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Tempo da leoni a Timbuctù
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E-book129 pagine1 ora

Tempo da leoni a Timbuctù

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ROMANZO BREVE (89 pagine) - FANTASCIENZA - Una commedia sofisticata e affascinante alla corte del Songhai, in un mondo ucronico dove la Peste Nera ha devastato l'Europa e l'ha consegnata in mano all'Impero Ottomano

Ogni storia sugli universi alternativi ha un suo punto di partenza, il punto da cui l'universo alternativo diverge dal mondo che attualmente viviamo. In questa storia il punto di divergenza è situato nell'anno 1348, quando la "Peste Nera" devasta l'Europa uccidendo circa il venticinque per cento della popolazione, e lasciando i sopravvissuti, sconvolti e confusi, incapaci di difendersi contro la potenza dei turchi ottomani, scampati all'epidemia e pronti alla conquista del vecchio continente. Questo piccolo gioiello inedito del grande Silverberg ci narra una commedia garbata e sofisticata (vagamente ispirata a Shakespeare), ambientata in una Timbuktu ucronica ove personaggi senza scrupoli e dolci donzelle tramano nell'attesa ansiosa della morte del vecchio sovrano. 

Robert Silverberg è unanimemente riconosciuto come uno dei massimi autori della fantascienza contemporanea. Nato a Brooklyn (New York) il 15 gennaio del 1935, iniziò a scrivere SF d'avventura negli anni '50, diventando ben presto uno degli autori più famosi e prolifici e ottenendo il premio Hugo come autore più promettente del 1956. Durante la metà degli anni sessanta però, spinto dal desiderio di dimostrare a se stesso e agli altri le sue capacità di vero scrittore, e di essere in grado di realizzare anche opere di qualità, Silverberg impresse una svolta decisiva allo stile dei suoi romanzi, iniziando a produrre opere di maggiore impegno umano e letterario. Tra gli scritti più importanti di questo secondo periodo ricordiamo "Ali della notte" (con cui vinse anche un premio Hugo), "Brivido crudele", "Torre di cristallo", forse la sua opera più completa e riuscita, "Vertice di immortali", "Paradosso dei passato", e "Mutazione", che si inserisce in quel gruppo di romanzi dedicati da Silverberg alla descrizione e all'esplorazione dell'esperienza mistica della trascendenza.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2015
ISBN9788867756995
Tempo da leoni a Timbuctù
Autore

Robert Silverberg

<p>Robert Silverberg has won five Nebula Awards, four Hugo Awards, and the prestigious <em>Prix Apollo.</em> He is the author of more than one hundred science fiction and fantasy novels -- including the best-selling Lord Valentine trilogy and the classics <em>Dying Inside</em> and <em>A Time of Changes</em> -- and more than sixty nonfiction works. Among the sixty-plus anthologies he has edited are <em>Legends</em> and <em>Far Horizons,</em> which contain original short stories set in the most popular universe of Robert Jordan, Stephen King, Ursula K. Le Guin, Gregory Benford, Greg Bear, Orson Scott Card, and virtually every other bestselling fantasy and SF writer today. Mr. Silverberg's Majipoor Cycle, set on perhaps the grandest and greatest world ever imagined, is considered one of the jewels in the crown of speculative fiction.</p>

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    Anteprima del libro

    Tempo da leoni a Timbuctù - Robert Silverberg

    9788867756148

    1

    Durante i secchi, soffocanti, giorni di inizio estate l'emiro, il re, l'imam, il Gran Padre del Songhai, giaceva sul letto di morte nel suo fresco palazzo dalle scure pareti di fango nel quartiere di Sankore della vecchia Timbuctù. La città sembrava come congelata, era strano pensare al congelamento proprio in una tale stagione di caldo assassino che ti crollava addosso come un muro di ferro rovente. C'era una grande stasi, come se tutto fosse sepolto nel ghiaccio. Il fiume era basso e lento, quasi impercettibile scorreva nel suo letto, appena più vigoroso di uno stanco coccodrillo malato. Nessuno usciva di casa, nessuno si muoveva in casa, ognuno rimaneva seduto immobile, in attesa della morte del vecchio e pregando che portasse le rinfrescanti piogge.

