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Il papa del mare
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E-book345 pagine5 ore

Il papa del mare

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Info su questo ebook

"Il papa del mare" prende le mosse dal rapporto fra Claudio Borja, un giovane poeta valenciano, e l'argentina Rosaura Salcedo, trasformandosi ben presto in un evocativo romanzo storico. Lo scrittore, come un moderno aedo, racconta all'amata la storia di un personaggio remoto, vissuto nel XV secolo. Catapultati nel Medioevo insieme ai protagonisti, siamo così sospinti all'epoca del Concilio di Costanza, quando l'oscuro cardinale aragonese Pedro de Luna viene eletto antipapa col nome di Benedetto XIII. Difficile restare indifferenti alle atmosfere petrarchesche della corte di Avignone, alle vicende contorte di un'epoca così vitale e colorita... -
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2022
ISBN9788728411377
Il papa del mare
Autore

Vicente Blasco Ibáñez

Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) was a Spanish novelist, journalist, and political activist. Born in Valencia, he studied law at university, graduating in 1888. As a young man, he founded the newspaper El Pueblo and gained a reputation as a militant Republican. After a series of court cases over his controversial publication, he was arrested in 1896 and spent several months in prison. A staunch opponent of the Spanish monarchy, he worked as a proofreader for Filipino nationalist José Rizal’s groundbreaking novel Noli Me Tangere (1887). Blasco Ibáñez’s first novel, The Black Spider (1892), was a pointed critique of the Jesuit order and its influence on Spanish life, but his first major work, Airs and Graces (1894), came two years later. For the next decade, his novels showed the influence of Émile Zola and other leading naturalist writers, whose attention to environment and social conditions produced work that explored the struggles of working-class individuals. His late career, characterized by romance and adventure, proved more successful by far. Blood and Sand (1908), The Four Horsemen of the Apocalypse (1916), and Mare Nostrum (1918) were all adapted into successful feature length films by such directors as Fred Niblo and Rex Ingram.

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    Anteprima del libro

    Il papa del mare - Vicente Blasco Ibáñez

    Il papa del mare

    Translated by Carlo Boselli

    Original title: El Papa del mar

    Original language: Castilian Spanish

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1933, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411377

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    INTRODUZIONE

    Il grande romanziere spagnolo le cui opere vengono stampate a decine di migliaia di copie, deve in gran parte i suoi primi successi europei alle versioni di Georges Hérelle in Francia, di Gilberto Beccari in Italia e di altri egregi traduttori in Inghilterra, in Germania, in Russia, in Svezia e Norvegia, in Olanda. Il libro che ha specialmente consacrato la sua fama negli Stati Uniti d’America è I quattro cavalieri dell’Apocalisse, la cui tiratura ha colà superato i tre milioni di esemplari.

    Di questo insigne autore, che è stato definito «il romanziere per antonomasia», divenuto ormai un Creso della letteratura, s’è scritto tanto anche da noi, che non é il caso di ripeterne qui i dati bio-bibliografici. A chi voglia sapere diffusamente di lui e delle sue opere, consiglio l’interessante volume di Camille Pitollet: Vicente Blasco lbáñez, ses romans et le roman de sa vie.

    Mi limiterò a dire che Il Papa del Mare, l’ultimo suo romanzo che qui offriamo in veste italiana, e di cui una prima edizione spagnola di 40.000 copie è stata smaltita nel giro di poche settimane, non si può catalogare in nessuno dei quattro gruppi in cui viene generalmente suddivisa l’opera di questo scrittore(romanzi regionali, di ambiente artistico, di genere bellico, cosmopoliti). Esso, pur essendo di carattere essenzialmente storico, si può dire che partecipa in certo modo di tutti e quattro i gruppi suaccennati, perchè vi è ambiente artistico e ambiente bellico, e regionalismo e cosmopolitismo a un tempo.

