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Madame Royale
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E-book300 pagine4 ore

Madame Royale

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Info su questo ebook

Rivoluzione francese: 1792-1795
In seguito alla fuga di Varenne, la famiglia reale di Francia è imprigionata nella cupa Torre del Tempio nel cuore di Parigi. Dopo un sommario processo Luigi XVI, Maria Antonietta e Madame Elisabetta, la sorella del re, sono condannati e ghigliottinati dai capi rivoluzionari che hanno instaurato il regime del Terrore. 
Gli unici superstiti sono i figli Maria Teresa Carlotta, detta Madame Royale, e il delfino Carlo. Sorvegliati a vista, abbandonati a se stessi, senza conoscere il triste destino riservato alla loro famiglia, essi vivono anni di solitudine, nella sporcizia e nella sofferenza. 
È direttamente dalla voce di Maria Teresa Carlotta che veniamo a conoscenza delle sue paure, dei suoi tormenti, delle sue emozioni e dei suoi ricordi. 
Vittima inconsapevole degli intrighi di aristocratici e ministri, travolta dalla furia di un popolo miserevole che ha fame, che inveisce contro i reali, ritenuti colpevoli dei problemi economici della Francia, Carlotta, a soli quindici anni, è catapultata dal lusso e dalla vita spensierata della reggia di Versailles nella cella buia, umida e spoglia del Tempio.
È grazie a lei veniamo a conoscenza degli eventi che hanno determinato la Rivoluzione, così come sono stati vissuti dalla famiglia reale.
Fino al dicembre del 1795 quando dovrà affrontare un nuovo periodo della sua vita. È a questo punto che ha inizio il “mistero della figlia del re”. Che ne sarà di lei, in una Francia ancora sconvolta dalla Rivoluzione, in un’Europa messa a ferro e fuoco dalle guerre napoleoniche? Quale sarà il suo destino?
LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2024
ISBN9791281026179
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    Anteprima del libro

    Madame Royale - Lisa Beneventi

    1

    Una principessa rinchiusa in una torre;

    potrebbe sembrare l’incipit di una fiaba dei Grimm,

    ma la sua vita fu tutto fuorché una fiaba.

    L. Savani

    Maggio 1794 (Pratile Anno II)

    Sono sola.

    Prigioniera.

    Ho paura. Non ho più nemmeno la forza di piangere.

    Un raggio di luna filtra nella mia cella e diffonde un chiarore spettrale.

    Fa caldo, per essere maggio. Un caldo umido reso ancor più insopportabile dal fetore ammorbante che esala dal pitale.

    Nella mia stanza ci sono solo un letto, un tavolo, una sedia e un catino. Tutto il resto mi è stato portato via. Perfino il mio acciarino e le candele.

    Le lenzuola sono lerce. Non so più da quanto tempo la biancheria non viene cambiata. Puzza.

    Mi hanno lasciato solo alcuni libri, che ormai conosco a memoria, come L’Imitazione di Gesù Cristo, tradotto da Corneille.

    Loro, i miei carcerieri, ridono e gridano nella stanza attigua alla mia. Tutte le sere si ubriacano e fanno baccano. Ho paura quando entrano nella mia stanza con voci minacciose per controllare il mio tugurio. Ogni minimo rumore mi spaventa, soprattutto quello dei chiavistelli e delle catene quando aprono la porta. Mi raggomitolo sul mio letto. Cerco di non guardarli. Non oso più chiedere notizie di mio padre e di mia madre, che da tempo ormai sono stati portati via dal Tempio. Non oso neppure chiedere dove si trovi mia zia Elisabetta, la sorella di mio padre, con la quale ho vissuto in questa cella negli ultimi mesi.

    Ho sedici anni, l’età che aveva mia madre quando arrivò in Francia per sposarsi.

    Non sono più una bambina e temo che un giorno o l’altro questi ubriaconi, ai quali tutto è concesso, oltrepassino i limiti della decenza e mi usino violenza. Succederà un giorno o l’altro, me lo aspetto. Sono capaci di tutto.

    Una guardia municipale, forse conquistata alla causa monarchica, mi avverte che il Barone di Batz, con altre due guardie, sta architettando una fuga. È solo una chimera. Non se ne fa nulla. Scoperte, le tre guardie vengono arrestate mentre si provvede immantinente a rafforzare le misure di polizia: le finestre delle celle sono ermeticamente chiuse. Senz’aria e senza luce, senza alcuna igiene, mio fratello che vive separato da me, in un’altra stanza, si ammala. Lo sento gridare dal dolore.

