Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lhotar e il risveglio del Marskull
Lhotar e il risveglio del Marskull
Lhotar e il risveglio del Marskull
E-book438 pagine6 ore

Lhotar e il risveglio del Marskull

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Da un lontano mondo incantato, un malvagio incantesimo catapulta l'elfo Lhotar e la fata Ellywick sulla Terra. Dopo mille peripezie i nostri amici sprigionano l'ultima sorgente magica rimasta sul nostro pianeta, facendo sì che tra le vette dell'Himalaya si desti il Marskull. Terribile vortice divoratore di magia, il Marskull devasta quanto incontra sul suo percorso. Con l'aiuto del vecchissimo drago Tanzeum, Lhotar ed Ellywick si preparano per lo scontro finale contro la malefica entità.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2014
ISBN9788865123928
Lhotar e il risveglio del Marskull

Correlato a Lhotar e il risveglio del Marskull

Ebook correlati

Fumetti e graphic novel per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Lhotar e il risveglio del Marskull

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lhotar e il risveglio del Marskull - Gionata Scapin

    Gionata Scapin

    Lhotar e il risveglio del Marskull

    © 2014, Marcianum Press, Venezia

    MARCIANUM PRESS S.r.l.

    Dorsoduro 1 - 30123 Venezia

    Tel. 041 27.43.914

    Fax 041 27.43.968

    e-mail: marcianumpress@marcianum.it

    www.marcianumpress.it

    Progetto grafico di copertina e impaginazione: Tomomot, Venezia

    ISBN 978-88-6512-276-1

    Indice

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Dedicato a Silvia,

    Sale della mia vita.

    Capitolo I

    Può un piccolo indizio dar vita a una grande impresa?

    In uno stanzino, sufficientemente grande per contenere una scrivania ed una branda, la polvere volava alla luce di tre candele e solo il rumore dello scribacchiare di una penna rompeva il silenzio all’interno.

    Una persona seduta allo scrittoio annotava su di un taccuino, con scrittura sinuosa, alcune frasi tratte dall’enciclopedia geografica poggiata sul tavolo. Le sue orecchie a punta uscivano come lame dai lunghi e fluenti capelli neri che ricadevano sciolti sulle spalle. Il color glicine dei suoi occhi a mandorla, distanti fra loro, contrastava in modo conturbante con la pelle scura, resa ancor più nera dalla fievole luce. Le labbra sottili, sotto un naso affusolato, scandivano in un sussurro le parole che stava leggendo.

    Un fastidioso bruciore alla gola lo distolse dal suo lavoro. Cominciando a tossire forte uscì dalla stanza sbattendo violentemente la porta contro il muro, facendo saltar via la targhetta di bronzo con su scritto ripostiglio.

    Nello stretto corridoio, deserto e completamente buio, aprì la porta del bagno. Il lavandino si sporcò di sangue non appena vi si chinò sopra e continuò a tossire e a sputare. Preso da violenti conati di vomito, si piegò sul gabinetto rigurgitando la cena mista al sangue mentre gli occhi gli lacrimavano per il bruciore.

    Poi non vide più nulla.

    Quando riprese i sensi era accasciato sul pavimento. Aveva così freddo da sentirsi paralizzato e il sapore del sangue rappreso ai margini della bocca lo invitava a vomitare di nuovo. Vide un bagliore, della grandezza di un pugno, lampeggiare all’interno del bagno e fermarsi di fronte al suo viso. La luce tornò velocemente verso l’ingresso della stanza, premette un pulsante sulla parete e subito un neon cominciò ad illuminare l’ambiente.

    Una creatura piccolissima che poteva stare sul palmo di una mano, si librava in volo con lunghe ali da libellula color azzurro cielo. Lasciava dietro di sé una lieve scia, simile ad una stella cadente in una notte d’estate. I lunghissimi capelli argentei erano acconciati in minuziose treccioline. Il naso sottile, le orecchie appuntite e la pelle color madreperla, irradiante una luce bianco-azzurrognola, le attribuivano una bellezza ultraterrena.

    «Ehi, Lhotar! Stai bene? Lho non mi lasciare! Rialzati dai!» la spiritella strattonò la camicia dell’amico madida di sudore, senza ottenere alcun risultato.

    Facendo leva con entrambe le mani sul pavimento, Lhotar si mise seduto a fatica, tenendo la schiena appoggiata al muro. La saliva cominciò a colargli dal labbro, seguita da un colpo di tosse che gli fece perdere il respiro.

    La fata volò fuori dal bagno e tornò poco dopo portando con sé una coperta che sistemò attorno al corpo dell’amico. Era incredibile come quella piccola spiritella potesse sollevare oggetti così grandi.

