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Tropico degli infami
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E-book248 pagine3 ore

Tropico degli infami

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Info su questo ebook

La feccia deve essere educata, sostengono a sinistra. La feccia deve essere spazzata via, ribattono a destra. Mentre discutono, la feccia tira a campare lucrando dove può, sniffando coca, crepando con una pallottola nel cranio. Ma dalla spazzatura umana può anche nascere una nuova vita. Vero miracolo a Milano, città senza speranza per gli ultimi. Un noir nei bassifondi della «capitale morale».
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita5 lug 2021
ISBN9791220819893
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    Anteprima del libro

    Tropico degli infami - Pasquale De Caria

    Capitolo uno

    Niccolò, fatto a immagine e somiglianza di uno scimpanzé buono come il pane, non ci arrivava ad afferrare il ramo s u cui cresceva il senso della sua vita. Ci sarebbe riuscito durante una notte alcolica, cercando di uccidere una mezza tacca di balordo, per difendere una tossica in dolce attesa. Ad andare all’altro mondo sarebbe stato Niccolò, senza sapere come andava a finire.

    Al momento era davanti a un computer rubato. Guardava YouPorn, nella discarica della sua casa, due stanze con angolo cottura, bagno stretto e lungo, terzo piano di un caseggiato popolare dove spesso echeggiavano minacciose urla di Tarzan e atterrite grida di Jane. Il bilocale era disseminato di vestiti. Le ante e i cassetti erano aperti. Sembrava che fossero passati gli sbirri a perquisire. Invece, come avevano detto in televisione, era ricerca di uno scopo. Una colonia di muffa si espandeva sul soffitto. C’era un lieve odore di fogna. Verso le tre del pomeriggio, Niccolò sbadigliò. Distolse gli occhi dallo schermo e li fece scorrere lungo le crepe della stanza. Murato vivo. Si era collegato a internet appena alzato, a mezzogiorno. Se Lucia, tornata dal lavoro, avesse iniziato a fargli le moine, non ce l’avrebbe fatta a fare sesso. La voglia era come congelata. Andò in paranoia. Di brutto. Si alzò di scatto. Buttava via il tempo. Tutti i giorni. Si pose le domande difficili: Dio, l’aldilà, che campava a fare.

    «Libera l’anima… libera l’anima…», canticchiò stonato.

    Si accigliò, figurandosi Jovanotti. Era famosissimo, altissimo, simpaticissimo e molto bello. Una sfilza di gran fortune. Una cassaforte della felicità. Chi tutto, chi niente, annuì Niccolò, però poco convinto. Scosse la testa. Qualcosa non quadrava. Sembrava tutta una finta. Anche le altre star della musica e i loro fan, che si dimenavano sui palchi e sui prati, avevano delle espressioni come se camuffassero. L’enigma era tosto. Niccolò continuò a pensare. Il cervello iniziò a fumare. Sentì puzza di bruciato. Il suo stato d’animo peggiorò. La paranoia sprofondò nella zona oscura. Alzò le ali delle braccia e rimase immobile, a prendere la posa dell’Uomo Vitruviano che aveva visto la sera prima in un documentario imposto da Lucia, un maschio dall’aspetto sano, virile e pure intelligente, che simboleggiava il mistero dell’es­sere umano, unico concetto che gli era entrato in testa. Rimase in quella posizione, con addosso la tuta da ginnastica con stampata la scritta italia sul petto, corrugando la fronte. Imitava l’espressione dei cervelloni. Una risata gutturale gli esplose nel petto e sulla bocca. Abbassò le braccia, che fece dondolare. Appoggiò lo sguardo sullo schermo. Gli occhi brillarono. Nello stomaco, la nausea. Si lisciò il mento. Socchiuse una palpebra. Inarcò un sopracciglio.

    «Uhm…».

    L’occhio socchiuso era torbido, quello a fianco, riflessivo. Di impeto, si stampò uno schiaffo sulla faccia. Il dolore lo aiutò a capire qual era la decisione da prendere. Spense il computer. Sullo schermo dilagò il nero. Finalmente libero, si disse con un sorriso ebete e lo sguardo ottuso. Gocce di sudore iniziarono a scendergli sulla fronte. Il porno gli mancava. E non aveva niente da fare. Badare alla casa, fare la spesa, cucinare, non era affar suo. Stava per riaccendere il computer. Voltò le spalle, imitando i veri uomini che facevano quello che volevano. La risolutezza scemò in flemma. Scavalcò jeans, camicie e scarpe. Come se si spostasse fra i cespugli, si trascinò nell’altra stanza. Si sdraiò sul letto. Intrecciò le dita dietro la nuca.