    Una sera, mi hanno portato via anche i coltelli.

    «Cittadina, hai molti coltelli?» mi hanno chiesto.

    «No, signori, ne ho solo due,» ho risposto.

    «E hai delle forbici?»

    «No, signori.»

    Soddisfatti, se ne sono andati.

    Qualche tempo fa, si sono accorti che la stufa era calda.

    «Come mai hai del fuoco?» mi hanno chiesto.

    «Per scaldarmi i piedi nell’acqua calda. Ho freddo.»

    «Cosa hai usato per accendere il fuoco?»

    «Il mio acciarino.»

    «Chi te l’ha dato?»

    «Non so, non ricordo.»

    «Per il momento te lo togliamo. È per la tua sicurezza. Non vogliamo che ti capiti qualcosa di grave se lasci il fuoco acceso.» Era chiaramente una scusa.

    «Hai qualcos’altro?»

    «No, niente.»

    A parte conversazioni come queste, di solito resto in silenzio, sforzandomi di ignorare quegli uomini rudi e sguaiati. Funziona. Loro cessano le offese, i commenti lascivi, le proposte oscene, e se ne vanno.

    Se non sono ancora impazzita, lo devo a mia zia. Alla sua grande fede religiosa che è riuscita a trasmettermi in questi mesi, convincendomi che Dio non ci impone mai una sofferenza più grande di quella che possiamo sopportare. E io sopporto.

    Ogni giorno seguo gli insegnamenti di zia Elisabetta. Quando era ancora qui con me, esigeva che camminassi velocemente per un’ora nella cella, avanti e indietro, per fare esercizio fisico. Diceva che era importante. Non dovevo mai sdraiarmi sul letto durante il giorno, ma rimanere sempre attiva. Tutte le mattine dovevo fare la mia toilette con quel po’ di sapone e acqua che mi erano concessi, dovevo lavare la mia biancheria intima, rammendare il mio unico vestito e poi fare la maglia, anche se questa attività mi annoiava moltissimo. Facevo, disfacevo, facevo di nuovo, cambiando continuamente i punti e i motivi. Si era raccomandata zia Elisabetta, affinché non fossi mai inattiva, affinché non mi abbandonassi mai ai miei lugubri pensieri. Ciò non mi impedì, un giorno, di scrivere sul muro della mia cella queste parole: Carlotta la persona più infelice al mondo. Come potevano quegli uomini, forse padri di famiglia, con dei figli, trattare in quel modo una povera ragazza che non poteva essere riunita a sua madre né sapere nulla del destino del padre?

    Ora, tutti i giorni, seguo i consigli di mia zia. Le attività che mi impongo, anche se sono sempre le stesse, mi impediscono di pensare e di abbandonarmi alla disperazione.

    Ottobre 1793

    Dopo la partenza dei miei genitori dal Tempio, Elisabetta e io sentivamo il mio fratellino cantare a squarciagola dalla finestra. Dei canti osceni, la Carmagnola, l’Inno dei Marsigliesi, istigato da quel calzolaio, Simon, che era diventato il responsabile della sua educazione. Simon era violento, volgare, perfino brutale nei confronti di quel bambino che, allontanato dalla sua famiglia, doveva essere in uno stato di completo disorientamento. Assieme a sua moglie, gli insegnava bestemmie e frasi oscene contro Dio, la sua famiglia e gli aristocratici; lo obbligava a bere vino per fare di lui un uomo, un cittadino rivoluzionario.

    Almeno, mi consola il fatto che mia madre non abbia potuto ascoltare tutti quegli orrori! Chissà come avrebbe sofferto…

    Poi, qualche mese dopo – doveva essere gennaio – non abbiamo sentito più nulla. Non abbiamo più udito le urla di Simon e della moglie che maltrattavano Carlo. Erano forse stati allontanati?

    Una sera, eravamo probabilmente a gennaio perché faceva freddissimo, Elisabetta e io sentimmo un gran fracasso al piano superiore dove viveva mio fratello.

    «Lo portano via?» mi chiesi.

    «In un’altra prigione, anche lui?» ipotizzò Elisabetta.