    «Lho… mi fai preoccupare… quando… hai questi attacchi!» la fata singhiozzava e gemme di lacrime facevano risaltare ancor più l’intenso blu dei suoi occhi. Si strinse come meglio poteva alla spalla di Lhotar. «Ti prego non mi lasciare! Sono persa senza di te!» disse in tono supplichevole.

    «Ellywick, ho trovato una strada per tornare a casa».

    «Non pensarci adesso! Anche se l’avessi trovata se non guarirai sarà tutto inutile!» ribatté lei.

    Lhotar si fece forza e appoggiandosi al sanitario si sollevò in piedi. Barcollando arrivò con le braccia al lavandino e mentre Ellywick apriva il rubinetto dell’acqua calda lui si guardò allo specchio. Sotto la sua pelle scura vedeva le borse formatesi intorno agli occhi causate da stanchezza e malattia, e proprio quei suoi occhi un tempo di un viola pallido, ora avevano sfumature rossastre, mentre la tinta nera, data ai candidi capelli, andava via via scemando. Il vapore nascose un po’ alla volta l’immagine riflessa e solo quando non vide che un’ombra si sciaquò il viso.

    Rimanendo sdraiato sul letto avvolto da una coperta, Lhotar fissava un ritaglio di giornale tenendolo stretto fra pollice e indice.

    Una didascalia affiancava l’immagine illustrante un barattolo di vetro con al suo interno quello che sembrava un rettile alato. Lo aveva trovato per puro caso il giorno precedente nell’archivio dei quotidiani della biblioteca dove lavorava. Nonostante l’articolo riportasse la data di circa nove mesi prima, rilesse quelle poche righe per l’ennesima volta:

    Presso un magazzino del Museo di Storia Naturale di Londra, è stato trovato un barattolo di vetro contenente un feto di drago lungo 89 cm in formaldeide. Lo scopritore è George Harvey, un facchino che ha lavorato per il museo per ben quarantadue anni e che tra pochi giorni andrà in pensione. Harvey dichiara che il museo aveva ricevuto quel feto nel 1865 da uno studioso gallese e che suo bisnonno Malvin Harvey, un ex dipendente del museo, fu il primo a riporlo nel magazzino.

    Lhotar si sedette sulla branda e aprì una cartina dettagliata della città di Londra sulla quale aveva già evidenziato il Museo Naturale e la biblioteca principale. Da sotto la scrivania prese una seconda mappa raffigurante l’Europa. Con l’indice indicò Londra, poi senza staccarlo dalla carta mosse il dito lentamente verso sud-ovest, passando per Bilbao e soffermandosi per qualche istante su Madrid.

    Un rumore sordo e secco ma quasi impercettibile proveniente dall’esterno della piccola stanza lo distolse dai suoi pensieri. Scostò la coperta e aprì la porta trovandosi nel corridoio completamente buio, ma questo per lui non era un problema, si trovava a proprio agio nell’oscurità.

    Sentì nuovamente lo stesso rumore provenire dalla sua destra e cominciò a camminare lentamente in quella direzione. Dopo pochi passi salì una ripida rampa di scale, aprì la porta del pianerottolo in cima e si ritrovò in una sala.

    Tre pareti della stanza erano costituite da scaffali ricolmi di libri riposti ordinatamente, la quarta invece aveva un’apertura che conduceva al salone principale dell’edificio. Al centro della camera vi erano diversi tavoli da lettura che di giorno pullulavano di studenti per la maggior parte universitari, ma durante la notte l’unico inquilino era un silenzio assordante debolmente illuminato dagli indicatori delle uscite di sicurezza.

    Lhotar raccolse un libro che si trovava sul pavimento e lo ripose nell’apposito spazio. Udì nuovamente lo stesso rumore, ma questa volta più forte e chiaro: doveva trattarsi di un grosso libro che cadeva. Cominciò a dirigersi verso la sala principale, quando vide un bagliore sfrecciare davanti all’apertura della stanza e scomparire nella direzione opposta.

    Lhotar sospirò scuotendo la testa e così facendo sentì i suoi capelli muoversi sulle spalle, non si era ancor abituato, nonostante i diversi mesi, a tenerli così lunghi. Un tempo li portava corti, ma ora, per nascondere le sue lunghe orecchie da elfo, doveva tenerli il più lunghi possibile. Li doveva anche tingere di nero, perché il bianco scintillante caratteristico della sua natura avrebbe attirato l’attenzione di molti.

    La luce fluttuante apparve di nuovo e sfrecciò alla stessa altezza ma nel verso contrario a prima. Il suono di un frenetico zampettare si fece sempre più forte e nella sala entrò un topolino grigio che si diresse rapidamente verso la porta che dava sulle scale.

