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Toby rice e la cappella oscura
Toby rice e la cappella oscura
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E-book496 pagine7 ore

Toby rice e la cappella oscura

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Info su questo ebook

Toby Rice, Laura Becket e Andrew McLeod. Tre ragazzi inglesi che vivono in città diverse e conducono vite diverse. All’apparenza, niente sembra legare il loro destino: Toby sta tornando a casa dopo aver visitato il college in cui si iscriverà; Laura si sta recando al ristorante in cui lavora come cameriera, mentre Andrew ha appena terminato di suonare con la sua band. Prima che termini la giornata, una telefonata cambierà la loro vita. Alle luci dell’alba si ritroveranno nella Winston House, una grande dimora vittoriana che sorge ai confini meridionali di Blackchapel, una contea dello Yorkshire. Qui Toby, Andrew e Laura apprenderanno che, insieme ad altri sei ragazzi provenienti dalle parti più disparate del mondo, sono stati scelti come membri di un’antica società segreta dalla cui attività dipende la sopravvivenza di molti abitanti di Blackchapel, addirittura dell’intera Inghilterra. Per Toby, giunto nello Yorkshire dopo peripezie che hanno messo a repentaglio la sua vita, si apriranno le porte di una realtà parallela. Smessi di notte i panni dello studente universitario, con i suoi nuovi occhi scoprirà, nascosto sotto il velo della quotidianità di Blackchapel, un piccolo universo oscuro regolato da strane regole e abitato da personaggi ambigui e pericolosi. Ma il pegno da pagare sarà alto: proprio quando Toby comincerà a prendere confidenza con la sua nuova vita, un messaggio in codice trovato quasi per caso in una delle stanze della Winston House lo porrà suo malgrado di fronte a nuovi dilemmi e paure. Quella che sembra un’innocua caccia al tesoro si trasformerà per Toby, Andrew e Laura in un labirinto di misteri e inganni, il fulcro di una vecchia leggenda celata dall’ ignoranza e dalla paura: la Verità
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2013
ISBN9788867821839
Toby rice e la cappella oscura

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    Anteprima del libro

    Toby rice e la cappella oscura - RAY ANTHONY TREAYS

    NOCTURNA

    Sezione fantasy

    a cura di Alfonso Zarbo

    1

    Ray AnthOny Treays

    TOBY RICE

    E LA CAPPELLA OSCURA

    Nocturna

    Ray Anthony Treays

    Toby Rice e la cappella oscura

    NOCTURNA*

    Via Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda  Milano

    Tel 02 9094203

    email: edizionigds@hotmail.it

    www.nocturnagds.it

    direttore editoriale Iolanda Massa

    curatori:

    Filomena Cecere (new gothic, horror),

    Roberto Carlo Deri (fantascienza)

    e Alfonso Zarbo (fantasy).

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Questo libro è il prodotto finale di una serie di fasi operative che esigono numerose verifiche sui testi. È quasi impossibile pubblicare volumi senza errori. Saremo grati a coloro che avendone trovati, vorranno comunicarceli.

    Per segnalazioni relative a questo volume: iolanda1976@hotmail.it

    *marchio editoriale di EDITRICE GDS

    A S e a Z

    SOPRA LA CITTÀ

    "Senza la fantasia,

    non esisterebbe neanche la realtà."

    Frankie Shepard, Memories

    "Now I lay me down to sleep

    pray the Lord my soul to keep

    if I die before I wake

    pray the Lord my soul to take."

    Metallica, Enter Sandman

    CAPITOLO I

    DRAMATIS PERSONAE

    Cambridge, Inghilterra orientale, ore 15:25

    Era la prima volta che un temporale di quella portata si abbatteva su Cambridge. Per tutta la notte il cielo aveva rombato come un enorme stomaco affamato, ma solo pochi minuti prima che le lancette dell’orologio del Trinity College segnassero le 5:00 aveva cominciato a diluviare. In un domino di luci elettriche tremolanti, una lunga spina dorsale che attraversava la città fino alle distese erbose dei Fens, Cambridge si era svegliata immersa in trenta centimetri d’acqua.

    Alle 9:57 il corso inferiore del fiume Cam era straripato, travolgendo le houseboats in prossimità degli argini. Alle 12:03 i gabinetti dell’ala ovest del Corpus Christi College avevano rigurgitato una condensa fangosa che aveva inondato le sale comuni e le stanze degli studenti. Uno di loro, Kenny Braxton, si sarebbe ricordato di quel giorno vent’anni dopo di fronte ai giurati che gli assegnavano il Nobel per la pace.

    Nel primo pomeriggio il vento aveva cominciato a intensificarsi. Alle 14:02 aveva raggiunto le centocinquanta miglia orarie, che erano diventate centosettanta alle 14:09. Alle 14:30 un automezzo che trasportava pollame si era ribaltato sull’asfalto viscido della M11, provocando un tragico tamponamento a catena.

    Alle 15:25 Toby Rice si apprestava a lasciare Cambridge per tornare a casa.

    Toby si trascinò in direzione della stazione ferroviaria, riparandosi dalla pioggia con un ombrello che la furia del vento aveva sbrindellato. Quando giunse nell’atrio una voce metallica annunciò la partenza imminente del treno diretto a StratforduponAvon. Toby cominciò a correre.

