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L'ultima luce accesa: romanzo
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L'ultima luce accesa: romanzo
E-book285 pagine4 ore

L'ultima luce accesa: romanzo

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Info su questo ebook

La storia - che si snoda nell’arco di tre decenni - vede come protagoniste due sorelle legate da un rapporto simbiotico: Camilla è affetta da una paralisi bilaterale spastica ma, nonostante la sua pesante disabilità fisica, è forte, positiva, solare; Serena, sorella maggiore e voce narrante, è invece sanissima fisicamente ma, a dispetto del suo nome, è tormentata fin dalla tenerissima infanzia da compulsioni fobiche, crisi depressive che sfiorano pericolosamente l’anoressia, tendenza all’autolesio-nismo psicologico. La prima scena del romanzo è un notturno: Serena, in preda a coma etilico procuratosi volontariamente, cerca un posto “romantico” per andare a morire: la spiaggia dei pescatori di Vernassola, il cielo notturno e il Grande Carro sono le ultime cose che i suoi occhi vorrebbero vedere. Ma proprio quando per la prima volta nella sua vita la tensione e le paure la stanno per abbandonare e sembra arrivare la pace, ecco che i ricordi, come “falene impazzite”, inscenano una danza macabra nella sua mente stanca…
 
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2018
ISBN9788868152819
L'ultima luce accesa: romanzo

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    L'ultima luce accesa - Titti Federico

    L’ultima luce accesa

    romanzo

    Titti Federico

    Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2018

    Copyright Titti Federico

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868152819 

    In copertina: Equilibrio di insieme

    Copyright Chiara Modenese

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Titti Federico

    Copertina

    Presentazione

    L’ultima luce accesa

    Dedica

    Ringraziamenti

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Titti Federico

    Concetta Federico è nata a Genova da genitori napoletani e risiede a Carrara dall’età di due anni. Insegna lingua e letteratura francese da oltre vent’anni e solo una decina di anni fa ha cominciato ad assecondare la passione di una vita: scrivere. Al momento ha pubblicato tre romanzi con l’editore Meligrana: Prima che venga sera nel 2008, Oltre le cose nel 2011 e Negli occhi di mia madre nel 2014, ottenendo dei prestigiosi riconoscimenti al Premio Internazionale San Domenichino, al Premio Massa, al Premio 5 Terre Micheloni, ecc.

    Contattala:

    concetta.federico@gmail.com

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    PRESENTAZIONE

    Ancora un bel romanzo di Titti Federico, grande narratrice di storie di individui nelle tempeste della storia o della loro personale esistenza. Se Negli occhi di mia madre ci commuoveva e incantava di fronte alla forza del Coraggio e dell’amore che continuavano a manifestarsi, pur nello scempio dell’Europa nazista, in uomini e in donne custodi di dignità e bontà, con il suo ultimo lavoro, l’autrice ci accompagna in una storia più recente, meno devastante, ma comunque potente nel generare le culture, le dinamiche esistenziali dei diversi attori.

    Al centro del narrare questa volta troviamo, come cuore pulsante, una vicenda che ha nella famiglia la sua incubazione, Il suo sviluppo e il suo esito. Della famiglia Titti Federico indaga le contraddizioni, le paure, la gioia e le lacerazioni. Il tono è di chi ama tutti i suoi personaggi, da comprendere e non da giudicare, ma ancora una volta la sensibilità della scrittrice le fa abbracciare Serena, la protagonista, pur lasciando che attraversi i pericolosi abissi di una giovinezza vissuta senza risparmi e come inconsapevole calvario espiatorio per una colpa mai commessa.

    Anche in questo lavoro l’autrice dipinge giovani vite nei drammi dell’adolescenza, nelle frustrazioni della crescita, vite rese più complicate dalle dinamiche della contemporaneità, nelle trappole di libertà conquistate, ma non ‘digerite’ perché apprese più nella dimensione intellettualistica che nell’integrazione emotiva. Così Paolo, così Serena.