    «Uhm».

    Si accorse che si muoveva a fatica. Era il processo di imbalsamazione del dolce far niente. Le palpebre si appesantirono. Girò la testa verso il comodino. C’erano lo smartphone, fazzolettini, una crema di bellezza, schede per le ricariche telefoniche già usate, cerotti, forcine, tagliandi del Superenalotto, Gratta e Vinci strappati. E il telecomando della televisione. Lo agguantò. Con la coda dell’occhio inquadrò la finestra dal quale entrava il sole glaciale di inizio dicembre. Emerse un ricordo che quando si ripresentava lo costringeva a fare due più due, che non risultava quattro. Un’assurdità che invece di deprimerlo perché lo faceva sentire più idiota di quello che era, gli spezzava il cuore. Mollò il telecomando. Volse il capo verso la finestra.

    Vide la palazzina C. Il quarto piano. Il pericolante balcone, sul quale c’erano una scala di metallo chiazzata di vernice, uno stendibiancheria senza vestiti appesi e un secchio incrostato di cemento da cui spuntava il manico di una cazzuola. La portafinestra era chiusa. Sul vetro scendeva una tenda scura. Era la camera da letto dell’appartamento in cui avevano abitato i Bonissola, marito e moglie, senza figli. Lei: una giovane donna, mora, alta, prosperosa, da lontano il volto sembrava una maschera inespressiva, ma da vicino, nei suoi rapidi saluti quando la si incrociava, rivelava con uno sguardo saettante le fiamme del fuoco che le ardeva dentro. Lui: taciturno, più basso della moglie di una decina di centimetri, largo di spalle da sembrare un muro che camminava, diceva di essere piastrellista, ma lo si vedeva la mattina, il pomeriggio e pure la sera a vagare da bar a bar, dove si incollava alle slot, la fronte furibonda, gli occhi permalosi. Una afosa notte di luglio, si erano uditi degli strilli agghiaccianti. Era lei, la moglie, a chiamare aiuto, nuda. Sul balcone. I pugni stringevano il parapetto. Il marito, in mutande e canottiera, era alle sue spalle: la voleva buttare giù. Non ci riusciva e le tirava pugni e schiaffoni. Era arrivata la polizia. Lui era stato spinto a forza nella volante, ammanettato, con espressione demoniaca; lei era andata via in ambulanza, nella quale era entrata mogia, i folti capelli neri, un vestito a fiori, sorretta da un paramedico giovane e bello, che le offriva un braccio a cui era avvinghiata come prima era aggrappata al parapetto. Da quella sera i Bonissola non si erano più visti. Nessuno ne aveva più parlato. Dopo qualche settimana, erano riapparsi. Al tiggì regionale, sui giornali, su internet. Il marito l’aveva strangolata. Di notte. In strada. Lui lo avevano arrestato mentre vagava dalle parti di Vigevano. Delirava. Si trascinava con le ginocchia in un campo di mais, battendosi il petto, implorando perdono e invocando il fulmine inceneritore. L’appartamento era rimasto vuoto. Nessuno lo voleva, neppure gli stranieri con decreto di espulsione in tasca e mandato di cattura nei paesi di origine. Portava sfortuna. C’era di mezzo un morto ammazzato.

    Niccolò, vittima numero uno del fascino di quella donna che ispirava una rionale lussuria, quando la ricordava come stava facendo in quel momento, andava in confusione. Non riusciva a spiegarsi la relazione che legava l’immagine della bella signora che nella fantasia gli faceva fare di tutto a letto, con l’immagine della medesima bella signora che a un certo punto gli appariva in un’altra posa: gli occhi sbarrati e vitrei che guardavano il terribile nulla, strangolata dal marito.

    «Uhm…».

    Proprio non capiva, Niccolò. La cosa più sublime della vita, il sesso, e la cosa più orribile, morire, erano legate. Tamburellò con le dita. Era un problema per i geni. Non si scoraggiò. Rimase concentrato. Invece di uno straccio di intuizione, nella mente gli apparvero i fusti di acciaio con sopra stampato il teschio con le tibie incrociate, che aveva sotterrato a centinaia in buche a filo con le falde acquifere. Sentì un dolore acuto nel petto, per la bella signora che era morta, quando invece poteva ancora essere viva; per il marito, con la doppia condanna della galera e del pentimento. Per i fusti sotterrati. Lo smartphone vibrò e squillò.