    Si caracollò nel sottopassaggio e ci mancò poco che le suole consumate delle sue sneakers scivolassero sui gradini resi scivolosi dall’acqua. Timbrò il biglietto senza fermarsi e pattinò fino alle scale che conducevano sul terzo binario; le risalì con grandi falcate, quindi si precipitò alla carrozza più vicina. Riuscì a salirvi un attimo prima che la porta si chiudesse alle sue spalle. Con un cigolio lamentoso il treno cominciò a muoversi.

    Toby trafelò di sollievo. Era zuppo d’acqua fin dentro i calzini, ma non gli importava. Se fosse rimasto a terra, i suoi guai sarebbero stati ben peggiori.

    Si lasciò cadere sul primo dei tanti sedili vuoti, alla sua immediata sinistra. Osservò il profilo accademico di Cambridge scivolare al di là dei binari, fino a quando le case con i tetti di ardesia divennero sempre più sporadiche, e la campagna prese il posto dell’asfalto. Quando il treno passò sotto un cavalcavia il paesaggio scomparve: sul vetro rigato dalla pioggia prese forma il contorno opalescente di un volto dai lineamenti regolari, incorniciato da una piccola chioma bagnata di capelli castani. Toby osservò pensieroso il suo riflesso, prima che si dissolvesse nuovamente nell’ultima, debole luce del giorno. Al ritmo cadenzato dello sferragliare del treno sui binari, si addormentò.

    Poco dopo ebbe l’impressione di svegliarsi al rumore cigolante di una porta. Dietro le palpebre chiuse, Toby mise a fuoco le iridi: all’estremità opposta della carrozza era comparsa una figura decisamente singolare.

    Si trattava di una sagoma piccola e leggermente ricurva, avvolta in una veste nera integrale che la faceva assomigliare a una macchia scura in movimento, simile a un’ombra. Toby la vide voltarsi a sinistra e a destra, nell’atteggiamento di chi è in cerca di qualcosa, o di qualcuno. L’ombra avanzò di pochi passi, prima di fermarsi accanto a un ragazzo che aveva il capo reclinato sul poggiatesta. Lo studiò per quelli che a Toby sembrarono minuti, prima di passare a esaminare il passeggero che occupava il sedile dirimpetto.

    Dentro la sua testa, Toby strizzò le palpebre. Quando le riaprì, l’ombra era scomparsa. Un attimo dopo ricomparve: la vide restringersi all’inverosimile fino a passare nell’interstizio tra due sedili, prima di scivolare di nuovo nel centro del corridoio e riacquisire la forma normale.

    All’improvviso Toby ebbe paura. Dalla sua bocca si liberò un gemito di protesta, così istintivo che non riuscì a soffocarlo. Nella carrozza echeggiò in risposta un rumore cupo, come il gorgoglio dell’acqua in un condotto intasato dalla sporcizia.

    L’ombra si era accorta di lui.

    Toby serrò la mascella e cominciò ad ansimare. Qualcosa nella sua testa gli diceva che era tutta una finzione, che se lo voleva veramente quell’immagine distorta sarebbe stata risucchiata via sul fondo dei suoi occhi. Ma qualcos’altro, forse la stanchezza accumulata nei tre giorni di visita al college in cui avrebbe studiato, lo teneva ancorato alle redini di quella visione.

    L’ombra cominciò ad avvicinarsi a Toby, ma non dava l’impressione di camminare. Piuttosto era come se sotto i suoi piedi, anch’essi celati dalla veste nera, ci fosse un tappeto semovente. Toby vide se stesso dall’esterno stringere i braccioli del sedile e puntare i piedi sul pavimento. Fu questione di pochi istanti: l’ombra balzò verso di lui come una macchinetta a molla, atterrando a meno di un metro dal suo sedile.

    Nel momento stesso in cui l’ombra si abbassava il cappuccio, Toby aprì gli occhi.

    Inghiottì aria con la bramosia di un sub scampato per un soffio all’annegamento. Si guardò attorno, questa volta da sveglio: di fronte a lui non c’era nessuno. La porta all’estremità opposta della carrozza era chiusa e nessuna strana figura stava attraversando il corridoio. Fuori, al di là dei finestrini rigati dalla pioggia, continuava a scorrere veloce la campagna alluvionata del Cambridgeshire. La giornata si stava spegnendo inesorabilmente al di qua dell’orizzonte.

     Toby respirò di sollievo. Era stato solo un sogno.

     La visuale al suo fianco si oscurò all’improvviso. Toby si girò di scatto alla sua destra, dove un donnone nero in divisa da controllore lo fissava sorridente. In realtà solo le sue labbra sorridevano, i suoi occhi erano spenti, come quelli di un robot. Toby constatò che i seni le penzolavano quasi fino all’altezza dell’ombelico, dove il ventre le si gonfiava fino al punto da lasciare sospettare che i bottoni della sua divisa rossa e argento potessero zampillare da un momento all’altro.

    L’attenzione di Toby si concentrò poi sulle sue grosse nocche, che avevano cominciato ad allentarsi e a stringersi sulla pinza obliteratrice stretta nel pugno. Lo aprì e lo chiuse. Lo riaprì e lo richiuse.

    Clicclac, clicclac.