    Titti ritrae dinamiche di genere impermeabili alle istanze della parità perché segnate dallo squilibrio fra dovere e piacere, fra maternità e paternità rimasti prigionieri di ruoli. Il libro stimola quindi una riflessione sulla famiglia, sui legami che ci plasmano e sul bisogno di fuga e di ritorno: famiglia come nido, come baccello, ma anche come ferita e perdita. Il romanzo ci fa ascoltare musica, ci fa vivere paesaggi, ci racconta come eravamo e forse abbiamo dimenticato di essere stati così.

    È davvero una lettura avvincente quella che genera, inducendo speranza, facendoci soffrire e gioire e aiutandoci a prendere coscienza di molte tematiche di un passato così recente da non essere facilmente concettualizzabile.

    La storia degli anni ’80, così vicini, così lontani, quando ancora tutto era intriso di Politica e la speranza di un mondo migliore non ancora sopita, viene vissuta dalla protagonista attraverso il sogno di una coerenza assoluta nell’amore come nell’impegno sociale mentre s’incammina invece in una deriva nichilista. C’era tutto questo in quegli anni, la speranza e la perdizione.

    Serena e gli altri personaggi si leggono nella filigrana della complessità delle relazioni generate da una stagione storica dov’è soffiato il vento del cambiamento, ma dove non sono mutati nel profondo gli stereotipi. Le istanze di trasformazione hanno mietuto vittime, qualcuno si è salvato altri no.

    Il libro ce lo racconta facendoci incontrare figure interessanti che possono disturbarci, ma che non giudicheremo: la stessa autrice ce lo impedirà perché, mettendo sulla penna la sua profonda umanità, ci guiderà a comprendere che non generiamo noi le nostre contraddizioni.

    Così capiremo Paolo, affascinante e pericoloso, orfano perché figlio di genitori narcisisti, vere cause del suo velleitarismo privo di generosità affettiva e di maturità intellettuale. Ma tutto il male non vien per nuocere, così il demone tentatore se porta Serena nel labirinto, ne rianima la consapevolezza e proprio mentre concorre a intrappolarla nella coazione a ripetere fino all’orlo dell’abisso, genera la svolta catartica.

    Costruito con una felice invenzione strutturale, attraverso lo sfasamento fra piano narrativo e ricordo, il libro oltre alla piacevolezza della trama, all’analisi storica e psicologica, ci porta a confrontarci con il tema della disabilità.

    Senza semplificazioni esso viene analizzato per le conseguenze sulle dinamiche nella famiglia, nella scuola, nella società, facendoci desiderare una crescita culturale generale per la riduzione delle sofferenze di tutti e verso una generale affermazione dell’uguale dignità degli esseri umani.

    Giovanna Bernardini

    L’ultima luce accesa

    A Enza e Gino, sempre...

    Il faut être toujours ivre. Tout est là: c’est l’unique question. Pour ne pas sentir l’horrible fardeau du Temps qui brise vos épaules et vous penche vers la terre, il faut vous enivrer sans trêve.

    Mais de quoi? De vin, de poésie, de vertu, à votre guise. Mais enivrez-vous.

    Charles Baudelaire, Enivrez-vous, Le Spleen de Paris,

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in parte frutto della fantasia dell’autrice.

    PROLOGO

    Genova, autunno 1986

    Ho freddo.

    Dicono che quando stai per morire tutta la vita ti scorre davanti. Io non ne ho poi così tanta, di vita, da rivivere in questi ultimi istanti, e sicuramente questo un po’ mi fa incazzare, perché andarsene a ventitré anni non è esattamente un regalo di cui ringraziare la sorte. La mia testa pulsa, è un calcolatore di dati impazziti, gli occhi sono velati da quelle due bottiglie, o forse erano tre, non mi ricordo e non ricordo neanche se era gin, vodka o alcol puro...