    La luce lo seguiva ma si fermò di colpo vedendo l’elfo lì in piedi.

    Lhotar con un movimento veloce prese il topolino in mano e lo tenne stretto. «Guarda guarda, abbiamo un ospite inatteso stasera!» disse fissando l’animaletto che squittiva, «Da dove sei entrato?»

    Ellywick gli si avvicinò rapidamente e si fermò dritta davanti ai suoi occhi. «Lho! Che ci fai in piedi?! Dovresti riposare ancora un po’! Sei rimasto coricato solo un giorno e la febbre non è ancora scesa! Ci penso io a mettere a posto i libri sugli scaffali e a fare tutto il lavoro arretrato».

    «Sono rimasto sdraiato per un giorno intero?! Allora credo di essermi riposato abbastanza Elly e a giudicare dai rumori che ho sentito, invece di sistemare i libri li fai cadere!» rispose. Si voltò, ridiscese le scale seguito dalla spiritella che borbottava, e si diresse nel bagno davanti al ripostiglio. Una volta entrato aprì la finestrella che dava su uno stretto vicolo e lasciò scivolare fuori il roditore che appena si sentì libero scappò sotto ad un cassonetto sovraccarico d’immondizia.

    «Ellywick, ti va di fare un viaggio?» chiese l’elfo alla fata.

    «Che domande! Non vedo l’ora di levare le tende da questo posto noioso. Se almeno mi lasciassi uscire anche di giorno per la biblioteca mi divertirei sicuramente a tormentare questi umani!»

    «Ne abbiamo già parlato Elly. Non voglio che ci scoprano. Ricorda cosa abbiamo passato appena siamo giunti in questo mondo! La curiosità dell’uomo si sarebbe spinta sino a ucciderci».

    A queste parole Lhotar ricordò quei giorni, i più brutti della sua vita. In silenzio si diresse al ripostiglio mente un nome continuava a tormentarlo: Kilimut Brezim.

    «Ho sentito dire che Barcellona è una bella città, ma anche Lisbona non è male. Che ne dici di Parigi?! Troppo costosa? Magari possiamo andare a sud. Cosa te ne pare di Alessandria o del Cairo oppure di Città del Capo?»

    «Ellywick non correre. Un giorno visiteremo tutti i posti che vorrai di questo mondo, ma prima troviamo il modo di tornare a casa».

    La spiritella si sedette sul bordo della scrivania e scrutò attentamente gli occhi dell’elfo. «Lho, io non voglio illudermi! Quante probabilità abbiamo di fare ritorno? Quante probabilità ci sono che quel drago sia vero? In questo mondo non c’è un briciolo di Nebbia Magica! È un mondo completamente popolato da umani che si combattono tra loro per una striscia di terra. Sono tutti senza speranza, proprio come noi!» la luce emanata da Ellywick si affievolì.

    «Non tormentarti con oscuri pensieri piccolina,» disse Lhotar prendendola sul palmo della propria mano, «sono o non sono forse uno stregone pieno di risorse? Mal che vada possiamo passare il resto della nostra vita in giro per il mondo, no? Il problema delle ore, dei giorni, degli anni per noi non conta nulla. Abbiamo ancora davanti un futuro ricco di speranze e avventure.» Si sedette sulla branda coprendosi le spalle con la coperta.

    «Lhotar, rispondimi sinceramente: preferiresti morire subito o passare il resto dei tuoi giorni senza il potere arcano nelle tue mani?»

    Lo stregone posò Ellywick sulla sua gamba e sospirò, «È dura anche per me non poter lanciare incantesimi, non sentir scorrere il caldo potere nelle mie vene, ma non per questo preferirei essere morto. Ti ricordi quante delle persone che conoscevamo non erano in grado di usare la magia?! Eppure se la cavavano in ogni situazione! Posso sempre diventare un eroe in qualsiasi altro modo e questo mondo mi offre infinite opportunità».

    «Vorrei tanto essere ottimista come te. Forse un giorno ti ringrazierò per avermi salvata dal mago Kilimut».

    «Mi ringrazierai quando ti riporterò a casa! Ma fino ad allora maledicimi pure!»

    I due si scambiarono un sorriso affettuoso e la spiritella si appoggiò alla spalla di Lhotar e la strinse forte, con affetto.

    Quattro uomini col volto coperto da un passamontagna impugnavano pistole puntate verso la porta di un misero appartamento nei quartieri poveri di Madrid. Un quinto uomo, grazie ad un pass par tout apriva la porta silenziosamente. Appena la serratura cedette i cinque entrarono velocemente con le armi in pugno.

