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Sherlock Holmes e la Grande Madre
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E-book241 pagine3 ore

Sherlock Holmes e la Grande Madre

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Giallo - romanzo (189 pagine) - Un'avventura di Sherlock Holmes nelle terre della Grande Madre Russia, dove avrà a che fare col terribile monaco Rasputin


Nei primi anni del 1900 il dominio britannico si sfalda sotto il peso e la vastità dei suoi territori mentre la Russia rischia di perdere il potere fin dentro le proprie capitali. Il Leone e l’Orso sembra vogliano abbandonare il Grande Gioco: la lunga guerra fredda che li ha visti protagonisti per tutto il secolo. I popoli annoiati si rifugiano nel mistico mentre i politici galleggiano in un limbo e le ricche corti imperiali si crogiolano nel proprio fasto indifferenti alle sofferenze dei popoli. Nel frattempo è iniziata la più cruenta guerra che l’Europa abbia mai conosciuta.

Un uomo percorre a piedi la lunga e selvaggia strada che dalla Siberia conduce a San Pietroburgo mentre Sherlock Holmes è schiacciato dall’inattività che lo rende inerme e succube dei propri incubi. Poi la storia si evolve e inaspettate dinamiche prendono il sopravvento avvicinando tutto e chiunque e l’investigatore troverà inaspettato altro nutrimento indispensabile alla propria sopravvivenza intellettuale.


Vincenzo Zonno, classe 1966, nasce a Brindisi ma vive a Bologna dal 1990. Ex cantante in un gruppo rock, poi ballerino e regista di danza classica e contemporanea, dopo una raccolta di racconti autoprodotta la vera pubblicazione d’esordio è Non è un vento amico, romanzo storico pubblicato con Vocifuoriscena piazzatosi in seguito fra i primi cinque nel concorso Perseide officine Circe di Roma. Dopo la pubblicazione di Sherlock Holmes e la grande madre per la collana Sherlockiana, entro la fine del 2017 pubblicherà l'horror psicologico Caterina per la Watson Edizioni. Ottiene una partecipazione con un racconto su RAI Radio 1 e pubblica alcuni racconti su riviste specializzate come Letture Sconclusionate, Racconti Scontati, Chronicalibri, Senzaudio e Spazinclusi.

LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2017
ISBN9788825403640
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    Anteprima del libro

    Sherlock Holmes e la Grande Madre - Vincenzo Zonno

    Spazinclusi.

    Prologo

    Non vi è nulla al mondo di più potente di un bimbo che rimane tale. Continuando a sognare, muoverà gli eventi al suo volere determinando la storia e cambiando la sua e l’altrui esistenza. Non invecchierà e non si ammalerà giacché il suo sogno sarà l’unica cosa che lo terrà in vita.

    Erano da poco passate le otto di un sabato del dicembre del 1879. La sala del teatro era piena ed era stato difficile ottenere questo risultato nonostante i posti a sedere non fossero più di un centinaio. Attori, ballerine e persino un prestigiatore, avevano portato in scena una commedia stravagante che aveva come unica vera attrattiva artistica la voce della prima attrice, e su questo tutto si reggeva. La piccola platea semicircolare era gremita da un pubblico vario di commercianti e piccoli borghesi eccentricamente vestiti per farsi notare a tutti i costi. Sulle due file di palchetti, invece, c’era un popolo più povero e opaco, e stranamente più composto. Fuori pioveva già da un paio d’ore e fulmini squarciavano l’aria anticipando di molto il fragore dei tuoni. S’intuiva facilmente che quelle condizioni atmosferiche sarebbero durate a lungo: nuvole dovevano ancora giungere giacché le luci delle folgori distanti staccavano in velocità il suono. Di tanto in tanto, nella sala, le lampade sul palco calavano d’intensità e friggevano; veniva a mancare il gas con il quale erano alimentate dalla rete cittadina e ciò dava una chiara idea di quanta richiesta ci fosse durante le serate così buie e fredde. Non passava inosservato al pubblico né agli attori. I primi si guardavano attorno incuriositi e commentavano alimentando un brusio fastidioso, mentre alcuni dei commedianti incespicavano nelle parole, altri si lanciavano occhiate timorose. Elise non aveva un sussulto né un cedimento. Continuava a cantare incurante e dava il meglio di sé. Aveva un abito vittoriano che la rendeva altera: una perfetta nobildonna inglese; tuttavia i caratteri somatici rivelavano la sua vera natura mediterranea. I lunghi capelli ricci e neri e la carnagione scura, parlavano da soli: lei veniva da un’isoletta vicino a Cipro, nell’Egeo. Aveva una sinuosa voce da soprano con un volume che sbalordiva i più e li avrebbe costretti a tenere ambedue le mani a proteggersi le orecchie in molte occasioni. I suoi ampi zigomi e il naso lungo e tagliente giocavano a favore di quella potente voce che ingiustamente non aveva calcato scene più appropriate. Lei non se ne era fatta un male. Da subito, a inizio carriera, aveva ceduto alle avances di un noto e anziano collega e proprio dietro alle quinte di un piccolo teatro si era fatta stregare dalla magia di quella finzione e aveva ceduto alle proprie emozioni. Lì aveva costruito le fondamenta di ciò che sarebbe stata la sua vera passione, e mesi dopo aveva concepito il suo unico amore: Victor.