    Toby si sfilò il biglietto dalla tasca posteriore dei jeans. Lo porse al donnone, che lo afferrò e lo osservò attentamente rigirandoselo tra le mani. Glielo rese senza forarlo.

    Si stava allontanando, quando Toby le rivolse la parola. Non sapeva bene perché lo stesse facendo, ma così si sentiva di fare in quel momento. Il donnone si voltò. Aveva ancora stampato sul viso il suo sorriso spento.

    Mi scusi… io… ho avuto l’impressione di vedere una…

    Era un sogno, stupido.

    Una persona vestita con…

    Ma sembrava così reale.

    Sembrava stesse cercando qualcuno.

    La donna cannone esplose. Prima masticò un risolino sottile, gutturale, simile a un rantolio. Un attimo dopo diede in una risata tonante, tanto che la gola le si gonfiò come quella di un rospo e gli occhi le fuoriuscirono appena dalle orbite, rivelando una trama di piccole vene gialle tutt’intorno all’iride.

    Oh, marameo biascicò e cominciò a guardare in alto e sventolarsi la mano davanti al viso. Si sfilò dalla tasca un fazzoletto con cui prese ad asciugarsi le lacrime. Quando lo aprì, Toby riconobbe nel disegno ricamato nell’angolo a sinistra un coniglio che sbucava da un ovetto pasquale.

    Il donnone si allontanò singhiozzando e barcollando.

    Un tuono crepitò nel cielo, scuotendo Toby dal turbinio dei suoi pensieri. Guardò fuori, sconsolato. La pioggia si stava infittendo, come se l’avvicinarsi della notte le desse nuovo vigore. Un albero spoglio e secco comparve e scomparve al di là del finestrino. Per uno strano gioco di associazioni mentali Toby pensò a sua madre, che a casa stava terminando i preparativi per il compleanno di Emily. E pensò a Emily, sua sorella di sette anni, che trotterellava felice per il salotto, in fremente attesa.

    Toby si allungò sul sedile, alla ricerca di una posizione comoda. Quando fosse arrivato a StratforduponAvon, tutto sarebbe stato pronto. Sarebbero venuti gli ospiti e la casa si sarebbe riempita di parole e risa. Si sarebbe mangiato e bevuto e tutti sarebbero stati felici. Molto felici.

    La festa stava per cominciare.

    Piccadilly Circus, Londra, ore 17:55

    Laura Becket camminava a passo svelto sotto le insegne luminose del Trocadero Centre, divincolandosi tra la gente che affollava le strade del cuore pulsante di Londra.

    Una folata improvvisa le fece ondeggiare i lunghi capelli castani ai lati del volto e sulla schiena. Laura alzò gli occhi al cielo: grandi ammassi di nuvole si stavano serrando tra di loro come le tessere di un puzzle, compatte e scure. Li riabbassò quando alcune goccioline d’acqua le bagnarono la fronte e le labbra.

    Un fulmine spaccò in due l’orizzonte. Ne seguì un tuono roboante che trasformò il ticchettio della pioggia in tamburellio, che divenne scroscio. In pochi minuti, il traffico nella City si congestionò. A metà strada dal Flounders, il ristorante in cui lavorava come cameriera, Laura cominciò a correre.

    Riparandosi la testa con il tascapane attraversò a grandi falcate Leicester Square, dove gli artisti di strada stavano sbaraccando in fretta la propria roba. Imboccò Charing Cross Road e da lì si caracollò su Long Acre, prima di svoltare a destra in Garrick Street. Superò l’ingresso principale del Flounders e si infilò nel culdesac che conduceva nel cubicolo adibito a spogliatoio del personale di servizio. Una volta dentro, Laura tirò il fiato.

    Cercò di asciugarsi e cambiarsi in fretta, non solo perché era in ritardo. Stare in quella stanza minuscola, buia e muffita le procurava sempre la sgradevole sensazione di trovarsi in un mondo parallelo dimenticato, che poteva ricevere solo echi lontane della vita reale. Se poi gli unici segnali di attività umana nei dintorni erano riconducibili a onde sonore ad alto voltaggio emesse dall’ugola di Leroy Bell, il suo capo, allora il turno di lavoro si prospettava lungo e costellato di insidie.

    Un anno prima, Laura si era presentata nell’ufficio di Leroy Bell, un omino calvo e irascibile, sicura che non sarebbe stata scelta come cameriera nel suo prestigioso ristorante. Ne era uscita stringendo un foglio di carta firmato con un ghirigoro svolazzante, nonostante tra le cinquantaquattro candidate presentatesi al suo malizioso cospetto fosse l’unica a non avere un briciolo di esperienza sulle spalle. In un primo momento aveva pensato che Leroy Bell si fosse addolcito quando lei gli aveva detto di essere una ragazza volenterosa e sveglia, che stava cercando di mettere da parte un po’ di soldi per contribuire alle spese della sua futura istruzione universitaria. I dubbi sul cinismo del suo nuovo capo erano stati fugati la sera successiva, quando Susan Bones, una ragazza madre che lavorava al Flounders da due anni, le aveva fatto notare (non che Laura non se ne fosse accorta) le occhiate in tralice che i clienti facoltosi riservavano alle cameriere.