    Saltò su: Lucia.

    Lo brandì. Si irrigidì come se si mettesse sugli attenti: Aldo.

    «Sono Totò Riina. Voglio parlare con Buscetta.»

    «Uhm…» rispose Niccolò catatonico, come sempre gli succedeva quando cambiava la realtà che lo circondava.

    «Allora, c’è o non c’è Buscetta?» ripeté Aldo con un tono divertito. «Ho capito, lasciamo perdere. Prima che afferri lo scherzo faccio in tempo a venirti a prendere io. Ascolta, dove sei? Che stai facendo?»

    «Sono a casa. Sto guardando… la televisione.»

    «Sì, come no… la televisione. Sei stravaccato sul letto. Oppure sei davanti al computer a guardare il porno. Molla tutto e vieni qua. Ti devo far vedere una roba.»

    Niccolò si guardò intorno, spaventato. Come faceva Aldo a sapere cosa stava facendo?

    «Hai sentito quello che ti ho detto?» rincarò.

    «Sì, sì. Devo mollare tutto e venire da te. Di che si tratta?»

    «Rimbamba, al telefono non si parla…»

    «Hai ragione. Scusa.»

    Si sentì un trambusto e una smorta risata femminile. Niccolò scommise che era Bea, palpata da Aldo mentre parlava al telefono. Si sentì dispiaciuto. Senza un perché.

    «Sei ancora lì?», proruppe Aldo. «Fai veloce!»

    «Arrivo.»

    Misero giù. Niccolò allargò un sorriso tontolone. Una telefonata di Aldo significava lavoro. Si alzò. Per terra vide il sacro cuscino che usava Lucia per la cervicale, senza il quale si girava e rigirava nel letto, si lamentava nel sonno, scalciava per poi svegliarsi intrattabile. Esitò: i maschi non mettevano in ordine la casa. Poi mogio si chinò, lo raccolse e lo mise al suo posto. Con passi svelti andò in bagno. Per non guardarsi allo specchio, entrò a testa bassa, incontrando con lo sguardo il ripiano sul quale era adagiato il rasoio rosa con cui Lucia falciava gli enormi peli delle gambe, che le crescevano come ci fosse sempre la luna piena. Si lavò la faccia. Se l’asciugò, mettendosi di profilo allo specchio. Non sopportava la vista del suo volto. Non gli piaceva da nessuna angolazione. Poi, però, si guardò in tralice. Vide l’orecchio a sventola, la fronte bassa, l’occhio dallo sguardo ottuso, il naso schiacciato, la mandibola prospiciente, il labbro spesso e la pelle olivastra. Fissò l’occhio. Lucia diceva sempre che lui aveva uno sguardo buono e che lo amava per questo. Fece spallucce. I gusti erano gusti. Si svestì e rivestì. In jeans, felpa nera con cappuccio, scarpe da ginnastica con catarifrangenti, agguantò il giubbotto di pelle e uscì. Sulle scale la puzza di fogna svanì, ma annusò un altro odore, come di cantina chiusa da un secolo. Anche nel cortile c’era lo stesso odore, che non lo abbandonò in strada e neppure quando, entrato in macchina ‒ una Skoda del 2003 con la portiera blu dal lato del passeggero e cofano giallo ‒, si immise sulla via Lorenteggio. Una strada dritta, che non finiva più. Si susseguirono negozi aperti, saracinesche chiuse, bar uno dietro l’altro, supermercati etnici, cestini ricolmi, strisce zebrate scolorite, semafori senza autorità. E pedoni, onesti e disonesti. Percorse quattro chilometri. Svoltò. L’odore adesso era di marcio. Era arrivato in ricicleria.