    Il Papa del Mare si annunzia come il primo di una serie di romanzi «evocativi» destinati a rappresentare una singolare novità nella storia letteraria dell’autore. Vi si intrecciano l’ antico romanzo storico e il romanzo contemporaneo, perchè mentre l’azione si svolge ai nostrigiorni, ne è risuscitata un’altra parallela risalente al secolo XV e rievocante la straordinaria figura di Don Pedro de Luna, l’antipapa aragonese Benedetto XIII (il primo spagnolo che preoccupa l’Europa dopo i tempi di Roma antica), la Corte d’Avignone, lo scisma, San Vincenzo Ferrer, Petrarca e Laura e altre memorabili cose storiche e fantastiche.

    I personaggi sono vigorosamente tracciati e le due vicende non si confondono, non offrono lacune, non danno la sensazione del gioco.

    Anche in questo libro, che contiene pagine magistralmente plastiche o drammaticamente avvincenti, pur risentendo di una certa incompiutezza stilistica, il Blasco lbáñez appare un gran tecnico della composizione e del procedimento, confermando la sua fama universale di mirabile architetto di romanzi.

    La parte storica, già interessante per sè stessa, poiché tratta della storia avventurosa, multicolore, agitatissima, svoltasi intorno a un uomo dalla fibra eccezionale e dalla volontà singolarmente forte, tipico rappresentante della sua razza, è resa ancor più amena dal modo con cui l’autore ce la racconta.

    La sottile trama erotica, che sembrerebbe dapprima un pretesto per proiettare sullo schermo la cinematografia del Papa Luna, finisce per incatenare anch’essa l’attenzione del lettore e chiude con un capitolo veramente bello e suggestivo, di ispirazione vergiliana, degno di figurare accanto alle migliori pagine dell’illustre romanziere valenzano.

    Il libro, nella parte storica relativa all’Italia e agli italiani, susciterà probabilmente molto scalpore da noi per certi giudizi partigiani o incongruenti o troppo sbrigativi, e certe affermazioni tendenziose o comunque errate, che il lettore colto potrà facilmente avvertire; affermazioni e giudizi la cui responsabilità non è naturalmente condivisa dallo scrupoloso traduttore.

    CARLO BOSELLI.

    PARTE PRIMA

    LA CITTÀ DELLE TRE CHIAVI

    I.

    IL CAVALIERE TANNHÄUSER

    Ella rimase qualche momento dubbiosa, frugando mentalmente nel suo passato. Poi s’affrettò a dire sorridendo, come rallegrata dalle sue stesse parole:

    — Vi riconosco. Siete il cavaliere Tannhäuser, quello che amoreggiò con Venere.

    Ciò accadeva nel «Select Hôtel» d’Avignone, alle otto di sera. Claudio Borgia, che l’aveva osservata da lontano durante il pranzo, abbandonò la propria tavola per appostarsi vicino alla hall, e non appena la vide giungere le chiese in spagnolo:

    — Scusate: non siete la signora Pineda?… Ebbi l’onore di esservi presentato a Madrid… Forse non ricordate.

    Ma ella non l’aveva dimenticato, e dopo di aver riso alcuni istanti, parve con gli occhi chiedergli scusa di quella spontanea gaiezza.

    Entrambi rievocarono nella loro memoria come si fossero conosciuti la prima volta. Era stato in occasione di un pranzo in casa del signor Bustamante. un senatore spagnolo che sfruttava per vanità personale i rapporti fra i popoli ispano-americani. I commensali, nel salone, avevano parlato dei personaggi da loro prediletti nella letteratura e nella storia. Ognuno andava poi dicendo quale eroe avrebbe voluto essere.

    Estela, la figlia dell’anfitrione, giovinetta timida nel contegno e nella voce, si doleva di non essere stata l’Ofelia di Shakespeare; suo padre, il solenne don Aristide, era indeciso fra Licurgo e il cardinal Cisneros; un vecchio generale optava per Giulio Cesare.