    Leroy vuole solo ragazze carine e con un bel fisico le aveva sussurrato con saggezza indifferente mentre le mostrava come servire il gelato nelle coppette. Non importa se non sai tenere i piatti sull’avambraccio, quello lo impari qui. L’importante è avere due belle tette o un culo sodo, meglio se tutti e due insieme. E se sei giovane, tanto di guadagnato. I pezzi grossi che vengono qua dentro non pagano per le schifezze che gli propina Leroy. Pagano per vedere noi.

    A Laura capitava ancora di pensare, di tanto in tanto, che aveva ottenuto quel lavoro a discapito di ragazze che ne avevano più bisogno di lei. Aveva biasimato Leroy Bell e neanche i soldi che lui le dava, non molti in fin dei conti, erano riusciti a farle cambiare idea su di lui e sulla sua dignità di uomo e datore di lavoro. Adesso, a pochi giorni dall’inizio dell’Università, Laura non vedeva l’ora di sciacquare via dalla sua memoria l’immagine della sua faccia tonda e scaltra, e la puzza di frittura dai suoi capelli.

    Quella sera, a causa della forte umidità, erano crespi e ribelli. Laura se li frizionò e li pettinò con gesti rapidi, ai due lati della scriminatura. Srotolò l’organza bianca della divisa sulle maniche e si abbottonò il colletto fino a sentire la sua presa salda sulla gola. Nell’oscurità quasi totale dello spogliatoio, Laura si specchiò per pochi istanti.

    Le sue labbra si allungarono in un piccolo sorriso speranzoso.

    Laura uscì dallo spogliatoio e si diresse alle cucine. Quando passò davanti la cassa, Yves, il socio di Leroy, le porse la cornetta del telefono come se le stesse passando un grosso verme viscido.

    È… per me?

    Stupidina cinguettò con sufficienza Yves, e si allontanò volteggiando sulle punte.

    Laura sospirò. Poi si ricompose. Sì?

    Sentì schiarirsi una voce maschile. In un primo istante le sembrò quella di suo nonno, ma furono sufficienti poche parole per capire che dall’altra parte della cornetta non c’era né un suo parente, né una persona che conosceva.

    Buonasera Laura, il mio nome è Morvus Wolfe. Ho bisogno di parlare con lei.

    La voce suonava profonda e suadente, screziata da una vena sottile di autorevolezza.

    Laura si accigliò. Morvus Wolfe ha detto? Non credo di conoscerla.

    Oh, poco male. Le chiedo solo di ascoltarmi, Laura.

    Laura si guardò intorno. Leroy non era nelle vicinanze e Yves, per quanto stizzoso, era meno famigerato di lui. "Sì, se

    non ci vuole molto" tagliò corto Laura.

    Sarò brevissimo, allora. L’ho chiamata per chiederle se può raggiungermi.

    Una ciocca di capelli le scivolò sul viso, ma Laura non se la sistemò dietro l’orecchio, com’era solita fare.

    Cosa? Raggiungerla? Credo che lei si stia sbagliando.

    Io non credo, signorina Becket ribadì la voce. "Lei capirà che per telefono non è possibile spiegare molte cose, e ciò che

    devo dirle richiede necessariamente la sua presenza."

    Laura sospirò piano, come per invocare pazienza. Senta, credo che lei abbia sbagliato persona. Io non la conosco e non so cosa…

    Nessuno sbaglio, Laura. Lei abita a Londra nel quartiere di Camden, al civico 11 di Camel Road, giusto? E lavora da circa un anno in un noto ristorante gestito da un uomo caritatevole chiamato Leroy Bell, dico bene?

    Laura si morse il labbro. Sì... ma io non so chi sia lei e cosa stia cercando, perciò se si tratta di uno scherzo…

    All’uscita del ristorante c’è una macchina che l’aspetta. Termini il suo lavoro, poi si diriga alla vettura e salga. È di fondamentale importanza che…

    Un dito le puntellò la scapola e Laura sobbalzò. Si voltò di scatto: Leroy stava ticchettando l’indice affusolato contro il grosso quadrante del Rolex che portava al polso. Senza pensare se quella fosse una scelta giusta o meno, Laura abbassò la cornetta.

    Chi era? bisbigliò malizioso Leroy.

    Cosa? Oh, ecco…

    Allora?

    "Ehm… era la mia bisnonna. Mi ha detto che non ha più tovaglie, così mi ha chiesto se tu fossi disposto a privarti di una

    delle tue camicie."

    Aveva esagerato. Quelle parole potevano costarle il licenziamento immediato, ma a Laura non importava di perdere le competenze degli ultimi giorni. Ricambiare Leroy con la stessa carta con cui lui l’aveva soggiogata per tutto l’anno, quella del cinismo e del poco rispetto, era diventata per Laura una tentazione troppo forte.

    Con un gesto stizzito, Leroy staccò il filo del telefono dalla presa e lo sbatté a terra. Laura si allontanò senza obiettare.

    La cucina era in subbuglio a causa del gran numero di clienti, quella sera. Sui fuochi ardevano enormi padelle sporche di grasso bruciato, da cui zampillavano schizzi di olio e sbuffavano pennacchi di fumo come piccoli geyser. Ai lati del soffitto, i tubi aspiranti rombavano come macchine infernali.

    Susan le passò accanto volteggiando con un numero imprecisato di piatti contenenti frittura di pesce su entrambe le braccia. Preparati al peggio la incoraggiò e sparì. Laura sospirò e si rimboccò le maniche.