    Controllarono ogni stanza dell’appartamento, dalla camera da letto al bagno, dall’angolo cucina allo stretto terrazzino. Frugarono nei cassetti e negli armadi. Spostarono i mobili per cercare un qualche nascondiglio segreto tra le pareti.

    Il pavimento fu disseminato di riviste, libri, tazze e piatti di ceramica rotti, ante di armadi, cuscini del letto e del divano lacerati.

    Uno degli uomini prese il cellulare e, digitato un numero, riferì il risultato dell’operazione: «Nessuna traccia né di Matthias né di materiali riguardanti i due alieni, signore».

    «Thomas, ordina di controllare di nuovo da cima a fondo. Poi date fuoco all’appartamento per cancellare ogni traccia!» rispose la voce all’altro capo del telefono.

    «Signorsì!»

    Dopo qualche minuto, denso fumo nero uscì dalle finestre dell’appartamento dell’ultimo piano e la sgommata di un furgone echeggiò nel silenzio della notte.

    Un uomo sdraiato sul tetto del palazzo guardava le stelle, coperte a tratti dal vortice di fumo che usciva dalle sue stanze. Aspirò l’ultimo tiro prima di spegnere la sigaretta su una tegola, si sedette, tolse la batteria dal cellulare, estrasse la sim e la lasciò cadere sulla grondaia.

    «Questa sarà sicuramente tenuta sotto controllo. Ora come ora è totalmente inutile» pensò cupamente. «Sono riusciti a trovarmi più in fretta di quel che avevo previsto. Per fortuna ho salvato tutto ciò che riguarda l’elfo».

    L’uomo raccolse lo zaino al suo fianco, oltrepassò il culmine del tetto e reggendosi alla grondaia balzò sulla scala d’emergenza, quindi discese il palazzo. In lontananza le sirene della polizia e dei pompieri urlavano su strade sempre più vicine.

    Capitolo II

    Può la nostalgia del passato infrangere le barriere del presente?

    Lavorare come factotum in una biblioteca non dispiaceva a Lhotar, anzi in quel luogo poteva leggere qualsiasi libro, da quelli di storia a quelli di filosofia, da quelli di moda alle riviste scientifiche, arricchendosi di ogni sorta d’informazione riguardante il pianeta Terra. In poco tempo aveva appreso la geografia e studiato la storia dal Medioevo sino al ventunesimo secolo, imparato discretamente l’inglese, letto libri di medicina che trovò molto più progredita rispetto a quella del proprio mondo.

    Un giorno trovò un libro intitolato "L’arte d’essere un mago". Un barlume di speranza gli fece brillare gli occhi, ma ben presto scoprì con grande rammarico, che in quel pianeta la magia non era altro che un banale intrattenimento, messa in pratica da cosiddetti maghi con trucchi più o meno credibili. Non trovò nulla che parlasse di vera magia, di magia arcana, del potere insito in lui.

    L’orologio a pendolo vicino al banco informazioni suonò le tre di notte e Lhotar aveva appena finito di sistemare i libri in ordine numerico sugli scaffali. Aveva ancora qualche lavoretto da sbrigare prima delle nove, ora in cui doveva aprire la biblioteca al pubblico.

    Come ogni mattina, una impiegata apriva la porta, seguita da Matthias, che gli portava la colazione. Verso le dieci cominciavano ad arrivare studenti e professori e a volte anche qualche turista che si era perso e che voleva solo qualche indicazione per raggiungere la Plaza de Toros, lo stadio per vedere la corrida.

    Erano poco più di sette settimane che lavorava lì. Di giorno lavava il pavimento, spolverava le librerie e puliva i grandi tavoli. Di notte invece, aiutato da Ellywick, riordinava gli scaffali, svolgeva il compito di guardiano notturno e leggeva i libri che lo incuriosivano. Essendo un elfo gli bastavano quattro ore di trance al giorno, l’equivalente di otto ore di sonno per un essere umano, e grazie a questo era sufficientemente riposato per svolgere tranquillamente tutte le mansioni.

    Aveva conosciuto Matthias due mesi prima, ed era stato proprio lui a procurargli quell’impiego dato che il direttore della biblioteca era un suo affezionatissimo zio.

    Pensando all’amico, Lhotar si ritrovò nella grande sala da lettura che di giorno era illuminata dalle ampie finestre del secondo piano attraverso le quali ora si poteva scorgere la luna in fase crescente.

    La voce di Ellywick gli faceva compagnia cantando una melodia che gli faceva ricordare casa, un luogo lontano e forse irraggiungibile.

    "Così come tutto viene, tutto va,

    Chiudi gli occhi e tendi l’orecchio,

    Resta in ascolto del cielo piangente,

    Potrai udire il suo canto solitario,

    Toccare le sue lacrime.