    Tutti desideravano conoscere quale fosse il personaggio prediletto dalla bella Rosaura Salcedo vedova Pineda, ricca dama argentina, in onore della quale Bustamante dava quel banchetto: ma la signora, che trovavasi di passaggio a Madrid e che quasi tutto l’anno risiedeva a Parigi, o viaggiava nel resto d’Europa, si rifiutò modestamente di rivelare il nome dell’eroina preferita. Non ne aveva punto. Si contentava d’essere quello che era. E quasi tutte le signore presenti, esuberanti di desideri insoddisfatti e d’invidie non placate, piene di rancore contro la mediocrità del proprio stato, la guardarono fissamente, mentre nel loro sorriso si notava un non so che di torbido e di verdognolo, qualcosa insomma assai vicino alla bile. L’approvavano con amarezza. «Che cosa poteva desiderare di più? Non era stata abbastanza favorita dal destino?» La sua ricchezza appariva immensa: una ricchezza americana, di milioni e milioni. Inoltre era libera, poteva soddisfare tutti i suoi capricci, e la sua bellezza si rinnovava incessantemente, come una primavera senza fine, mercè il gran lusso e una igiene costosissima.

    Dopo di lei, fu la volta di Claudio Borgia, considerato dal signor Bustamante come facente parte della sua stessa famiglia, perchè orfano di un suo compagno di gioventù. Molti credevano che quel giovane, senza un’ occupazione determinata, ma possessore d’una pregevole fortuna, dovesse diventare il futuro marito di Estela Bustamante.

    Claudio Borgia, quasi volesse sfidare con le sue parole la rispettabile accolta, affermò energicamente che si rammaricava di non essere stato il cavaliere Tannhäuser.

    Alcuni, per fare sfoggio della loro coltura, s’affrettarono a dargli ragione. Tannhäuser era un poeta errante, un cavaliere cantore, e Borgia componeva versi.

    — No — disse il giovane —; se lo invidio, è perchè amoreggiò con Venere.

    Ci fu un silenzio di stupore e d’incomprensione allo stesso tempo. Poi finirono tutti col ridere, riconoscendo che Borgia aveva delle «stranezze», come tutti coloro che scrivono per il pubblico.

    — E’ naturale che io non vi abbia dimenticato — continuò la bella argentina, mentre procedevano insieme verso il salone dell’albergo. — Un uomo che dà simile risposta è «qualcuno». Quella sera non ci potemmo parlare; il signor Bustamante accaparra così affettuosamente i propri invitati!… Pochi giorni dopo, anzi, forse il giorno seguente, lasciavo Madrid; non ricordo con certezza questo dettaglio. Per me il passato conta assai poco; penso solo al domani; ma vi assicuro che mi sono ricordata spesso di voi. Ogni qual volta sento della musica di Wagner, mi ritorna alla mente il viso di un giovane che ho visto una sola volta in vita mia, e mi domando: «Che ne sarà stato del Tannhäuser di Madrid? Si sarà unito a Ofelia, stanco di attendere l’arrivo di Venere?».

    E la bella signora rise di nuovo, guardando il suo compagno. Questi si sentì turbato dalla gioconda ma ironica cortesia della signora Pineda; sebbene nello stesso tempo la convinzione di essere vissuto nella memoria di lei circa due anni, quasi fosse un personaggio a lei familiare — mentre si credeva interamente dimenticato — non potesse che lusingare intimamente la sua vanità.

    Entrando nella hall, si sentirono avvolti da una atmosfera vibrante di musica e satura di fumo di tabacco biondo con un leggero sentore d’oppio. Poltrone e divani erano occupati da gente che parlava inglese; l’ondata quotidiana di viaggiatori che trascorre ventiquattr’ore ad Avignone, visita il castello dei Papi, la fontana di Valchiusa, cantata dal Petrarca, e prosegue la sua discesa attraverso la Provenza, verso la Costa Azzurra.

    Rosaura si soffermò davanti a due cornicette appese all’ingresso del salone, a livello dello sguardo dei passanti. Una di queste conteneva una piccola chiave: l’altra un foglio di carta giallognola scritto con inchiostro rossiccio. Borgia, che si trovava da maggior tempo nell’albergo, raccontò alla vedova la storia dei due oggetti.