    Victor era lì in quel teatro, e assisteva a uno spettacolo che ormai conosceva a memoria. Aveva nove anni, ma come la maggior parte dei bambini della Londra che fremeva successo, dimostrava un’età molto più avanzata: lavorava quando poteva e portava il proprio contributo al mantenimento della piccola famiglia. Come la madre, aveva gli occhi e capelli neri e la pelle scura, ma la sua testa non era riccioluta; probabilmente quest’ultima caratteristica l’aveva presa dal padre che ormai era morto da qualche anno e che non aveva conosciuto. Il fratellastro, invece, di tanto in tanto compariva e gli ricordava che, lui, c’era. Era già adulto, aveva trentaquattro anni e pareva più un padre per il ragazzino, ma Victor preferiva dipingerlo come un vero fratello e gli era molto affezionato. Quella sera sarebbe arrivato da un momento all’altro e lui scalpitava nell’attesa. Nel frattempo guardava lo spettacolo da dietro le quinte e rideva ogni qual volta uno degli attori gli strizzava l’occhio guardandolo aggirarsi nel buio, oppure rimaneva rapito dal canto della madre, nonostante fosse cresciuto con le sue canzoni. Elise abbelliva l’intero mondo con la sua voce e il pubblico osservava rumoreggiando stupefatto di tanta grazia vocale, ma era un pubblico modesto e non avrebbe apprezzato fino in fondo alcune sottigliezze di quell’interpretazione: era la forza di Elise che li impressionava. Applaudivano di continuo anche quando non dovevano e spesso disturbavano il normale fluire dell’opera.

    Victor si muoveva avanti e dietro, da una quinta all’altra: a volte sedeva, poi tornava ad alzarsi per vedere i movimenti davanti alla porta d’ingresso degli attori. Lo fece per buoni venti minuti, ma era ormai convinto che non ci sarebbero state più visite quella sera. Iniziò a raccogliere costumi sparsi che gli attori avevano lasciato cambiandosi in corsa per entrare sul palco, e controllò che non ci fossero corde o legni a impedire il normale passaggio fra le quinte. Il ragazzino amava rendersi utile in quel luogo fatato.

    L’atmosfera di un teatro, pur piccolo che sia, riempie il cuore e solletica la fantasia. L’odore dei vecchi legni saturi di ciprie e incensi, i pesanti tendaggi dai colori caldi e i mille oggetti, le scenografie smontate a pezzi e sparse dappertutto, trasportano in un mondo che esiste solo lì e da nessun’altra parte.