    Ogni volta che la pioggia scende,

    Tendi l’orecchio e resta in ascolto,

    Non parlerà per sempre,

    Potrai udire il suo nome,

    Restando sotto la pioggia,

    Coglierai i sussurri solitari e misteriosi,

    Non temere, tutto tornerà a fluire."

    Lhotar stava ripulendo con uno straccio un tavolo al piano terra canticchiando quel motivetto quando si mise attentamente in ascolto.

    «Elly vieni qui subito!»

    La fata smise di cantare e volò velocemente da lui, incuriosita dal tono serio dell’amico. «Che c’è? Stai ancora male?»

    «Shhh. Ascolta. Non senti anche tu questo ronzio?»

    Ellywick si concentrò un attimo guardandosi attorno, «Solo quello della luce che indica le uscite di sicurezza!»

    «No. Non è qui dentro. È un rumore che viene da fuori ed è sempre più vicino».

    Il ronzio crebbe d’intensità al punto che anche la fata lo poté distinguere chiaramente, era come se un grosso calabrone stesse per appoggiarsi sul tetto della biblioteca.

    Era notte inoltrata quando un elicottero, un Agusta a119koala, sorvolava il centro di Madrid facendo alzare lo sguardo ai pochi passanti insonni.

    «Trenta secondi al via dell’operazione» disse il pilota agli uomini in uniforme nera seduti dietro la sua postazione.

    L’elicottero scese velocemente sulla biblioteca, «Via tra dieci secondi!» continuò il pilota mentre gli uomini si accertavano che il cavo d’acciaio attaccato alla loro imbragatura fosse ben assicurato alla sbarra all’interno dell’abitacolo.

    Al via, quattro uomini si lanciarono fuori nella notte buia, calandosi rapidamente sul tetto dell’edificio.

    Le grandi finestre del secondo piano esplosero in un fragore di schegge e i quattro entrarono liberandosi del cavo che li tratteneva.

    Impugnavano una pistola con incorporata una torcia elettrica e illuminando gli scaffali e i corridoi si sparpagliarono.

    Ellywick si nascose nel taschino della camicia di Lhotar ma la luce che emanava era comunque sufficiente per attirare l’attenzione. Rapidamente, cercando di muoversi il più silenziosamente possibile, Lhotar si diresse verso la porta che dava al piano di servizio per scappare attraverso l’uscita sul retro. Stava per raggiungere l’uscio quando una pallottola colpì una mensola della libreria più vicina. Spaventato fece uno scatto in avanti, spalancò di colpo la porta, la richiuse a chiave e scese velocemente le scale.

    Nel ripostiglio infilò in fretta tutti i suoi averi in una borsa a tracolla, dal taccuino alle mappe e indossò il mantello nero precipitandosi nel corridoio. Il buio giocava a suo favore, cominciò a correre verso la salvezza mentre sentiva alle sue spalle la porta cedere sotto pesanti colpi. Raggiunse l’uscita quando gli uomini erano appena scesi dalla scala, ma la poca luce che entrava dall’esterno illuminò chiaramente la sua silhouette e gli inseguitori corsero verso di lui. L’elfo chiuse la porta dietro di sé e salì velocemente i gradini che portavano alla strada ma quando fu in cima Ellywick gridò atterrita, bloccandolo.

    Un uomo in uniforme nera gli puntava la pistola contro. «La tua fuga termina qui!» disse la figura premendo il grilletto.

    Bang!

    Il proiettile lo colpì in pieno schivando di poco la fata. L’uomo lo afferrò per un braccio e lo strattonò verso di sé non accorgendosi della presenza nascosta alle sue spalle.

    Fu un attimo. Un martello di legno colpì alla testa l’uomo in uniforme facendolo crollare a terra privo di sensi.

    Lhotar percepiva la vista annebbiarsi sempre più. Si accasciò a terra mentre una sagoma afferrava il corpo del suo aggressore facendolo scivolare sulla scala. Il suo soccorritore gli si parò davanti muovendo la bocca, ma la sua voce risuonava rotta e lontana.

    Tutto era annebbiato, confuso e distorto.

    Quando riprese controllo di sé, gli ci volle del tempo per capire dove si trovava mentre la luce del giorno gli bruciava gli occhi. Ellywick trasse un sospiro di sollievo appena lo sentì lamentarsi mettendosi seduto sul sedile posteriore dell’automobile. Gli volò subito incontro abbracciandolo al petto.

    «Finalmente ti sei ripreso!» disse a gran voce il conducente dell’auto, «Non ci speravo più».

    Lhotar sbatté le palpebre mettendo a fuoco la vista e riconobbe i capelli scuri di Matthias e gli occhi verde chiaro riflessi nello specchietto retrovisore.