    «Avranno avuto pietà? Lo condurranno da nostra madre?» domandai speranzosa.

    Quale pietà?

    Era Simon che se ne andava, il torturatore del piccolo principe; se ne andava dopo avere eseguito il suo compito con zelo e sangue freddo per ben sette mesi: il compito di uccidere quella creatura fragile e innocente, lentamente, con la tortura psicologica più atroce.

    E non sentimmo più i canti del mio piccolo Carlo. Di tanto in tanto, qualche pianto, qualche lamento.

    «Come sta mio fratello?» chiedevo ogni giorno alle mie guardie.

    «Qualcuno lo aiuta almeno, o deve lottare da solo contro l’abbandono, la solitudine, il silenzio?» insisteva zia Elisabetta.

    Proprio come me, ora.

    «Deve lavarsi da solo, vestirsi e nutrirsi?»

    «Sta bene, è al sicuro dietro una porta chiusa a chiave e con griglie di ferro,» rispondeva a volte con ironia una delle guardie.

    «C’è però un’apertura nella porta dalla quale gli passiamo il cibo: due scodelle di zuppa al giorno, un tozzo di pane e una caraffa d’acqua! Non si può lamentare il piccolo Capeto! Ah! Ah!» aggiungeva un’altra guardia con crudele sarcasmo.

    Proprio come me, ora.

    Ma Carlo, che aveva solo otto anni e mezzo, sarebbe stato capace di vivere in quelle condizioni?

    Giugno 1794 (Pratile Anno II)

    Ora siamo entrambi soli, mio fratello e io, nella più nera disperazione, trattati come animali pericolosi.

    Nessuno sale da Carlo per accendergli il fuoco. Nessuno va a fargli visita. Sento solo una voce possente che, la sera, gli ordina di dormire, e poi, durante la notte, dei passi e dei rumori di chiavistello. Lo obbligano ad alzarsi, ad attraversare la stanza per il cambio della guardia. E questi cambi avvengono in modo irregolare, a ore diverse. Di giorno, capita che nessuno salga per portargli da mangiare.

    Sarà dimagrito… Povero bambino…

    Non sento mai la sua voce. Carlo è chiuso nel suo mutismo.

    Io piango, allora, non tanto per me, ma per lui, ormai distrutto nel corpo e nell’anima.

    2

    Luigi XVI e Maria Antonietta hanno mostrato

    il loro coraggio nel momento della sofferenza;

    mai per prendere le armi e respingere la forza con la forza.

    F.-E. de Saint-Priest

    Giugno 1794 (Pratile Anno II)

    Stamattina mi sono svegliata di soprassalto con una sensazione di oppressione al petto. Faccio fatica a respirare. Mi guardo attorno angosciata. Ho paura. Dove sono? mi chiedo.

    Vedo del sangue sulle coperte ed è a questa vista che mi tornano alla mente le sensazioni che ho vissuto durante la notte.

    Un uomo grosso, pesante, sta sopra di me e mi tocca le parti intime. Poi, mentre cerca avidamente le mie labbra, mi penetra col suo sesso facendomi gridare dal dolore.

    Sento il suo alito che puzza di vino. Il suo sudore mi dà il voltastomaco. Io mi dimeno per cercare di liberarmi, ma lui è molto più forte di me e le sue braccia mi bloccano sul letto. Sento che gli altri due compari ci guardano sogghignando con malvagità e compiacimento. Poi tocca a loro, uno dopo l’altro. E io sono talmente sopraffatta che, dopo tanta inaudita violenza, mi sento venir meno.

    Quando mi sveglio, sono paralizzata. Questa sensazione non dura a lungo. Guardo a destra e a sinistra e, anche se non riesco ancora a muovermi, percepisco che sono sveglia, sdraiata sul letto della mia cella.

    È stato un incubo, mi dico. Qualunque cosa sia successa, ora sono sveglia. Non avere paura.

    No, non è stato un incubo… sono venuti, mi hanno violentata, lo hanno fatto davvero…

    E ora, che ne sarà di me?

    Resto sul letto tutto il giorno. Osservo l’alto soffitto e le pareti massicce. Mi sembra di essere in un pozzo nero.

    Oggi non me la sento di seguire le raccomandazioni di Elisabetta.