    Victor con le braccia colme di vestiti di svariati colori spenti e logori, e il viso infossato fra stoffe che quasi gli impedivano di respirare, sorpassò a fatica, incespicando più volte, matasse di corde sparse sul pavimento. Lo fece stando attento che nessun rumore tradisse il suo passaggio. Le tavole scricchiolavano e le travi sembrava cedessero anche sotto il suo esiguo peso. Buttò gli abiti su una vecchia cassa a ridosso di una parete e stava per tornare indietro per un altro giro d’ispezione, ma si fermò. Lo stretto corridoio fra i tendaggi e le alte pareti di legno parevano l’antro di una grotta. Non se ne percepiva la fine. Dal palco la luce ocra si faceva strada attraverso alcune aperture e formava fasci che coloravano di grazia qualsiasi cosa colpissero. Lì c’era lei, e Victor ne era innamorato da sempre come solo un bimbo può amare, senza capire e senza farsi domande. Era la più giovane attrice della compagnia, aveva capelli cortissimi neri e occhi azzurri che brillavano con la più tenue luce. A poco più di vent’anni era già una donna adulta e stanca della propria vita di stenti, ma il suo aspetto tradiva la freschezza della giovane età. Stava davanti a una quinta in procinto di entrare e, freneticamente, tentava di cambiarsi il costume in tempo. La luce la illuminava parzialmente, esaltando le sue forme. Spiccavano sul suo viso labbra carnose ma delicate, dalla geometria perfetta. La sottile camicia chiara traspariva seni piccoli con capezzoli appuntiti che disegnavano la perfetta forma del suo vestito. E le sue gambe nude irraggiate generavano una bianca luce propria. Cercava a fatica d’infilare una pesante gonna, e inconsapevolmente mostrava al ragazzino glutei morbidi e dalle rotondità giocose. Non riusciva nel suo intento e, in quel caos mentale, iniziò a dimenarsi girandosi più volte su sé stessa finché si fermò proprio di fronte a Victor: e lui arrossì, e lei arrossì.

    Aveva il pube che disegnava una leggera curva sotto un ventre bianchissimo e delicato, con un ciuffetto di peli corvini lucenti che riflettevano il sottile bagliore che li colpiva. Teneva le gambe leggermente piegate con le ginocchia all’interno e uno sguardo stupito che, insieme a tutto il resto, le dava un aspetto teneramente comico. Stette ferma un attimo in quella posizione a osservare il bimbo con gli occhi sgranati e la bocca leggermente aperta, poi d’un colpo infilò la gonna e si voltò verso il proscenio. Probabilmente si rese conto che non vi era più il tempo perché potesse entrare in quella parte e cambiò programma: scattò di corsa per raggiungere la quinta opposta e inserirsi in un'altra scena, e nel passare accanto al ragazzino si fermò, lo accarezzò sulla testa e gli diede un rapido bacio.

    Mi ha baciato sulle labbra… Pensò Victor disorientato. Sulle labbra… Baby Rina mi ha baciato: mi ama.

    Fuori continuava a piovere e solo un pazzo si sarebbe avventurato in strada con quel clima, ma qualcuno l’aveva fatto e ne portava i segni sui propri abiti zuppi e grondanti d’acqua. La porta si aprì e Victor dovette riconsiderare le proprie convinzioni. Allargò la bocca in un sorriso stupito e corse verso suo fratello Henry. Appena gli fu davanti, qualcuno sibilò il suo lamento per l’inatteso rumore che si era creato, e loro ne risero imbarazzati. Uscirono dal teatro procurando nuovo baccano e lasciando sul pavimento la pozza d’acqua che Henry si era portato appresso. Si fermarono al riparo di una tettoia sulla veranda di mattoni grigi fuori della porta sul retro. Di fronte, il grande fiume si lamentava sotto il tormento del vento: piccoli spruzzi d’acqua si staccavano strappati alla superficie, e trasformandosi rapidamente in una nebbia gelata si diffondevano in tutte le direzioni.

    – Pensavo non saresti più venuto. – Disse Victor ingoiando un sorso d’aria dalla concitazione.

    – C’è mancato poco, con questo tempo. Come stai? E la mamma?

    – Stiamo bene. La mamma lavorerà per due mesi con questa commedia, io sto lavorando nella fabbrica di scatole, vicino casa, ma solo il pomeriggio per un paio d’ore. Non è molto.

    – Non fa niente, l’importante è non stare fermi. E poi lo sai, fra qualche anno verrai con me per gli spettacoli.

    – La mamma vuole che io faccia un lavoro serio.

    – E tu farai il lavoro seriamente. – Rise. – Ma… dimenticavo, ho trovato un nuovo ingaggio e c’è una parte anche per tua madre, una cosa forte stavolta.

    – Come questa? – Victor fece un movimento con la testa, indicando l’ingresso del teatro.

    – Mio buon Dio, no! È una buona scrittura, una commedia cantata, ma una cosa nuova, ti piacerà. Farà un giro della Scozia e del Galles, poi qualche altra data per il Regno e infine i teatri di Londra, quelli importanti. Elise dovrà superare soltanto un’audizione, facile per lei. Questa volta scolpiremo i nostri nomi negli annali, vedrai. Ma tu che mi racconti?

    – Mah… Ah! Sì, mi sono fidanzato.

    – Oh… è una bella ragazza?