    «Quei maledetti bastardi ti hanno narcotizzato. Sei rimasto senza coscienza per diverse ore. Un uomo avrebbe sicuramente dormito più a lungo».

    Matthias, figlio di padre italiano e di madre portoghese, si era laureato presso l’università di archeologia di Madrid con ottimi voti. Era un uomo sulla trentina, alto e di bell’aspetto, con capelli lisci e scuri che gli arrivavano sino alle spalle, occhi verde chiaro e un fisico muscoloso tenuto in allenamento dagli esercizi di scalata di roccia.

    Lhotar notò la borsa degli attrezzi d’archeologo aperta sul sedile del passeggero e un martello di legno era fuori posto. Si sentiva la bocca impastata e il mal di testa non lo aiutava affatto. «Erano ancora loro? Mi avevi detto che eravamo al sicuro a Madrid!»

    «Lo so! Lo so! Ho detto tante cose in vita mia ma di questo ero certo. Hanno fatto prima del previsto a tornare in Spagna. Per essere al sicuro ancora per un altro po’ dobbiamo lasciare come minimo il Paese se non l’Europa».

    «Dobbiamo andare a Londra».

    Matthias dubbioso girò la testa verso l’elfo, «Perché proprio a Londra?»

    «Ho trovato una traccia da seguire e devo andare a verificare quanto possa essere vera».

    «Per l’Inghilterra bisogna esibire la carta d’identità per qualsiasi mezzo si decida di prendere e tu non ce l’hai. Come pensi di fare alla dogana?»

    Dogana, carta d’identità, risuonavano parole strane nella mente di Lhotar perché nel mondo dal quale proveniva i documenti non esistevano e una persona era libera d’andare ovunque desiderasse. Un’azione così semplice, come attraversare una linea di confine immaginaria, era resa difficile dalla mentalità degli uomini, dalla paura della morte che li assillava, che li allontanava dalla fiducia nel prossimo, dalla volontà di confrontarsi liberamente con le altre persone.

    «Di che traccia stai parlando?» chiese Matthias distogliendolo dai suoi pensieri.

    «Di un cucciolo di drago».

    Matthias rise, «I draghi non esistono!»

    «Anche gli elfi e le fate non dovrebbero esistere!» ribatté ironicamente «Solo perché tu non ne hai mai visto uno non significa che non ci siano!»

    Il silenzio scese tra i due e Lhotar guardò la piccola fata che tremava, ancora aggrappata al suo petto.

    «Ora va tutto bene Elly, grazie a Matthias siamo riusciti a scappare ancora una volta» le disse accarezzandola dolcemente.

    «Lho, ho tanta paura. Voglio tornare a casa! Ti prego riportami a casa!»

    Matthias rattristato dalle parole della fata accelerò sfrecciando lungo la strada. «Farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarvi».

    «Elly, ti riporterò a casa! La mia è una promessa e lo sai che io mantengo sempre le promesse».

    La fata si mise a singhiozzare stringendosi ancora di più al petto dell’amico «Lho, ho tanto freddo».

    L’elfo si strinse nel mantello facendo attenzione a non schiacciarla e cominciò a cantarle una melodia dolce che gli cantavano da piccolo quand’era spaventato.

    "Brilla il sole del suo caldo calore,

    Brilla il ruscello come un gioiello,

    Brilla la gemma sullo stemma,

    Brilla il metallo sulla bardatura del cavallo,

    Brillano i cuori dei guerrieri difensori,

    Brillano gli animi sugli stendardi antichi,

    Nulla ti farà del male,

    Tutto continuerà a brillare."

    Quando Ellywick si assopì, lui la pose delicatamente dentro al taschino della camicia e chiese all’amico dove fossero diretti.

    «Torniamo a Bilbao, lì ho un cugino che ti può procurare dei documenti».

    Bilbao, la città natale di Matthias, era la prima città della Spagna che Lhotar aveva visto al ritorno dall’Asia. Dalla sua abitazione l’amico aveva recuperato il necessario per trasferirsi a Madrid dallo zio perché non si fidava di restare a casa sapendo che non era un luogo sicuro.

    «Si chiama Pedro ed è una persona che ti può trovare qualunque cosa, pagando il giusto prezzo ovviamente».

    «Quanti giorni di viaggio ci sono tra Bilbao e Londra?»

    «Andando in macchina ci vorrà circa un giorno intero».

    «Bene, allora andiamo da questo Pedro. Se lo scopo degli americani è catturarmi renderò loro il compito difficile».

    Capitolo III

    Può la gratitudine spezzare leggi millenarie?