    Oppressa dal cielo scuro, Lucia uscì dal mercatino dell’usato dove lavorava part-time, in via Ornato, periferia est. Infilò la mano nella borsa. Artigliò lo smartphone. Lo mollò. Non ci sarebbero stati messaggi. Non c’erano mai. Niccolò a stento sapeva leggere e scrivere. Poi si rallegrò, per la prima volta in quel giorno nero. Il 61 era fermo al capolinea. Vuoto. Salì sull’autobus, direzione via Lorenteggio, periferia ovest. Posti a sedere liberi ce n’erano quanti ne voleva. Si affrettò a occuparne uno solitario. Il sedile non era sfondato. Sullo schienale di quello di fronte, non c’erano scritte oscene. Il vetro del finestrino non era graffiato. Si sentì come avesse la coscienza pulita. Chinò il mento. Era l’ultima delle serve, invece. Le porte si chiusero. L’autobus partì. Il dondolio le ricordò le onde del mare, quando faceva la morta. Non sapeva nuotare, ma abbandonarsi ai movimenti dell’acqua, a pochi metri dalla riva, le piaceva tantissimo. Era un pesce. Una medusa. Un’alga. Un sacchetto di plastica. Chiuse gli occhi. Per stare bene bastava sognare. L’autobus frenò brusco. Stava per cadere. Si ricompose. Le onde del mare erano sparite. Non c’era niente da fare: stava malissimo. Usò allora un’altra medicina: non pensare a niente di negativo. Per un paio di fermate, scommise fra sé sui passeggeri che sarebbero scesi o saliti, se erano maschi o femmine, giovani o vecchi. Non indovinò neanche una volta. Abbassò lo sguardo incontrando le ginocchia su cui era appoggiata la borsa Gucci. Seguì con gli occhi gli aloni di unto, i graffi e le scuciture. Decise di impeto di buttarla via. Immaginò di comprarne un’altra, al mercato del sabato. Si vide, splendente, con una borsa nuova al gomito. Si rabbuiò. I vigili avevano dichiarato guerra ai senegalesi che vendevano la merce tarocca. Beccavano anche gli acquirenti. A una sua amica era capitato. Le avevano fatto una multa da cento euro e sequestrato, con tanto di verbale, un paio di jeans Versace che aveva appena comprato. Cento euro, pensò angosciata Lucia, la spesa di quindici giorni… Rassegnata, passò a guardarsi le tozze dita con lo smalto saltato via. Montò in lei una rabbia che la fece tremare. Si sarebbe rifatta le unghie, dalle cinesi. Erano bravissime e volevano soltanto venti euro. La gola le si annodò. Si voltò verso il finestrino, per non far vedere che stava inghiottendo i singhiozzi. Con venti euro faceva la ricarica mensile al telefonino e comprava l’abbonamento settimanale dell’Atm. Rimase con i suoi occhi strabici a sbirciare il mondo che scorreva fuori. Fissò un bel ragazzo che camminava sul marciapiede, e si sentì uno zerbino; poi ammirò un lussuoso portone di un palazzo, e si morse il labbro confrontandolo con i tuguri in cui aveva sempre abitato; si incantò su un’abbagliante vetrina con abiti griffati, e fu tentata di imitare le rom che prendevano d’assalto i cassonetti dei vestiti usati della Caritas, nei quali si trovavano veri e propri tesori di stoffa. Stanca di quell’atteggiamento passivo, decise di risolvere il problema alla radice. Prese fiato e riconobbe che doveva estirpare dal cervello Marco. Contrasse i tratti. Risoluta lo cancellò. Ecco, non c’era più. Sparito. Mai esistito. I lineamenti si distesero. Nella testa udì un rimbombo. Era Marco, che le parlava con quella sua voce profonda. Il cuore esplose ribelle, il ventre avvampò. Chinò di nuovo il mento. Gli occhi in colpa: povero Niccolò, non meritava di essere tradito. Lucia controllò in quale strada fosse. Mancava poco alla sua fermata. Sull’autobus i passeggeri si accalcavano. Molte persone le lanciavano occhiate ostili per il posto a sedere singolo che occupava, come fosse una privilegiata. Si voltò ancora verso il finestrino, schermo sul quale affiorò il periodo più tragico della sua vita, che quello schifo di giornata le offrì in una formula tutto compreso.

    Era senza lavoro, senza casa, senza nessuno. Disperata come soltanto una persona sola al mondo e senza soldi può essere, aveva preso in considerazione l’ipotesi di suicidarsi, gesto che l’istinto di sopravvivenza le aveva impedito di compiere sibilandole una soluzione che si avvicinava a quel gesto estremo, ma senza raggiungere l’effetto fatale. Aveva deciso di prostituirsi. Il bagliore di questa soluzione che l’avrebbe fatta evadere dalla prigione a cielo aperto della disoccupazione e della solitudine, aveva cancellato l’immagine che aveva sempre avuto di sé. Non erano più un’invalidità le spalle grosse, i seni piccoli, i fianchi cicciottelli, le cosce grassottelle, i polpacci a tronco d’elefante e i piedi troppo lunghi per il suo metro e sessanta; era invece orgogliosa di come era, sopratutto del suo enorme fondoschiena. Che tanti problemi le aveva creato da adolescente, perché continuava a crescere a dismisura, e sul quale si era avvinghiato come un pazzo un vicino di casa dai lineamenti animali, dopo averla fatta entrare con l’inganno in casa sua. Quello era stato il primo maschio, copiato nei movimenti e nei grugniti dagli uomini su cui era andata a sbattere come un eco, finché non aveva conosciuto Niccolò, l’unico che non le era saltato subito addosso, ma prima le aveva offerto una pizza, una birra, due parole in croce sul suo passato di trovatello e che l’aveva voluta rivedere una seconda volta. In quel breve periodo in cui aveva preso in considerazione l’idea di prostituirsi, la brace del suo carattere caparbio non le aveva fatto mollare la ricerca di un lavoro qualsiasi, trovandolo alla fine da Benetton per i tre mesi estivi, durante i quali quando era stanca, stufa, mestruata, nel cantuccio in cui si rifugiava durante la pausa pranzo, era spesso tornata sull’ipotesi di vendere il suo corpo, provando lo stesso senso di libertà che aveva ritrovato in un Vaffa day di Grillo, a un cui raduno aveva partecipato trascinando Niccolò, che quando aveva capito che non si rideva aveva tirato giù un muso lungo così.