    All’una, dopo quella che era stata una serata campale, aveva terminato il suo turno. Si diresse indolenzita allo spogliatoio, dove si cambiò con gesti automatici e stanchi. Raccolse la sua borsa, l’ombrello delle emergenze e raggiunse il salone oramai deserto, fatta eccezione per gli ultimi clienti della notte. Salutò nessuno in particolare, né si aspettò che qualcuno le rispondesse. Aprì la porta.

    Garrick Street sembrava un fiume in piena. Laura indugiò sulla soglia: alle sue spalle, le luci del Flounders brillavano tremule da dietro le finestre. Poteva tornare dentro e aspettare che spiovesse, pensò. O poteva aprire l’ombrello, affrontare la pioggia battente e correre verso la Northern line. La terza alternativa era quella che a Laura causava più prurito: guardarsi intorno con maggiore convinzione di quanto non stesse facendo, per verificare se ci fosse davvero una macchina che la stava aspettando.

    Mentre serviva ai tavoli, Laura aveva continuato a ripetersi che quella telefonata era stata uno scherzo o un errore. Nonostante avesse impiegato tutta la serata per avvalorarle, entrambe quelle ipotesi le sembravano adesso deboli e scricchiolanti. Nessuno dei suoi amici le aveva mai fatto scherzi di quel tipo; nessuno di loro l’aveva mai chiamata sul numero del ristorante, neanche i suoi genitori. Anche l’idea che si trattasse di un omonimia era inverosimile; l’uomo con cui aveva parlato al telefono sapeva troppe cose esatte su di lei: dove abitava, che lavoro faceva e da quanto tempo. Conosceva persino il civico della sua abitazione.

    Morvus Wolfe.

    Quel nome non le diceva niente. Non aveva mai conosciuto una persona che si chiamasse così, quantomeno non se ne ricordava. Quell’uomo doveva però conoscere Laura, tutt’al più doveva aver parlato con qualcuno che gli aveva fornito quelle informazioni su di lei.

    Laura ripensò alla sua voce. La sua eco l’aveva tormentata per tutta la serata e anche in quel momento, più forti dello scroscio della pioggia, continuava a sentire quelle parole svolazzargli nelle orecchie come insetti fastidiosi, difficili da scacciare.

    Non voleva tornare dentro. Poteva verificare che non ci fosse qualcuno ad aspettarla nelle macchine parcheggiate ai lati della strada; o poteva scomparire sotto la città e tornare a galla quando fosse stata troppo lontana dal Flounders e dal rintocco cupo della voce di Morvus Wolfe.

    Laura cominciò a risalire Garrick Street controvento.

    Giunta all’incrocio con Long Acre, il cuore le scoppiò nel petto. Poco distante dal punto in cui si trovava, parcheggiata sotto un albero, vide una macchina. Era ferma e aveva le luci abbaglianti accese. C’era qualcuno seduto al posto di guida ma in controluce Laura riusciva a distinguere solo i contorni della sua figura, simile a una piccola macchia che frusciava sotto una veste nera. Gli abbaglianti si spensero e si accesero, ammiccandole. Due volte, poi un’altra ancora.

    Laura trasalì e il piombo che quella visione le aveva riversato nelle gambe si disperse attraverso le suole delle scarpe. Si allontanò a grandi passi nella direzione opposta, quella sbagliata. In lontananza crepitò il tuono. Poco distante, un motore prese a rombare.

    Laura cominciò a correre ma proprio a causa della repentinità con cui quell’ordine era giunto ai muscoli delle sue gambe, scivolò sull’asfalto viscido. Urtò il ginocchio e il fianco contro la recinzione di un’aiuola e l’ombrello le volò via, divorato dalla furia del vento. Cercò di alzarsi, ma una fiammata terribile alla gamba le tolse il respiro. Impotente, osservò la sagoma avvolta nella veste nera balzare fuori dalla macchina che l’aveva seguita e avvicinarsi a lei, bloccandole il passaggio.

    Laura aprì la bocca per gridare ma quando la misteriosa figura si abbassò il cappuccio che gli oscurava il volto, l’urlo le si incagliò in gola.

    Blackchapel, Yorkshire settentrionale, ore 23:53

    Andrew McLeod ripose nella custodia la sua chitarra, una Fender Mustang con controlli Jaguar che aveva acquistato con i soldi guadagnati facendo i lavori più disparati. Dopo tre ore passate nel vecchio garage che utilizzavano per provare, l’unico posto della città in cui potevano suonare senza dover dare fondo alle loro tasche vuote, gli Aleka’s band erano stanchi e sudati.

    Colin Butcher, un ragazzone con due basette alla Elvis Presley, lasciò cadere a terra le bacchette della batteria e si deterse la fronte con un grosso asciugamano. Marshall e Sean Pillow, il bassista e l’altro chitarrista del gruppo, erano abbacchiati e taciturni. Andrew McLeod si passò le mani nella matassa scompigliata di capelli e sospirò di frustrazione.

     Ragazzi sono tre settimane che proviamo questi maledetti pezzi e il risultato è sempre lo stesso: schifo assoluto.

    Andrew fissò Sean, in attesa di una risposta che non arrivò. Fu Marshall a parlare per lui. La sua voce era titubante.