    Nel suo palazzo molto più piccolo a fianco di quello dell'emiro, Piccolo Padre rimaneva  seduto immobile come tutti quanti, osservando e aspettando. Ora il suo tempo stava infine per arrivare. Era un pensiero che faceva riflettere. Da quanto tempo era stato il principe del regno? Vent'anni? Trenta? Aveva perso il conto. E ora finalmente doveva governare, ora doveva essere proprio lui a trarre presagi e pronunciare decreti, ad accogliere con garbo le carovane e sedere al posto più alto nella grande moschea. Tanta fatica, tanta responsabilità; eppure l'emiro non era ancora morto. Non ancora. Non proprio.

    – Piccolo Padre, gli ambasciatori stanno arrivando.

    Sotto la porta ad arco si trovava Ali Pasha, sorrideva inchinandosi. Il viso del visir, nero come l'ebano, brillava di sudore, una luna buia che splendeva contro l'oscurità più leggera del vestibolo. Nonostante il suo nome, Ali Pasha era un puro songhai, nero come il dolore, di gran lunga più nero di Piccolo Padre, il cui sangue si era mescolato a quello di aspiranti conquistatori degli anni passati. L'aura del potere che presto sarebbe stato suo brillava e scoppiettava intorno alla testa di Ali Pasha come un fulmine in pieno inverno: in effetti, senza alcun dubbio, era proprio Ali Pasha il futuro gran visir. Quando Piccolo Padre sarebbe diventato re, gli ufficiali del vecchio emiro avrebbero dovuto dimettersi e ritirarsi. I ministri di un emiro non durano in carica oltre il suo regno. Nei tempi antichi sarebbero stati fortunati perfino a sopravvivere alla morte del vecchio emiro.

    Sventolandosi, Piccolo Padre alzò lo sguardo imbronciato per incontrare il ghigno insolente del suo visir.

    – Quali ambasciatori, Ali Pasha?

    – Quelli più importanti, sono qui per partecipare al funerale di Gran Padre. Un turco. Un messicano. Un russo. E un inglese.

    – Un inglese? Perché un inglese?

    – Sono un popolo molto orgoglioso, ora. Fin dall'epoca della loro indipendenza. Come potevano starne alla larga? Questa è una morte molto importante, Piccolo Padre.

    – Ah. Ah, naturalmente. – Piccolo Padre contemplava il fine graticcio in legno moresco che ornava la porta. – Nessun peruviano?

    – Un peruviano molto probabilmente arriverà sul battello successivo, Piccolo Padre. Anche un maori e, si dice, un cinese. Ce ne saranno probabilmente anche altri. Entro la fine della settimana la città si riempirà di dignitari. Questa è la morte più importante degli ultimi anni.

    – Un cinese, – ripeté Piccolo Padre a bassa voce, come se Ali Pasha avesse detto che stava arrivando un ambasciatore dalla Luna. Un cinese! Ma sì, sì, questa era una morte molto importante. L'impero Songhai non era certo una piccola nazione. Il Songhai controllava il crocevia d'Africa; tutte le carovane in cammino tra il nord e il sud del deserto tropicale dovevano passare attraverso il Songhai. L'emiro del Songhai era fra i grandi re del mondo.

    Ali Pasha disse acido: – i peruviani pensano che Grande Padre duri fino all'arrivo delle piogge, suppongo. E così se la prendono comoda per venire. Sono persone di un paese montuoso, questi peruviani. Non sono abituati al nostro caldo.

    – E se dovessero perdersi del tutto il funerale per aspettare l'arrivo delle piogge?

    Ali Pasha si strinse nelle spalle. – Allora impareranno cosa vuol dire davvero aver caldo, eh, Piccolo Padre? Quando torneranno a casa fra le loro montagne e racconteranno al Grande Inca che non sono riusciti ad arrivare in tempo, eh? – Fece un verso che era qualcosa di simile a una risata, e Piccolo Padre, cresciuto fra i versi del suo visir, rispose con un cupo sorriso.

    – Dove sono questi ambasciatori ora?

    – A Kabara, alla locanda del porto. Il loro battello è appena attraccato. Abbiamo inviato le chiatte reali per condurli qui.

    – Ah. E dove alloggeranno?

    – Ognuno presso l'ambasciata del proprio paese, Piccolo Padre.

    – Naturalmente. Naturalmente. Quindi, per il momento, non è necessario alcun intervento da parte mia per questi ambasciatori, eh, Ali Pasha?

