmo, che riuscivamo a renderci utili. Era un lavoro duro, che ci faceva sudare, ma per noi era uno splendido gioco, sia che si rivoltasse il fieno o si spigolasse dietro i mietitori, o si raccogliessero i frutti sugli alberi, o si rastrellasse la pula che volava via dalla trebbiatrice.

    Escludendo quest’ultimo lavoro, di cui ricordo la polvere infernale che toglieva il respiro, tutti gli altri erano lavori che riempivano narici e polmoni di profumi intensi e dolcissimi. L’odore dell’erba tagliata o del terreno bagnato dalla pioggia sono, per me, quello che per Proust era l’odore del tè e delle madeleines, suscitatore di ricordi e di lontane emozioni. Certo a volte si correva qualche rischio. Una mattina, avevo allora sei anni, ero uscita al pascolo delle mucche insieme alla contadina che ci aveva affittato l’alloggio nel quale vivevamo in quel periodo, nel paese di Rossana. Avevo ottenuto il permesso di tenere in mano la corda con cui guidavo una placida mucca, che mi seguiva con il suo lento passo. Malauguratamente inciampai in una zolla di terra e caddi. Vidi la zampa enorme (quanto enorme ancora nel ricordo!) incombere su di me. La evitai d’un soffio rotolando di lato. Nonostante la disavventura, ho sempre conservato un sentimento quasi di affetto per i buoi, così forti, lenti, pazienti e per quei loro occhi grandi, umidi, dolci. Quando vedo arrancare sulla via qualche fragoroso e puzzolente trattore, ripenso sempre con nostalgia a quelli che per tanti secoli furono i compagni preziosi del contadino.

    Un anno particolarmente felice fu quello che passammo a Pezzolo Valle Uzzone, perché la vacanza fu più lunga, tanto da includere anche i primi tre mesi di scuola. Questo è un paesino che si trova a oltre trecento metri di altitudine, immerso nel verde dei boschi, tra canti di uccelli e gorgoglio di acque correnti. Frequentavo allora la terza elementare e mio fratello iniziò proprio in quella scuoletta di collina la prima conoscenza con la parola scritta. Allora due maestre si dividevano le cinque classi. La mia era giovane, bella e brava. Da lei imparai a fare lavori molto graziosi e utili con le foglie di granoturco e quando ritornai, dopo le vacanze di Natale, alla mia classe cittadina, mi inserii naturalmente, senza problemi, anzi arricchita dall’esperienza di aver passato alcuni mesi tra il torrente gelato e i colli carichi di neve. Ricordo che quel mese di dicembre fu talmente freddo, che dalle rocce vedevo pendere lunghe cascate di ghiaccio, le quali si accendevano al sole di mille riflessi come grandi pietre preziose. Lassù avevamo lasciato molti amici e soprattutto avevamo imparato ad amare una natura meravigliosa, di cui i nostri amichetti cittadini ignoravano totalmente l’esistenza. Avevamo imparato ad andare a pesca di trote con le mani. Questa è un’arte difficile, ma non impossibile. Allora nei nostri torrenti dalle acque limpide le trote erano abbondanti e qualche volta riuscimmo, scostando i massi, a catturare la grossa trota che vi si era nascosta. Per mio fratello e per me la cosa era quasi impossibile, eppure qualche rara volta, lavorando in coppia, ci riuscimmo, tanto erano bravi maestri i nostri amici del posto.

    Il torrente che passava vicino a casa e che cullava con la sua voce i nostri sonni, era la nostra grande tentazione. D’estate era divertente saltare da un sasso all’altro per passare sull’altra riva. D’inverno una lastra di ghiaccio lo trasformava in una magnifica pista di pattinaggio, su cui scivolare con tutte le nostre energie, nonostante i divieti materni. Ora che ho i capelli bianchi e molta esperienza della vita, mi spiace di aver provocato tanta preoccupazione in mia madre, ma ancora oggi riassaporo nel ricordo l’intensità di gioia provata in quella vita libera immersa nella natura.

    Questa fu la mia età favolosa, così ricca di sensazioni e di esperienze, da costituire una base importante per la formazione della mia personalità.

    ANNA

    La primavera dell’anno 1939 ci aveva portato una novità esaltante. Il mese di aprile, con i profumi e i colori della primavera, aveva portato nella nostra casa una sorellina, tanto attesa e desiderata. Anna nacque proprio mentre uno scampanio festoso, dopo il lungo silenzio della Quaresima, intonava il Gloria per la risurrezione del Signore. A me sembrò che quelle campane annunciassero a tutta la città che era nata la mia sorellina. Ne ero felice e fiera come se l’avessi fatta io e subito mi sentii impegnata ad aiutare mia mamma nel compito di allevarla. Dall’alto dei miei sette anni mi sentivo anch’io una piccola mamma; però non sempre l’azione era pari all’intenzione. Mi impegnavo sempre a fondo nel compito di addormentarla e per lei componevo ogni volta una nuova ninnananna, inventando parole e melodia. Una volta fui talmente presa dal mio slancio creativo, che cominciai a far dondolare la culla con una velocità sempre maggiore, finché quella si rovesciò e mia sorella, con tutto il materasso e le coperte, planò sotto il letto. Era talmente addormentata, che il tuffo non la svegliò nemmeno e io potei rimettere a posto, senza danni, culla e sorellina. Da allora imparai a essere più cauta e a cedere meno all’estro creativo.

    CAPITOLO II

    SEGNALI DI INQUIETUDINE

    La serenità e

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