    L’autobus si fermò. Le porte si aprirono. Era arrivata. Scese. Si sentì un po’ meglio: casa dolce casa. Guardò davanti a sé. Vide il muro imbrattato di graffiti, indecifrabili come i geroglifici degli antichi Egizi, la civiltà venuta dalle stelle, verso la quale Lucia sollevò il suo sguardo sognante, che modificò in perplesso perché nel cielo c’era soltanto un manto che non seppe definire se grigio o nero. Riportò lo sguardo al livello della strada. In mezzo al muro, si apriva il cancello scrostato, oltre il quale si ergevano gli edifici delle palazzine che iniziavano con la A e finivano con la N. Attraversò il cortile: un paesaggio lunare. Si fermò, trafitta. Marco ci credeva, agli alieni. Sosteneva che la luna era una loro base da cui osservavano da vicino l’umanità. Erano fatti l’uno per l’altro, lei e Marco. L’asola e il suo bottone, come aveva letto in un Harmony o sentito in un film d’amore. Ricominciò a camminare. Arrivò davanti alla sua palazzina. I bidoni della spazzatura per la raccolta differenziata che nessuno faceva, il portoncino di vetro armato, nella stessa identica posizione della mattina, visti dall’angolazione dei suoi stessi identici passi che stava ripercorrendo. Non se la sentiva di salire in casa. Voltò le spalle. Tornò indietro. Una fuga di qualche minuto, non si negava neanche all’ultima delle serve.

    Sul marciapiede, fissò il mazzo di crisantemi legato con un nastro nero al palo del divieto di sosta. I fiori erano freschi. Una mano invisibile li cambiava appena accennavano ad appassire. Per una delle tante stranezze metropolitane, in quel momento non c’erano macchine che passavano. Neanche all’orizzonte. Lucia, con gli occhi vitrei, ricordò. Qualche tempo prima, una domenica di blocco del traffico, era stato investito un bambino, in quella strada. Il bambino era in compagnia dei genitori, che si trovavano in zona per una visita ai parenti. Erano alla fermata dell’autobus, stavano tornando a casa. Il bambino correva avanti e indietro. In lungo e in largo. Un attimo di distrazione, nella strada deserta era sbucata una macchina che l’aveva investito. Alla guida c’era un signore anziano, in compagnia della moglie. Avevano il permesso di circolare, erano andati a un battesimo. Lucia era scesa di casa quando il corpo del bambino era già stato coperto da una coperta termica. L’ambulanza non era ancora arrivata. Non si capiva perché tardasse, vista la mancanza di traffico. C’erano però gli agenti della polizia locale. Uno di questi teneva lontano dalla coperta termica rigonfio i molti curiosi che si erano radunati; altri suoi colleghi misuravano distanze, fotografavano la striscia della frenata sull’asfalto, prendevano appunti. Il conducente della macchina singhiozzava in un angolo, la moglie al suo fianco guardava davanti a sé con uno sguardo assente. A sorvegliarli c’era un’agente, corpulenta e con l’e­spressione severa. I genitori del bambino, entrambi sulla trentina, vestiti da domenica di festa, non piangevano. Erano immobili, seduti sotto la pensilina della fermata dell’autobus. I loro volti erano imperturbabili. Era arrivata l’ambulanza a sirene spiegate. Poi era calato il silenzio. Il medico si era accovacciato. Aveva scostato la coperta termica. La madre del bambino si era alzata. Aveva fatto un passo avanti. Il

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