    Mi succede come ai vecchi, i cari, invidiati vecchi: non ricordo nulla degli ultimi giorni, invece la mia vita passata è così limpida... eppure, questa vita passata non mi sembra degna di essere ricordata o rimpianta nell’istante estremo: ventitré anni sprecati a farsi domande, e a rendersi conto che non c’è nessuna maledetta risposta a tutte quelle maledette domande.

    E allora la noia, l’ansia, la paura, le fughe.

    Eccoli qua, i miei ventitré anni, riassunti in due frasi.

    Non so quanto tempo sia passato, non ne ho più la percezione, e anche questo mi fa strano, visto che il tempo, l’inesorabile persecutore dei mortali, mi ha avvelenato la vita e i pensieri: anni, settimane, giorni, minuti, pezzi di strada che percorri e facce che saluti per non rivedere mai più, a ogni angolo di quella strada. Più cammini e più ti allontani da quello che hai amato. Ed anche la tua faccia cambia, e porta i segni del tempo: per ogni metro, una ruga in più.

    No, io ancora non le ho le rughe, e se le cose vanno come credo, non le avrò mai.

    Ti ho fregato, tiranno infame, ho seguito il consiglio del grande poeta, maledetto come me.

    Mi sono ubriacata in quest’ultimo tratto di strada, e finché sono stata ubriaca, io non ho sentito il tuo fetido fiato sul collo. E sono arrivata a quest’isola di pace, fuori dal tempo, fuori da te.

    E ti dico, ora, te lo dico solennemente, che tu non hai più nessun potere su di me.

    Mi sento finalmente affrancata dal tuo giogo abietto, è come liberarsi da una corda che mi ha stretto alla gola per anni. Non so più dove sono, né che giorno è, non so se è giorno o notte. E per la prima volta da che ho ricordi coscienti non c’è tensione in me, i miei nervi sono rilassati, non ho bisogno di nulla, non desidero nulla. Forse me ne sono già andata, perché esistere per me è sempre stato solo questo: una tensione perenne e lacerante verso un obiettivo improponibile.

    E forse morire, il tanto decantato riposo dei poeti, il porto di pace è solo questo: un elastico che qualcuno smette di tirare, e che finalmente raggiunge il suo stato naturale e si abbandona mollemente su un tavolo.

    E per la prima volta la fine, la maledetta fine, non mi fa paura, al contrario, ora che sto per salpare, mi sento finalmente serena, e l’attesa è inebriante. Allora è vero che la morte non conclude.

    È come essere sulla banchina del porto, la nave è ancora lontana nel mare dell’alba, ma riesco già a vederla, e man mano che si avvicina sento nell’aria il profumo dei fiori di loto.

    Eppure non posso farne a meno, i ricordi sono falene impazzite ed hanno vita propria, una vita perversa, e per quanto cerchi di cacciarli via, loro ritornano da me e inscenano una danza macabra in quel palco polveroso che è la mia mente stanca...

    Ma fa freddo, troppo freddo, forse sta nevicando.

    La neve non l’ho mai amata.

    CAPITOLO UNO

    La neve

    Dicembre 1966

    La neve non l’ho mai amata. È legata al mio primo ricordo cosciente e non è un bel ricordo. Avevo tre anni e andavo all’asilo, una bella villa rosso pompeiano circondata da un giardino pieno di palme, nel cuore delle Nagge di Rapallo, poco distante da Piazza Mazzini dove abitavamo tutti e quattro: io, mamma, papà e Camilla. Mi piaceva la mia casa, all’ultimo piano di un palazzo antico, bagnato dal sole fino a sera. Mamma adorava la luce del primo pomeriggio che si infilava in ogni angolo del soggiorno e rendeva tutto più allegro. Diceva che la cosa più bella della nostra casa era il sole, che abitava insieme a noi dalla mattina alla sera. Anche mio padre si godeva il sole del pomeriggio nel soggiorno, perché aveva un lavoro che lo teneva fuori casa solo al mattino e quasi sempre il pomeriggio lo passava con noi. Poi c’era Camilla, mia sorella, nata come me il 19 agosto ma di due anni dopo, coincidenza straordinaria, a sentire mia madre, visto che la mia sorellina minore sarebbe dovuta nascere non prima di settembre.