    Non è solo colpa nostra, Andrew. Questi pezzi sono impegnativi, e poi non provavamo da una settimana praticamente. E come se non bastasse…

    "Come se non bastasse… cosa?" lo incalzò Andrew, fulminandolo con lo sguardo.

    Questo posto, maledizione, ecco cosa. Qui dentro manca l’aria anche quando fuori è sottozero, per non parlare di questi maledetti scaffali che ci impediscono anche di muoverci. Non è così facile.

    Andrew studiò Marshall con attenzione, poi volse lo sguardo a Sean, a Colin, per tornare a concentrarsi su Marshall. Trascorsero alcuni secondi di significativo silenzio, interrotto solo dal rombo delle macchine che, di tanto in tanto, sferragliavano inferocite su Glensville Road.

    Andiamo ragazzi, questa del garage è solo una scusa si lamentò Andrew. Lo so che qui dentro non vorrebbe starci nessuno, ma è il solo posto che abbiamo per provare. Lo sapete meglio di me che il problema non è questo.

    Colin, che da qualche secondo era intento a fissare i suoi scarponi, alzò lo sguardo. E quale sarebbe, allora?

    Andrew ripose la chitarra nella custodia e chiuse la zip. Il problema è che non ci crediamo abbastanza. Stiamo suonando senza convinzione, come se fossimo rassegnati a restare in questo garage per tutta la vita.

    Lo sai benissimo che non possiamo essere ciò che non siamo. Era stato Sean a parlare, con voce piatta e sfiduciata. Andrew cercò gli occhi di Sean e in quelli puntò i suoi, due fiamme verdi alimentate a fuoco vivo dall’irruenza e dalla sfrontatezza dell’adolescenza.

    Non lo sai neanche tu cosa… cominciò Andrew.

    Guardati intorno! Sean fece un gesto sprezzante, che comprendeva loro quattro e lo spazio angusto che li circondava. Siamo quattro ragazzini che suonano le loro stupide canzoni in un posto squallido. Più di così non possiamo fare.

    Andrew lanciò un’ultima occhiata a Sean, prima di incamminarsi in direzione della porta arrugginita che sbucava sul giardino spoglio della casa di suo zio, Lennon McLeod. Si fermò sull’uscio, dove restò per qualche secondo in silenzio.

    Parlò senza voltarsi. Per una volta nella mia vita, una volta sola, voglio pensare che sarò io e non un altro a superare la muraglia. Se è vero che il peggior fallimento è non tentare, io non ho nessuna intenzione di fallire nell’unica cosa che so fare.

    Andrew uscì dal garage e si incamminò lungo Glensville Road, incurante della pioggia e del freddo.

    Erano passati tredici mesi da quando lui e Sean avevano formato gli Aleka’s band. Tredici mesi in cui i progetti entusiastici che avevano cimentato all’inizio la loro unione erano andati dissipandosi lentamente davanti ai loro occhi, come aria da una fuga minuscola. Non avevano un posto dignitoso in cui provare, ma questo non era il maggiore dei loro problemi. Molto più deludente era, secondo Andrew, che non riuscissero a creare una band diversa da tutte le altre che riempivano le palestre delle scuole della città e i palchi squallidi dei rave suburbani. Una band che avesse un’identità riconoscibile, che riuscisse a realizzare qualcosa di più di semplici cover dei pezzi degli AC/DC e dei Wolfmother. In fin dei conti, agli occhi dei loro coetanei apparivano solo come dei ragazzi con idee e storie personali intricate come i loro capelli, che sguazzavano sui marciapiedi puzzolenti di piscio e birra dei pub, senza qualcosa di interessante da dire. 

    Quando arrivò a casa Andrew si chiuse l’uscio alle spalle e tirò un respiro di sollievo. Gocciolava acqua come uno spaventapasseri zuppo.

    Dove sei stato?

    Adam McLeod, un uomo sulla cinquantina calvo e trasandato, posò la cornetta del telefono e contrasse la mascella.

    Andrew non aveva tardato a capire che suo padre era una di quelle persone convinte che ogni singolo istante della vita di un essere umano dovesse essere impiegato utilmente. Ogni sforzo, ogni singola corda doveva essere tesa per il raggiungimento di obiettivi sensati. Vedere che il suo unico figlio passava il suo tempo con quelli che lui definiva un mucchio di mediocri, sentirgli dire che non voleva andare al college e sentirlo rincasare ogni giorno a notte fonda per ritirarsi in una stanza che puzzava di chiuso e indifferenza, era quanto di meno avesse sperato per Andrew.

    Se lo sai, perché me lo chiedi gli rispose con superficialità Andrew e si avviò alle scale che portavano di sopra, lasciando dietro di sé una scia di impronte fangose. Era stanco e non aveva voglia di litigare, quella sera. Voleva solo sdraiarsi sul

    suo letto e fissare il buio e la pioggia fuori dalla finestra.

    Se ti vedesse tua madre…

    Andrew si immobilizzò a metà scala.

    La mamma avrebbe approvato le mie scelte. Sei tu che ancora non ci riesci.

    E come potrei, vedendoti che sprechi la tua vita in questo modo?

    La vita è mia e ne faccio quello che voglio dichiarò con durezza Andrew. Non m’importa.