    – Nessuno, Piccolo Padre. – Dopo una pausa il visir disse: – Il turco ha portato sua figlia. È molto bella. – Lo disse facendo oscillare gli occhi, snudando i denti. Piccolo Padre sentì un moto di desiderio, come Ali Pasha aveva di certo previsto. Il visir conosceva il suo principe molto bene, poi, – Molto bella, Piccolo Padre! Nel senso che è bianca, voi mi capite.

    – Capisco. L'inglese, ha portato sua figlia anche lui?

    – Solo il turco, – rispose Ali Pasha.

    – Ricordi la donna inglese che venne qui una volta? – chiese Piccolo Padre.

    – Come potrei dimenticarla? Capelli come fili d'oro fino. Seni candidi come latte. Capezzoli rosa pallido. La peluria del ventre là sotto, come l'oro fino anche lì.

    Piccolo Padre aggrottò la fronte. Aveva parlato abbastanza spesso ad Ali Pasha del seno latteo della donna inglese e dei capezzoli rosa pallido. Ma non ricordava affatto di aver descritto, a lui o a chiunque altro, la peluria dorata in basso. Un raro momento di disattenzione, quindi, da parte di Ali Pasha; oppure un po' di deliberata malizia, forse un modo di mettere alla prova Piccolo Padre. Ali Pasha correva dei rischi agendo così, ma di certo Ali Pasha lo sapeva. In ogni caso era una questione che Piccolo Padre scelse di non approfondire subito. Si lasciò cadere di nuovo nel silenzio, facendosi vento con più vigore.

    Ali Pasha non mostrò alcun segno di uscire. Quindi dovevano esserci altre novità.

    Gli occhi scintillanti del visir si strinsero. – Ho sentito dire che molto presto cominceranno le danze al mercato.

    Piccolo Padre sbatté le palpebre. Dunque, le condizioni del re si erano fatte critiche? Tutti ne erano a conoscenza tranne lui?

    – La danza della morte, vuoi dire?

    – Sarebbe prematuro, Piccolo Padre, – disse Ali Pasha ossequioso. – È la danza della vita, naturalmente.

    – Naturalmente. Dovrei andarci, in questo caso.

    – Fra mezz'ora. Al momento stanno ancora radunando le formazioni. Bisognerebbe prima andare da vostro padre.

    – Sì. Dovrei proprio. Dall'emiro, anzitutto, a chiedere la sua benedizione; e dopo alla danza.

    Piccolo Padre si alzò.

    – La ragazza turca, – disse. – Quanti anni ha, Ali Pasha?'

    – Potrebbe averne diciotto. Forse venti.

    – Anche bella, dici?

    – Oh, sì. Sì, molto bella, Piccolo Padre!

    2

    C'era un passaggio sotterraneo che collegava il palazzo di Piccolo Padre a quello del Gran Padre; ma improvvisamente, per capriccio, Piccolo Padre scelse, di recarsi lì uscendo all'aperto. Non usciva di casa da due o tre giorni, dal momento in cui la calura più atroce era scesa sulla città. Ora sentiva l'aria esterna colpirlo come l'esplosione di un forno mentre attraversava il cortile e usciva allo scoperto. Tutta la città era come una fucina in quei giorni, e lo sarebbe stata ancora per settimane e settimane, fino a quando non fossero arrivate le piogge. Ci era abituato, naturalmente, ma non gli era mai piaciuto. A nessuno sarebbe mai piaciuto, tranne che a uno squilibrato o ad un santo, se davvero ci fosse mai stata qualche differenza tra l'uno e l'altro.

    Uscendo sul portico del suo palazzo, Piccolo Padre si affacciò su un panorama di tetti piatti di fango davanti a lui. Il labirinto di vicoli e passaggi di collegamento, le torri delle moschee, i palazzi nobiliari cinti di mura. In una nebbiosa lontananza sorgevano gli enormi edifici moderni della città nuova. Era tardo pomeriggio, ma questo non recava alcun sollievo dalla calura. L'aria era pesante, stagnante, scintillante. Vibrava come fosse cosa viva. Per tutto il giorno le miriadi di pareti imbiancate a calce si erano impregnate di calore, e ora stavano cominciando a restituirlo.

    Oltre l'aria vibrante aleggiava un secondo e quasi tangibile fremito, il suono metallico che i musicisti stavano accordando per la danza al mercato. La danza della vita, aveva detto Ali Pasha. Forse era così; ma Piccolo Padre non si sarebbe sorpreso di trovare

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