    Evidentemente – diceva mio padre ridendo – tua sorella ha cominciato a emularti in fase prenatale e come prima cosa ha voluto condividere con te il giorno del suo compleanno! Buon per noi, che facciamo una sola festa e prendiamo due piccioni con una fava!

    Comunque, per quanto minore solo di due anni, Camilla era fisicamente molto più piccola di me. E poi Camilla non parlava e non camminava ancora, ma questo per me non era un problema, ero sicura che prima o poi sarebbe successo.

    L’asilo non lo amavo particolarmente, fatto comunque non inusuale visto che per tutti i piccoli la prima separazione dalla madre e dal nido è una fase più o meno traumatica ed io, naturalmente, non potevo esimermi dal pagare questo primo pegno di afflizione infantile. Dunque anch’io, come miliardi di altri cuccioli catapultati per la prima volta nell’incerto mondo esterno, avvertivo lo strappo lacerante dal baccello che era casa mia, e ogni mattina vagheggiavo con straziante nostalgia il ritorno a casa.

    Ma io, naturalmente, dovevo distinguermi già a tre anni e vivere quei primi, comuni momenti di malessere in maniera del tutto personale e renderli, se possibile, ancora più grevi, a riprova di quanto, già allora, detestassi me stessa.

    Il giochino all’auto massacro è cominciato proprio quella mattina di dicembre del ’66. Nevicava, a Rapallo, ed era la mia prima neve. Quando papà mi accompagnò all’asilo ricordo che la neve mi piaceva, Rapallo era elegante e luminosa avvolta in quel candore immacolato che mi portava alla mente i regni lontani delle favole, persino il freddo pungente mi sembrava magico. Saltellavo qua e là per poi tornare a guardare le orme che avevo lasciato nella neve e papà mi veniva dietro ridendo. Poi mi disse una cosa, quella cosa... Ma io pensai che si fosse sbagliato e gli dissi che non era vero, che non era possibile, e subito dopo me ne dimenticai... anche se ora, alla luce di quello che so, posso dire che dimenticare non è la parola giusta. Ero eccitata quando arrivai all’asilo, come tutti gli altri bambini. Forse sarebbe stata una bella giornata, la prima senza straziarmi pensando alla mamma, a Camilla, ai giocattoli che avevo lasciato a casa, sul tappeto del soggiorno.

    Ricordo tutti i dettagli di quella mattina: la maestra che ci fa scrivere le nostre prime vocali, i bambini che ridacchiano delle mie o più quadrate che tonde, io che metto il muso mortalmente offesa e la maestra che mi consola conferendomi l’incarico di sua collaboratrice in mensa. Io che, con piglio energico da fare invidia alla più autorevole delle maestre, passo banco per banco ad allacciare i bavagli a quei bimbetti, gli stessi che avevano incautamente riso delle mie o quadrate e poi mi siedo col naso per aria e l’autostima che fluttua sopra la mia testa accanto alla maestra Franca. Polpette a pranzo, un altro motivo di gaudio. Le polpette erano le mie preferite. In realtà le polpette erano le preferite di tutti; Maura, la grassa cuoca dalla crocchia bianca era specializzata nelle polpette. Erano le preferite anche di Sandro, un bambino con la faccia tonda come una luna piena e un’evidente inclinazione alla pinguedine che, però, non intaccava minimamente il suo appetito notevole e il suo sorriso soddisfatto. La cosa spettacolare era che Sandro aveva un amichetto del cuore, Gigi, che era la sua antitesi esatta: Gigi era magro, scarno, con la faccia allungata, una costante inappetenza e l’aria sempre triste. Inevitabile che quei due improbabili e inseparabili amici fossero stati ribattezzati dai bimbetti più grandi Stanlio e Ollio e persino le maestre sorridevano quando li vedevano insieme, così simpaticamente diversi. Inevitabile anche che i due amici, che mangiavano seduti uno accanto all’altro, si aiutassero reciprocamente come fanno sempre gli amici per compensarsi l’un l’altro, dunque l’inappetenza di Stanlio era perfettamente bilanciata dall’appetito pantagruelico di Ollio. In altre parole Stanlio sbocconcellava a malapena una polpettina e poi passava di nascosto il contenuto del suo piatto a Ollio, che accettava di buon grado e si faceva fuori con evidente soddisfazione e senza il benché minimo rimorso anche le polpette del povero Stanlio.