    Quello di Ellywick era un sonno tormentato, carico di flashback che si sormontavano l’uno sull’altro, in un miscuglio di ricordi e racconti di Lhotar.

    Un attimo prima la frescura della foresta, poi il caldo del deserto e infine il freddo all’interno della grotta sotterranea di Kilimut Brezim. Le immagini si susseguivano velocemente sino a fermarsi alla visione che per giorni l’aveva tormentata: la distorta visione del mondo attraverso la prigione di vetro. Si trovava all’interno di un barattolo di cristallo, chiuso da un tappo di sughero forato sufficientemente per permettere all’aria di passare. Un contenitore come i numerosi accanto al suo, posto su di una mensola di legno in una stanza ricavata in una caverna nel sottosuolo.

    Erano giorni che un mago la derubava della polvere magica prodotta dal suo corpo e come lei molte altre fate, folletti e creature magiche erano prigioniere del malvagio incantatore.

    Sofferente, separata dalla foresta e dai suoi simili, incatenata ad una sorte che non le apparteneva, si sentiva morire lentamente, affaticata dall’impoverimento della polvere e dallo spazio angusto. Tutto ciò che desiderava era la libertà, un diritto speciale che viene donato ad ogni essere vivente sin dal giorno della propria nascita, un regalo che diveniva sempre più opaco, freddo e lontano, quasi dimenticato.

    Una notte, mentre le forze l’abbandonavano, vide una luce avvicinarsi alla mensola, superarla e andare oltre. La reggeva un uomo di colore, alto con tatuaggi bianchi sulla testa calva; poi vide un altro volto, quello di un elfo scuro che la guardava in modo triste, con occhi color glicine che fissavano ogni creatura prigioniera.

    L’elfo cominciò ad aprire uno ad uno tutti quei contenitori, liberando gli spiritelli e le bestie magiche che, senza voltarsi, fuggirono increduli nel miracolo che stava compiendosi. Ellywick allora vide quelle mani delicate avvicinarsi al suo barattolo proprio nel momento in cui il mago entrò furioso nella stanza dando inizio ad un accanito combattimento. All’inizio i due salvatori ebbero la meglio, poi però un incantesimo del mago fece perdere i sensi all’uomo con i tatuaggi che cadde a terra. Rimasero uno contro uno, un mago contro uno stregone.

    I due si scagliarono incantesimi invocando il potere del fuoco e del fulmine distruggendo contenitori, alambicchi, mortai e barattoli, illuminando la stanza di luci, colori e boati.

    Ad un certo punto, allo stremo delle forze, l’elfo con un veloce incantesimo scaraventò il mago contro la parete della stanza, tramortendolo, e una volta ripreso fiato si accertò che l’amico stesse bene.

    Ellywick, che non si era persa un solo attimo del combattimento, tremava vistosamente e vide l’elfo avvicinarsi al suo vasetto. Mentre lui la tranquillizzava con dolci parole appoggiando la mano sul coperchio per aprire il contenitore, non si accorse che il mago, nonostante le numerose ferite riportate, si era messo sui gomiti e aveva pronunciato un potente incantesimo toccando con il palmo della mano il terreno. Una scia di luce bianca si diresse velocemente verso l’elfo, creando un cerchio luminoso intorno a lui e alla fata, da questa si alzò un cilindro di luce attorno a loro. La fata girata verso il mago, poté constatare l’espressione soddisfatta sul suo viso prima di sentirsi avvolta da un turbine di vento impetuoso, sabbia, colori e suoni. La gravità era inesistente, prima cadeva poi risaliva, veniva scaraventata di lato, poi roteava su se stessa fino alla nausea. Ellywick guardava impotente dalla sua prigione di vetro il turbine di caos che li avvolgeva, andando a sbattere contro le pareti ad ogni scossone. Cercava di resistere al terrore di quella situazione, ma vedendo l’espressione di dolore sul volto dell’elfo, lasciò perdere le sue forze e le sue speranze, abbandonandosi in un buio senza fine.

    Svegliata dai brividi di freddo, non sapeva per quanto tempo era rimasta immobile priva di sensi. Debolmente si mise in piedi, posando le mani sul gelido vetro, notando che tutto intorno a lei era avvolto dalla neve e grossi nuvoloni bigi coprivano il cielo. Un forte vento soffiava e cercò di scaldarsi frizionando il corpo meglio che poteva.

    Vide lo stregone giacere immobile a terra accanto a lei e la neve attorno alla sua nuca tinta di rosso. Evidentemente doveva aver sbattuto la testa sulle rocce che vedeva ad un palmo di distanza.

    Perse i sensi a causa del freddo quando vide un grosso guanto afferrare il barattolo.