    – Bellissima, la più bella. Ci siamo fidanzati proprio stasera.

    Henry ci pensò un attimo e storse il muso. Non aveva mai visto delle bimbe aggirarsi fra le file di quella compagnia sgangherata.

    – Stasera? Che bella notizia. La conosco?

    – Certo che la conosci, è Baby Rina.

    Henry avrebbe voluto ridere, ma si contenne.

    – Hai ragione, è bellissima e sono contento per te. Ma… voglio farti vedere una cosa.

    Prese un pezzo di corda dalla tasca e la fece vedere al bimbo, poi iniziò a muoverla sinuosamente davanti ai suoi e ai propri occhi e avanti e dietro, ipnoticamente. Fece queste manovre alcuni minuti, poi di colpo vi soffiò sopra e il laccio sparì. Victor rimase a bocca aperta e d’impulso si poggiò la mano sul collo, scoprendo che la corda l’aveva lì, legata a mo’ di collana.

    – Ma come… come hai fatto?

    – È un trucco, te lo insegnerò.

    – Voglio imparare tutti questi trucchi. Voglio diventare bravissimo.

    – Lo diventerai. Sai? Tuo padre quando era giovane fece questa magia davanti a uno dei più grandi imperatori della terra. E anche il trucco del proiettile. Si esibì davanti allo Zar Nicola I di Russia.

    Il bimbo lo guardò dubbioso.

    – Dico davvero. Un giorno, se sarai bravo, anche tu potrai fare uno spettacolo per un re… per l’imperatore della Russia o… chissà?

    In quel momento uscì Elise che subito si strinse nelle braccia per il freddo. Aveva il viso rilassato ma stanco, e del trucco, che non si era tolta perfettamente, le brillava sul collo a ogni fulmine che si abbatteva in terra. Guardò i due ometti seduti sul marciapiede, infreddoliti e fradici, e sorrise commovendosi. S’abbassò e abbracciò il figlio, e carezzò Henry sulla guancia.

    Capitolo 1: Sotto gli sguardi del popolo

    Del resto di cosa avrei bisogno se non di un’unica menzogna? Potrai dirmi ciò che vuoi, e donarmi una falsa felicità, ma… dovrai farlo ad arte, che io non tema d’esser derisa. E ti seguirò in sposa ovunque andrai, comunque e in ogni modo, fin dove vorrai.

    Fin dentro al tuo inferno.