    Quel giorno, dunque, polpette. Solita manfrina tra Stanlio e Ollio ma, ahimè, la maestra si accorge delle manovre tra i due e se ne esce con la seguente battuta, apparentemente innocua:

    Sandro, smetti di mangiare le polpette di Gigi! Non lo vedi come è magro? Vuoi continuare a rubargli le polpette e farlo diventare ancora più secco?

    La maestra stava sorridendo, e con grande delicatezza aveva alluso solo alla magrezza di Gigi senza fare il minimo cenno alla grassezza di Sandro perché, si sa, essere grasso è motivo di vergogna, essere magro, invece, è quasi un pregio...

    Tutta la classe rise, si vedevano le bocche di trenta bambini piene di polpette e spalancate nella risata. Tutta la classe. Tranne me.

    Qualcosa dentro di me cambiò, come un meccanismo che si inceppa senza ragione, come una nuvola densa che improvvisamente oscura il sole, e una tristezza abissale e cosmica si impadronì della mia anima. In quel momento sentii con certezza matematica che Camilla era morta, e che la sua morte era in qualche modo colpa mia. Era come se il mio cervello e il mio cuore procedessero per strade divergenti: sapevo che Camilla era a casa, con mamma, che tutto andava bene e che dopo qualche ora le avrei ritrovate tutte e due, eppure sentivo che la mia sorellina non c’era più, che qualcosa di terribile le era successo. Quella è stata la prima volta in cui sapere e sentire si sono dissociati in me, e il loro procedere per strade divergenti mi rese già allora, bambina inerme e inconsapevole, un fantoccetto triste sballottato vorticosamente dall’uno all’altro. Ad aggravare la mia prima crisi, la coscienza della colpa: se Camilla era morta la responsabilità era mia. Se Camilla non cresceva la responsabilità era mia. Se Camilla non parlava e non camminava ancora, la responsabilità era mia.

    Ne avevo la certezza assoluta.

    CAPITOLO DUE

    Pal

    Ho freddo. Non so dove mi trovo, non riesco ad aprire gli occhi, le palpebre sono di marmo. Non sento più le gambe, le braccia, le mani. Il mio corpo è altrove, un pezzo di materia inerte e pesante tirato a terra dalla gravità e svincolato totalmente dalla mia volontà. È materia fetale in un grembo gelido.

    Ma i pensieri sono soffi lievi che galleggiano in uno spazio senza tempo.

    Poi, qualcosa succede, e mi riporta di qua: attraverso gli occhi chiusi percepisco un chiarore, forse è l’alba, e sento qualcosa, una specie di suono indistinto e lontano, che cresce. Sono gli uccelli che cantano. Camilla ed io avevamo un fringuello in terrazza che si sgolava all’alba e puntualmente ci svegliava entrambe, finché mamma non cominciò a coprire la sua gabbietta con un telo.

    Ho letto da qualche parte che gli uccelli cantano all’alba solo perché hanno fame, e cantando mascherano la loro debolezza, e la loro paura di morire. Di fame, di freddo. Così, ho smesso di farmi incantare da quel canto dell’alba, come da tutto il resto.