    Girati, devo parlarti.

    Andrew fece finta di non sentire e continuò a salire le scale.

    Obbedisci!

    Andrew si girò di scatto e rivolse al padre un’espressione colma di risentimento. Ti ho già detto che non…

    Questa è un’altra cosa disse il signor McLeod e la sua vo

    ce sembrò rimpicciolirsi, come se volesse redimersi da quell’ennesimo scontro.

    Ho parlato al telefono con una persona, prima. Questa persona mi ha detto che…

    Andrew scorse qualcosa in fondo agli occhi del padre. Un luccichio che non aveva mai visto prima, come se per un istante al posto delle iridi avesse avuto due piccole monete d’ argento.

    Adam McLeod si schiarì la gola. Conosci un uomo che si chiama Morvus Wolfe?

    Mai sentito.

    Certo concesse Adam McLeod, quasi fosse compiaciuto da quella risposta. Questo Morvus Wolfe è a capo di un… be’, un gruppo di persone, qui in città, persone che hanno un compito molto importante.

    Che genere di compito?

    Adam McLeod annuì, più rivolto a sé stesso che al figlio. Questo Morvus Wolfe mi ha detto che tu sei… La sua voce adesso era un tremito sottile.

    Cosa?

    Adam McLeod socchiuse le labbra, ma le serrò prima di proferire parola.

    Che io sono cosa? insisté Andrew. Di che diavolo stai parlando?

    L’appuntamento è tra poche ore alla Winston House disse Adam McLeod con un sussurro.

    Andrew guardò il padre con sospetto. Guarda che non ho nessuna voglia di mettermi addosso una tuta arancione e andare a difendere le balene al Polo Nord.

    Adam McLeod scosse piano il capo e si allontanò. Poco dopo, passando davanti la sua camera da letto per andare in bagno, Andrew lo vide seduto con il volto coperto dalle mani.

    CAPITOLO II

    DUE OSPITI NON INVITATI

    StratforduponAvon, Warwickshire, ore 20:00

    Sdraiato sul letto, Toby Rice fissava il soffitto della sua stanza, pensieroso.

    Come si fa a leggere un libro in cui non ci sono illustrazioni? chiedeva Alice alla sua tata, poco prima che il Bianconiglio cominciasse a zampettare nervosamente in direzione della porticina che dava accesso al Paese delle Meraviglie.

    E come si fa a leggere un libro in cui ce ne sono troppe, di illustrazioni? si chiedeva frustrato Toby, accarezzando la brossura della mastodontica copia dell’Inferno di Dante Alighieri, aperta da più di due settimane all’inizio del Canto Tredicesimo: "Non era ancor di là Nesso arrivato/ quando noi ci mettemmo per un bosco/ che da nessun sentiero era segnato."

    Non si trattava dell’unico libro che non aveva terminato di leggere quell’estate. Ai piedi del letto, sparsi tra scarpe da ginnastica logore, erano aperti a metà l’Amleto e l’Enrico VIII di Shakespeare, suo celeberrimo concittadino, mentre il volume intitolato I viaggi di Finnegan aveva da qualche giorno preferito chiudersi da solo e ritirarsi in un cantuccio di polvere accanto al comodino. Da lì gli occhietti da topo di James Joyce scrutavano Toby con aria di rimprovero, in attesa di essere degnati di un’attenzione maggiore di quella che poteva dedicargli un diciannovenne alle prese con i preparativi della sua emancipazione. Perché quella era la questione. Toby aveva trascorso l’intera estate in attesa della partenza per il college e adesso quel momento era arrivato. Il solo pensiero di allontanarsi da casa lo aveva colmato di un senso di possibilità irresistibile che gli aveva impedito negli ultimi due mesi di chiudersi in camera e dedicarsi alla lettura dei classici, che desiderava concludere prima di ritrovarsi sepolto da pagine ingombre di grafici e tabelle. Ma non c’era più tempo. Ancora due giorni, e lui avrebbe lasciato il suo piccolo, noioso paese.

    Ancora due giorni.

    Il crepitio di un tuono lo fece sussultare. Il fulmine che ne seguì illuminò la stanza di un riflesso violaceo che comparve e scomparve. Pochi, concitati istanti: poi tornò il buio. Al suono dello scroscio della pioggia nella grondaia e di quello cupo del vento, Toby si assopì. Si svegliò pochi minuti dopo.

    I festeggiamenti per il compleanno di Emily erano al culmine. Sceso in salotto, Toby fu travolto da un’ondata di colori e suoni che lo lambiva da tutte le direzioni, una sorta di grande caleidoscopio in cui risuonavano le risate argentine dei bambini e le voci profonde e basse degli adulti. Per un attimo quel mondo gli vorticò intorno senza che lui avesse possibilità di bloccarlo, poi i sensi intorpiditi dalla permanenza nel silenzio del piano superiore cominciarono ad abituarsi al nuovo ambiente.