    Quando i miei carcerieri entrano, la prima cosa che chiedo è dove è stata portata mia zia. Più che mai oggi sento la sua mancanza. Era sempre stata per me come una seconda madre alla quale ero molto affezionata. Dicono che ci assomigliamo molto: bionde entrambe, con gli occhi chiari, lo stesso carattere mite.

    «È andata a prendere un po’ d’aria,» mi rispondono sogghignando.

    Più tardi, un doppio giro della chiave nella serratura mi annuncia una visita. Sento mormorare il nome di Robespierre. Ho il tempo di scrivere qualche parola su un foglietto.

    Così, eccolo, il mostro della Rivoluzione, all’apice della sua potenza, alto, il naso affilato, la fronte ampia, il volto segnato dal vaiolo, lo sguardo di ghiaccio, la parrucca infarinata, l’abito a righe, la cravatta di pizzo. Eccolo, l’avvocato di Satana, il padre del Terrore! Che vuole da me? Mi guarda con insolenza, senza pronunciare una parola. Ha forse delle mire su di me? Pensa forse di aumentare il suo potere facendo di me una preda o una sposa? Sente forse il fascino della regalità? Altrimenti, per quale ragione è venuto a vedere la figlia del re? Tuttavia, nelle condizioni in cui mi trovo oggi, non devo fargli una grande impressione. O sente il rimorso per avere allontanato da me mia madre ed Elisabetta? Non parla. Si limita a gettare uno sguardo sui miei libri.

    Non gli dico nulla. Gli allungo solo il biglietto sul quale ho scritto che mio fratello è ammalato, che ho già fatto richiesta di un medico alla Convenzione senza aver ricevuto risposta alcuna.

    Robespierre guarda il biglietto, poi se ne va, in silenzio, come è venuto.

    Non lo rivedrò mai più. Qualche tempo dopo, dalle urla della folla, Viva la Repubblica, Abbasso il Terrore, A morte Robespierre, dagli applausi che vengono da lontano, dalle campane che suonano a martello, dal vociferare delle mie guardie, capisco che qualcosa di grave è successo. Poche volte, da quando mi trovo al Tempio, ho sentito simili urla.

    I giorni passano. Faccio sempre più fatica a compiere le minime azioni quotidiane, come pettinare i miei lunghi capelli biondi.

    Ormai mi sono stancata di chiedere ai miei carcerieri dove sono stati portati i miei famigliari. Nessuno mi risponde. Non so nulla di ciò che succede a Parigi. Sono tenuta all’oscuro di tutto.

    Allora, disubbidendo ai consigli di Elisabetta, erro con la mente e ripenso a quando siamo arrivati qui al Tempio, tutti insieme: mio padre, mia madre, la zia e il piccolo Carlo.

    Era il 13 agosto del 1792. Sono passati due anni.

    Agosto 1792

    Impiegammo due ore in carrozza per arrivare al Tempio dall’Assemblea, seguiti dalla folla che ci lanciava frasi oscene. Non lo dimenticherò mai. Cosa avevamo fatto di così terribile per essere trattati in quel modo, noi, la famiglia reale di Francia? Anche i cocchieri ci insultavano e ci parlavano con insolenza, come se si divertissero. A piazza Vendôme ci fermammo davanti alla statua di Luigi XIV: era stata gettata a terra e ridotta in mille pezzi.

    «Ecco, Sire, come il popolo tratta i suoi re!» ci disse uno dei cocchieri.

    «Piaccia a Dio che la rabbia del popolo si manifesti solo su oggetti inanimati!» rispose con calma Luigi XVI.

    Scura, imponente, la fortezza mi fece una grande impressione. Benché fosse illuminata da torce come per un giorno di festa, o, meglio, come per una veglia funebre, mi spaventò. Cinta da alti bastioni, sembrava quasi una città all’interno della città, uno Stato indipendente.

    «State tranquilli!» ci aveva rassicurato mio padre al nostro arrivo. «Non vogliono farci del male; vogliono solo proteggerci. Qui staremo bene perché è una bella dimora. Appartiene all’Ordine di Malta il cui priore è mio nipote, il duca d’Angoulême. Prima ci viveva mio fratello, Artois.»

    Gli credemmo. E tirammo tutti un sospiro di sollievo.

    Tranne mia madre che commentò: «Questa torre mi ha fatto sempre paura. Quante volte ho pregato il conte di Artois di abbatterla! È così cupa!»