    Ho imparato che tutto ciò che appare bello in questo mondo è solo finzione. L’amore è finzione, l’amicizia è finzione, la gioia è finzione. Il dolore, la paura, il brutto, quelli sì che sono reali. Questo freddo è reale. Forse dovrei mettermi a cantare anch’io, per vincere questo freddo terribile.

    Ma non servirebbe a niente, sono sola e nessuno mi sentirebbe. E poi io non sono come quegli stupidi uccelli, io non ho paura, io voglio morire.

    Ecco, il tempo ricomincia a farsi sentire, con questa luce che arriva fin qui, tra questi scogli lambiti dal mare dove mi sono nascosta per andarmene. Il mio ultimo nido, il mio ultimo baccello. Non la voglio questa luce, vorrei solo una cosa, la desidero da sempre: salpare per quel viaggio verso l’ignoto che mi ha tormentato tutta la vita e che ora non mi fa più paura. E invece nel mio cervello i ricordi vorticano come falene impazzite e come zavorre di ferro mi tengono ancorata alla terra.

    Lei non vuole che me ne vada.

    Non me ne accorgo, perché il mio corpo è ancora disgregato e indipendente dal mio cervello, ma forse sto sorridendo. E un pezzo di strada già percorsa che vedo, e non è poi così male, questo ricordo.

    Siamo al mare, io e la mia famiglia, è la prima estate che andiamo tutti insieme in vacanza. Ho otto anni, mia sorella Camilla è fisicamente la metà di me, ed io non sono nemmeno una bimbona. Fino ad allora ero andata in vacanza da sola o con papà, si andava in campagna dai nonni, oppure partivo per Monzone con Costanza, la mia amica del cuore, e i suoi genitori. Invece quell’anno, è l’estate del ‘71, per la prima volta la famiglia Torrisi è partita in vacanza compatta e felice come un gruppetto di piselli nel loro baccello. Da buona bambina ancora ingenua che non capisce nulla dei meccanismi complicati del vivere quotidiano, io non avevo mai capito perché mamma e papà avessero sempre adottato questo tipo di vacanze separate. Certo, mia sorella non era proprio una bambina come me, nel senso che non camminava ancora, e non sempre era facile capire quello di cui aveva bisogno. Tranne che per me, ovviamente, che la capivo al volo. Ed io avevo insegnato ai miei genitori certi trucchetti per interpretare le sue espressioni: se Camilla aggrottava le ciglia probabilmente voleva cambiare posizione sulla sua sedia. Se si passava la lingua sulle labbra aveva sete. Se muoveva la bocca simulando una buffa masticazione aveva fame. E per fortuna sapeva anche ridere, la mia sorellina, e quando rideva era così facile capire che era felice. Rideva con tutta la bocca, a garganella, ma senza emettere suoni, ed io non potevo non ridere con lei, perché era così buffa con quella bocca aperta e muta che sembrava un pesce che fa le bolle sott’acqua. E scuoteva la testa, la dondolava allegramente a destra e a sinistra, accompagnandosi con le mani aperte e questo era il suo modo di farci sapere che stava bene ed era felice.

    Quell’estate, dunque, grande novità: una vacanza tutti insieme, anche se non certo lontano da casa: da Rapallo la famiglia Torrisi si era spinta a Monterosso, la più comoda delle Cinque Terre, con il suo spiaggione comodo e di facile accesso. Noi stavamo a pochi metri dalla spiaggia, in una casetta bassa, con delle finestrelle piccole piccole che sembravano fatte per Camilla. Dentro era una casetta normale, anzi, a dir la verità, era anche un po’ strettina, anche perché il piano di sopra non l’avevamo preso per via di Camilla e stavamo tutti pigiati al piano basso; da fuori, però, era veramente deliziosa, una casetta delle bambole in piena regola: le finestrelle, ombreggiate da tendine ricamate di un candore scintillante, affacciavano direttamente sulla spiaggia, e su buona parte della facciata, dipinta in un tenue color ciclamino, una grassa buganvillea scarlatta spandeva

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