    Toby si stropicciò gli occhi, e quando i grossi fiori neri e gialli cominciarono a scomparire, si guardò intorno: c'erano bambini ovunque. Si rincorrevano, gridavano, piangevano, cadevano e si rialzavano, mentre i loro genitori parlavano e si servivano del cibo che era stato sistemato su due lunghi tavoli posti a L. Nulla era rimasto disadorno, neanche il soffitto. Le grosse travi di legno che lo sostenevano erano state inghirlandate con coriandoli variopinti intrecciati come rampicanti sul tronco di una palma tropicale, mentre palloncini rossi, gialli e blu volteggiavano nei punti più disparati dell’ampia stanza. Toby si avvicinò ai tavoli, facendosi spazio tra una selva di marmocchi che sfrecciavano in tutte le direzioni, ben attento anche a non mettere i piedi sui pezzi di cibo che costellavano il pavimento.

    Non era rimasto molto. Le cose più buone erano già state mangiate, mentre altre giacevano sbocconcellate nei piatti abbandonati o sulle tovaglie. Toby si guardò intorno: poco distante dai tavoli Emily stava scartando i suoi regali con espressione estatica, circondata da un nutrito gruppo di amichetti che assisteva alla scena scalpitando e strillando.

    Mamma, non c’è più niente da mangiare? chiese Toby a sua madre, che in quell’istante gli sfrecciò davanti. La signora Rice, una donna dal portamento regale, magra, alta e occhialuta, non lo sentì, forse a causa del rumore. Toby la vide sfilare eretta in direzione di Emily. Quando le fu accanto, le sue labbra sottili si allungarono in un sorriso muto e le sue mani si congiunsero. 

    Toby decise di tornare in camera. Stava salendo le scale quando la porta del bagno si aprì. Ne uscì Grace Kilmer, l’insegnante di pianoforte di Emily.

    Oh Toby, ecco qualcuno finalmente! disse esasperata la donna. C'è il telefono che ha squillato per più di dieci minuti, non ha fatto altro che squillare per tutto il tempo che sono stata in bagno! Dio Santo, non sono neanche riuscita a…

    Ehm, grazie, signora Kilmer la interruppe Toby. C’era troppo rumore e non l’ho sentito. Scusi se l'ha disturbata.

    Figurati brontolò quella e girò i tacchi verso la cucina.

    Una volta di sopra, Toby passò accanto al piccolo mobile ottagonale di palissandro su cui era poggiato il secondo telefono della casa, circondato da fotografie che ritraevano lui ed Emily. Era quasi rientrato in camera sua, quando il telefono riprese a squillare.

    Toby si fermò, indeciso se rispondere o meno. Di chi poteva trattarsi se non di qualche vicino che chiamava per augurare buon compleanno a Emily? si disse. Entrò in camera e attese poco distante dalla porta. Dal momento che il telefono non smetteva di squillare, tornò indietro sui suoi passi, seccato. Non rispose subito, incuriosito da un gioco di riflessi che non ricordava di aver mai visto prima: gli occhi di uno sconosciuto, immortalato alle sue spalle in una delle fotografie scattate in Egitto l’estate scorsa, lampeggiavano di rosso ogni volta che la spia indicante la chiamata si accendeva. Toby sollevò la cornetta. Pronto?

    Nessuna risposta.

    Pronto?

    Nessuna risposta. Solo scariche elettrostatiche in sottofondo.

    Toby bofonchiò un ‘bah’ e abbassò la cornetta. Si era allontanato di pochi passi, quando il telefono riprese a squillare. Tornò indietro e aspettò accanto al ricevitore qualche secondo.  Sollevò la cornetta.

    Sì, chi parla?

    Finalmente qualcuno rispose. Il signor Rice, Toby? chiese una voce maschile bassa e profonda. A giudicare dal timbro rauco e arrugginito, doveva trattarsi di una persona anziana.

    Sì, sono io. Toby indugiò un attimo. Lei chi è?

    Il mio nome è Morvus Wolfe, ma non credo che lei mi conosca, signor Rice.

    Il primo pensiero di Toby fu che dovesse trattarsi di qualcuno del college, e quasi senza accorgersene raddrizzò la schiena. La formalità della voce era la medesima anche se l’accento, stranamente, non era meridionale. Sembrava più un accento del Nord, dello Yorkshire.

    Ehm… infatti, non credo di conoscerla. Lei è del college?

    Non propriamente. Ma le ho telefonato perché devo dirle qualcosa di molto importante.

    Toby aggrottò le sopracciglia. Chi poteva essere? si chiese.

    Prima che il suo cervello elaborasse nuove supposizioni, l'uomo riprese a parlare.

    Toby, adesso voglio che lei mi ascolti attentamente, ma deve promettermi che qualunque cosa io dica, non interromperà questa conversazione. Può garantirmi che non lo farà?

    Toby pensò a cosa rispondere. Chi era questo Morvus Wolfe? Cosa aveva di così importante, o di così irrilevante da dirgli, tanto da temere che potesse abbassare la cornetta?

    Credo di sì disse infine. Avvertì una sfumatura di incertezza nella sua voce.

    Toby, lei abita a StratforduponAvon, nel Warwickshire. Questa informazione è esatta?

    Si, è esatta, ma io non…

    Ed è in casa in questo momento?

    Si, sono in casa, ma io non…

    "Toby, adesso ascolti con la massima attenzione ciò che sto per dirle. Lei questa sera lei deve restare in casa. Si chiuda a chiave nella sua stanza e non ne esca per nessuna ragione. Quanto prima verrà a prenderla una persona che ha il compito di proteggerla. Mi prometta che farà come le sto dicendo. Noi ci fidiamo di

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