    Lì per lì rimasi stupita perché il duca d’Angoulême, mio cugino, era un bambino di un anno quando era stato nominato priore. Come poteva essere? Più tardi zia Elisabetta mi spiegò che mio padre l’aveva nominato tale affinché il conte di Artois potesse godere di quella proprietà che era diventata la sua lussuosa garçonnière.

    «E perché non ci hanno riportato alle Tuileries?» chiesi alla zia.

    Imbarazzata, Elisabetta non sapeva cosa rispondere.

    «Le Tuileries non sono più sicure. Hai visto cosa è successo qualche giorno fa?»

    Sì, me lo ricordavo bene. Avevo sentito le urla dei popolani che, arrivando da tutti i sobborghi della città, avevano iniziato a circondare il palazzo. Il loro furore aumentava sempre più.

    «State tranquilli,» ci aveva rassicurati mio padre. «La reggia è difesa da un centinaio di guardie nazionali e da più di mille guardie svizzere, soldati eccellenti, coraggiosi, che ci difenderanno a costo della loro vita. Niente paura, quindi. Siamo al sicuro.»

    Gli avevamo creduto anche se mi aveva colpito il volto cereo di mia madre e le sue mani tremanti mentre stringeva a sé il piccolo Carlo.

    Il sindaco di Parigi era venuto ad avvertirci che era in corso un’insurrezione popolare, poca cosa a suo avviso.

    «Sono gli uomini della Comune che hanno preso il posto del consiglio comunale moderato. Sono loro adesso che aizzano e guidano il popolo. Ma non temete! Saranno sbaragliati!» ci aveva detto il sindaco Piéton. Noi eravamo tutti radunati nella sala del Consiglio di mio padre, con i ministri, la principessa di Lamballe e Madame de Tourzel.

    Verso l’alba ci eravamo accorti che tutta Parigi era in marcia verso di noi. O meglio, contro di noi.

    «Dobbiamo andare, dobbiamo andare, venite!» ci aveva ordinato il re.

    «Ma cosa dite? No! No! Qui ci sono le guardie svizzere a difenderci! Qui siamo al sicuro! E poi non voglio abbandonare i miei fedeli amici. Sono al nostro servizio da tanti anni!» aveva replicato mia madre.

    «Venite! Dobbiamo andare!» aveva imposto di nuovo mio padre con un tono fermo che non ammetteva replica.

    Eravamo fuggiti nella vicina sala del Maneggio. Mio padre aveva chiesto all’Assemblea Legislativa di proteggerci.

    Era il 10 agosto.

    «Ma cosa voleva, infine, tutta quella gente?» chiesi a zia Elisabetta mentre l’Assemblea dichiarava il decadimento del re e discuteva del nostro destino.

    «La Repubblica!»

    «E perché mio padre non si è difeso, perché non ci ha difeso?»

    «Dando l’ordine di non sparare, voleva evitare una strage.»

    «E perché non ci hanno portato al palazzo del Luxembourg?» insistetti.

    «Ci sono delle gallerie segrete al Luxembourg e, forse, temevano una fuga.»

    «Una fuga? Ma perché mai dovremmo fuggire? Siamo la famiglia reale!»

    Elisabetta non rispose. Non poteva certamente rivelare a quella bambina che, nel giro di pochi giorni, tutto era cambiato, che quella notte la folla inferocita aveva occupato il castello facendo razzie, distruggendo tutto, tagliando le tele dei quadri, rubando l’argenteria, bevendo il vino delle cantine, assassinando brutalmente i nobili e le guardie svizzere che erano rimaste all’interno. Erano tutte cose che avrei scoperto, purtroppo, tempo dopo.

    Era il Terrore.

    Poi la Comune decise di imprigionare il re al Tempio. Le sue funzioni furono sospese. Ormai non era più il re di Francia. Era prigioniero, ostaggio della Comune.

    Al Tempio fummo accolti da una folla di persone, guardie municipali, artigiani, bottegai, popolani dagli abiti sporchi, dai modi volgari, tra cui il calzolaio Simon che, senza alcun rispetto per il re, ci seguì nel salone dei Quattro Specchi, dove ci fu servita una ricca cena, e si stravaccò sul divano blaterando, rivolto al re, sui vantaggi dell’uguaglianza.