    La mattina prometteva grandi accadimenti e tutto il popolo gioiva per qualcosa che non gli apparteneva e dal quale non avrebbe tratto nessun beneficio. Sulle vie, schiere di soldati si susseguivano e splendevano nelle loro divise nuove e ripulite per l’occasione. Le genti si accalcavano sui marciapiedi delle strade principali e attendevano, nel mentre, rumoreggiavano ed esplodevano a ogni movimento o sguardo inconsueto dei soldati in parata. Dalle porte dei palazzi più importanti personalità di rilievo iniziavano a fare capolino in strada. Stupiva la loro abilità nel portare abiti così complicati e scomodi, in speciale modo le donne avrebbero passate ore interminabili a gestire metri quadri di stoffe montate con tecniche da equilibrista sul proprio corpo. I ragazzini prudenti montavano un passo dopo l’altro, timorosi che anche il solo fazzoletto infilato nella tasca della giacca non si spostasse, facendo irritare la balia e imbufalire i genitori impegnati ad apparire lucenti e a proprio agio nella ricchezza e lo sfarzo del quale erano portatori. Soltanto il Palazzo D’Inverno stava incollato e tranquillo al proprio posto, e non sembrava essersi accorto di quel trambusto già sotto la piazza antistante al suo ingresso e fino al centro della città. E non una tendina, o la più piccola ombra dietro una di queste, aveva dato evidenza di vita al suo interno. Generò, quindi, la giusta curiosità, una carrozza in corsa che, dopo aver percorso l’intero viale principale e infilatasi a gran velocità nell’esiguo spazio lasciato libero nello slargo, si fermò proprio di fronte alla cancellata e ripartì in corsa pochi attimi dopo. Sembrava che nulla fosse accaduto in quel frangente e i più, dalla folla, avevano tentato, allungando la testa al di sopra delle altre, di scorgere movimenti o rivelazioni succulente. Ma nessuno aveva colto alcunché. Tuttavia, un uomo era sceso velocemente dal mezzo quasi in corsa, e si era infilato nel cancelletto laterale appena aperto per permettere il suo passaggio, giusto per quell’attimo. L’azione era stata veloce e precisa, l’ospite particolarmente discreto e la carrozza non aveva dovuto attendere che si aprissero i cancelli principali per permettergli un’azione più riservata nel cortile interno. Il palazzo non era vuoto, all’interno brulicava di esseri in continuo movimento, perlopiù donne con abiti candidi orlati e impreziositi da fiori e altre figure costruite con artistici ricami. Sembrava scivolassero sui larghi pavimenti di marmo dei corridoi. L’enorme residenza traboccava vita ma non si udiva un solo suono né una parola, e lo sguardo di chiunque era serio e traspariva tristezza. La gioia fuori, in strada, non penetrava i muri e non oltrepassava i vetri, e l’unico rumore cadenzato e colmo di echi lo generava proprio quell’uomo appena giunto con il suo pesante passo, sbattendo logori scarponi bruni. Aveva spalle larghe e mani enormi che gli sfioravano le ginocchia, e parevano prive di vita nel dondolare involontariamente lungo i fianchi. Lunghissimi e spessi capelli scuri si adagiavano sulle sue spalle, pesanti e immobili da mesi di sporco accumulato, e si fondevano unendosi a una lunga barba ispida, trappola per ogni tentativo d’espressione. Si muoveva sicuro, in quell’ambiente che non era il suo, ma nessuno si curava del suo incedere. Eppure la sua figura enorme, di quasi due metri, doveva risaltare fra tante piccole donne e omini delicati protetti dalle proprie uniformi scintillanti. Lui era scuro dagli abiti alla stessa anima, e anche se una lunga casacca di velluto sporca in più parti non ne definiva il contorno, si notavano le sue spalle curve e attraverso questa se ne intuiva un corpo forte ma gravato dal suo stesso peso. Vibravano il pavimento e i muri al suo passaggio, tanto che pareva così innaturale che quel fantasma potesse essere fatto di materia reale. Quel luogo luccicante del bianco e degli ori, dei ricami verdi degli stucchi e dei tendaggi color crema, dei tappeti scarlatti e orlati d’argento senza un inizio né una fine, non aveva nulla a che spartire con quella figura nera che procedeva come fosse nella propria casa. Nessuno si voltò a guardarlo e non vi furono commenti al suo passaggio, neanche un ragazzino nella propria innocenza si sarebbe arrischiato a giudicare quella presenza. Quell’uomo, in quelle sale, aveva il potere sul tempo e sulla storia e chiunque si sarebbe guardato dal giudicarlo.

    Salì velocemente la grande scalinata candida riempiendola con la propria figura e lo svolazzare dell’ampio abito, e infilò con poche falcate un corridoio fermandosi al bordo della Rotonda, la sala circolare che permetteva la comunicazione fra le stanze dei veri residenti. Guardò una a una le porte spostando solo gli occhi e, attraversandole con la mente, vi vide la vita all’interno. Deciso si diresse verso la stanza di Ol'ga ed entrò senza bussare. Alcune donne all’interno si spaventarono in quell’attimo, ma tornarono tranquille appena videro chi era. La maggior parte di loro era vestita della sola biancheria intima e neanche il proprio padre aveva il permesso di visitarle in quelle vesti, ma con quest’ospite non dimostrarono imbarazzo né fastidio. Avevano lo sguardo cupo e triste, come chiunque si incontrasse nel palazzo, ma si preparavano al grande evento di quella mattina e non si poteva più attendere: bisognava mettere da parte i crucci e darsi una mossa.

    L’uomo aveva un luccichio negli occhi, non parlava, ma una sorta di suono grave e inquietate si generava dal suo respiro. Le guardò a lungo, quelle giovani ragazze che solo da pochi anni avevano abbandonato i giochi fanciulleschi (Anastasija ne era ancora presa), e non nascose pensieri interessati. Si carezzò i lunghi capelli e poi la barba incolta, aprì leggermente le labbra enormi ingoiando a vuoto e rumorosamente. Nel suo sguardo si leggeva una lussuria sconosciuta alle genti comuni, impulsi incontenibili che lo rendevano schiavo dei propri sensi e incontrollabile, ma inaspettatamente efficace e convincente nell’ottenere ciò che di solito bramava.

    – Sei giunto finalmente a noi, eravamo in pena, nostro caro amico. Il piccolo non dorme

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