    Quando si risvegliò era in un altro luogo. Il contenitore era posato su una pezza di pelliccia al centro di un basso tavolo. La stanza in cui si trovava aveva pareti di legno molto semplici e non percepiva più l’intenso freddo. Si guardò il corpo smagrito e coperto di lividi, con le ali così esili che sembrava stessero per spezzarsi.

    Un uomo calvo dagli occhi a mandorla, con addosso una veste rossa e gialla, con rughe che gli segnavano il volto e dalle lunghe sopracciglia bianche, la fissò.

    Ellywick si rannicchiò sul fondo del barattolo, tremando per la paura di quel che le poteva accadere.

    Ma l’uomo si limitò a sollevare il contenitore di vetro e a scrutarla con occhi attenti e curiosi per diverso tempo. Poi, tenendola saldamente con ambo le mani, la condusse fuori dalla stanza. Percorse un lungo corridoio, nel quale altre camere si aprivano, rivelando altri uomini, tutti vestiti allo stesso modo.

    La portò sino ad una stanza, dove vide nuovamente l’elfo. Era disteso in un giaciglio di pelle sistemato su un pavimento di legno chiaro. Pesanti coperte lo coprivano vicino ad un braciere acceso, con un fazzoletto di stoffa sulla fronte. Visibilmente sofferente, aveva la testa fasciata da una benda e il volto imperlato di sudore.

    Attorno a lui, tre uomini calvi, vestiti con la tunica rossa e gialla, lo osservavano parlando fitto tra loro in una lingua che le era incomprensibile.

    Uno dei tre ordinò a voce alta ad un ragazzo seduto in disparte che indossava una tunica rossa. Quest’ultimo si alzò e si inginocchiò di fronte alla testa dell’elfo e con molta cura gli cambiò le bende sporche di sangue con altre pulite.

    Quei gesti svegliarono l’elfo che aprì debolmente gli occhi. Il giovane non appena ebbe terminato la medicazione tornò al suo posto, restando con la schiena ben dritta e prestando la massima attenzione a ciò che stava avvenendo.

    Il quarto uomo prese posto accanto all’elfo e parlò agli altri tre porgendo loro il barattolo, così che tutti la potessero osservare meglio. Lei si rannicchiava costantemente cercando di allontanarsi da quegli occhi che il vetro deformava.

    Dopo averla studiata, il loro interesse si spostò sugli occhi di Lhotar soffermandosi sul taglio e sul colore così particolare come non lo avevano mai visto.

    La fata ascoltava ciò che quegli esaminatori dicevano ma non comprendeva quel loro strano linguaggio.

    Anche gli occhi dell’elfo si posarono sul contenitore e fece un debole sorriso nel vederla. Mosse le labbra, cercando di parlare, ma chiuse gli occhi in una smorfia di dolore e il tentativo si concluse con un sofferto gemito.

    L’uomo che reggeva il barattolo di vetro lo posò delicatamente sul petto di Lhotar e con un gesto delle mani fece intendere che lo voleva aprire.

    L’elfo fece un cenno di acconsentimento con il capo, chiudendo nuovamente gli occhi per una evidente fitta di dolore.

    Il tappo fu tolto e Ellywick spaventata uscì lentamente. Volò per un brevissimo tratto, quanto gli bastò per posarsi sulle coperte del giaciglio. Si guardò attorno per scorgere qualcosa di familiare ma l’unica cosa che le poteva dar sicurezza in quel momento era lo stregone che l’aveva salvata dalla morte.

    I quattro nel vederla rimasero a bocca aperta e il ragazzo allungò il collo per poter vedere meglio quello spiritello che volava verso il volto dell’elfo.

    Ellywick poté vedere da vicino il viso sofferente di Lhotar e si appoggiò sulle sue labbra. Aprì lentamente le ali e le scrollò piano facendogli cadere una polvere sulla bocca, sul collo e sulla faccia.

    Immediatamente il volto di Lhotar si distese, come sollevato e i tagli che aveva sul naso, sulle guance e sulla fronte sparirono rimarginandosi completamente.

    La fata fece un ultimo volo, posandosi sul giaciglio vicino al collo del suo salvatore e copertasi si accovacciò in una debole luce azzurrognola.

    Ai quattro uomini quanto visto parve soprannaturale. Se la notizia di quelle due creature fosse giunta ad orecchio esterno al monastero, la pace e la tranquillità della vita monastica sarebbero venute meno. Così decisero di tenere segreta la scoperta per non richiamare visitatori inopportuni.

    Trascorsero diversi giorni, che si tramutarono in settimane e poi in mesi, nei quali Ellywick imparò la lingua del posto e comprese dove si trovava. Fece amicizia con

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1