    La fortezza nella quale fummo introdotti attraverso un grande e massiccio portone faceva parte di un insieme di edifici fatti costruire dall’Ordine dei Templari nel 1314, come mi spiegò mio padre. Oltrepassato il portone, entrammo in un’ampia corte circondata da alberi di tiglio. Nel mezzo troneggiavano due cannoni. In fondo si vedeva la severa facciata dell’antico palazzo del grande priore. Al di là della fortezza, mi apparve una massa grigia, enorme, nuda, cupa, con le sue torrette rotonde agli angoli, con i tetti a cono e le strette finestre. Era la Grande Torre, alta cinquanta metri, con muri dallo spessore medio di quattro. Le canne fumarie, enormi, correvano lungo il muro, aumentando l’aspetto arcigno della costruzione.

    La cena allestita nel salone della Grande Torre era un inganno, una farsa. Ci avevano illusi, in quel modo, che lì saremmo vissuti agiatamente come se fossimo a Versailles o alle Tuileries.

    Quando, verso le undici, ci condussero verso la Piccola Torre, vidi mia madre impallidire e mio padre avvampare per la rabbia e la vergogna.

    «Dove ci portano?» chiesi a zia Elisabetta, che mi teneva per mano mentre salivamo la stretta scala a chiocciola.

    «Si sono presi gioco di noi! Ci vogliono prigionieri,» mi rispose senza nascondere il suo sconcerto.

    Cominciavo solo allora a capire quello che ci stava capitando.

    Ci sistemarono nella Piccola Torre, attaccata alla facciata della Grande Torre. A lungo disabitata, era stata ristrutturata da poco per ospitare il vecchio archivista dell’Ordine di Malta che dovette, quello stesso giorno, portare via tutte le sue cose in fretta e furia e aiutare i rivoluzionari a sistemare in quelle stanze sporche e polverose i materassi, la biancheria e le coperte per i nuovi ospiti.

    Ogni piano era stato diviso in più parti, mediante tramezzi ricoperti di cartoni dipinti, e le volte, troppo alte, erano state nascoste con falsi soffitti. Non era certo quel sontuoso appartamento di cui ci aveva parlato mio padre.

    Il primo piano fu assegnato alle tre dame di mia madre. Noi due, invece, occupammo, al secondo piano, la vecchia camera dell’archivista dell’Ordine di Malta, espulso dal suo domicilio dagli agenti della Comune. Nell’anticamera era stata data una branda alla principessa di Lamballe, amica di Maria Antonietta. Madame de Tourzel, la nostra governante, fu sistemata nella stessa stanza del Delfino. Vi erano anche un vano per la toilette e un guardaroba. Il terzo piano era stato assegnato a Luigi XVI. Era uno stanzino illuminato da una sola finestra, sprovvisto dei mobili necessari: vi erano solo un letto a baldacchino e quattro sedie. Di fianco, in una vecchia e sporca cucina, vi era il letto di Elisabetta che fece portare anche una branda per Pauline, la figlia di Madame de Tourzel. I valletti Hüe e Chamilly dormivano in uno stanzino che dava su un’anticamera. I più fortunati furono i nostri domestici che ebbero le stanze nella parte bassa della torre, la parte più accogliente, mentre quella alta era in stato di abbandono da diversi anni.

    Non fu facile riposare, quella notte sia per la stanchezza sia per il rumore proveniente dalla sala dei guardiani che, ubriachi, ci regalarono canti sguaiati e volgari. E quello era solo un assaggio di ciò che avremmo dovuto subire in seguito.

    Piansi a lungo quella notte.

    Ero disorientata, spaventata. Non capivo cosa stesse succedendo.

    Sapevo solo che non sarei stata mai più Madame Royale, la figlia del Re di Francia.

    Da quel giorno ero diventata la cittadina Maria Teresa Carlotta Capeto, la figlia del cittadino Luigi Capeto.

    Ero diventata la figlia del tiranno.

    Ero la prigioniera del Tempio.

    3

    Ah ça ira ça ira ça ira

    Les aristocrates à la lanterne

    Ah ça ira ça ira ça ira

    Les aristocrates on les pendra

    Et quand on les aura tous pendus,

    On leur fichera la pelle au cul! ¹

    Canto popolare rivoluzionario

    Luglio 1794 (Termidoro Anno II)

    Qualche tempo dopo la visita di Robespierre, ricevo un’altra persona di riguardo.

    Ieri, quando ho sentito

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