    L’edificio era un palazzo del XVII secolo. Le antiche rimesse servivano ora da garages. La rivoluzione, che nel 1792 aveva acquisito alla Francia la città dei Papi, aveva trasformato il palazzo in locanda. Contava quindi ormai più di un secolo d’esistenza quale albergo, e il cortile d’onore, dove ora venivano a frenare automobili di tutte le nazioni d’Europa, aveva risuonato durante ottant’ anni dello scampanellio e del cigolar di ruote di diligenze e vetture da posta. La chiave conservata in una delle piccole cornici, era quella d’una camera dell’ultimo piano, che era stata occupata da un certo capitano d’artiglieria, di nome Bonaparte, protetto dall’onnipotente Robespierre.

    — Doveva essere prima dell’ assedio di Tolone, quando vagava disorientato, senza sapere come iniziare la sua carriera. Ideò forse qui il suo unico libro, La Cena di Beaucaire, una specie di romanzo politico. Beaucaire è vicinissimo.

    La lettera era stata scritta dal maresciallo della corte napoleonica al padrone dell’albergo. L’imperatore rammentava di frequente un certo intingolo di quaglie che aveva mangiato in gioventù, quando abitava ad Avignone, e il grande personaggio palatino ne domandava la ricetta perchè il cuoco delle Tuileries se ne servisse.

    Rosaura guardò la vecchia lettera aggrottando le ciglia.

    Poi disse gravemente:

    — Scommetto che a Parigi il piatto non dev’essere piaciuto a Napoleone. Non v’è condimento più saporito della giovinezza e della povertà.

    Una piccola orchestra accompagnava le conversazioni degli ospiti, eterni viaggiatori usi a trascorrere la notte nella hall di un albergo, qualunque ne sia la latitudine terrestre, senza mai provare la curiosità d’uscire in istrada. Il giorno è stato fatto per visitare musei e monumenti interessanti; la notte per cenare, in smoking o in abito scollato, e ascoltare un po’ di musica, fumando, sfogliando riviste o chiacchierando con persone altra volta conosciute in un albergo simile, magari dall’altro lato del pianeta.

    La signora argentina e il giovane spagnolo occuparono due poltrone di cuoio, basse e profonde. Era ormai giunto il momento, per entrambi, di spiegare come e perchè si trovassero colà.

    Ella era giunta nel pomeriggio, con la sua automobile. Non poteva ricordare quante notti avesse passate in quell’albergo. Era un luogo imprescindibile di riposo nei suoi viaggi da Parigi alla Costa Azzurra, dove possedeva una villa sontuosa, con frondosi giardini, in riva al Mediterraneo.

    — Tutti qui mi conoscono. Sono una cliente che arriva diverse volte all’anno. Dormo una notte e parto all’indomani, tanto in fretta, tanto distratta, che non mi sono mai nemmeno accorta delle due cornicette che m’avete mostrato or ora. E così farò anche stavolta. Partirò domani, come tutti questi inglesi o americani che passano una notte ad Avignone e spiccano il volo il giorno dopo. Domani sarò a casa mia e vedrò il mare attraverso gli aranci e le palme. E voi, che fate qui?…

    Borgia, che da due settimane si trovava nell’albergo, indugiò alquanto prima di rispondere, mentre il suo volto affilato, bruno ma pallido, arrossiva leggermente. Alla fine balbettò, quasi temesse il ripetersi di quel riso femminile, carezzevole, musicale ma un po’ ironico:

    — Sono venuto da Madrid per certi miei studi… Preparo un libro. Da anni m’interessa la storia di un mio compatriota… un Papa d’Avignone… don Pedro de Luna. Ma queste cose non possono avere interesse per voi, signora; si tratta di anticaglie!

    Ella lo guardò come poc’anzi, quando osservava la lettera del maresciallo della corte napoleonica. La sua voce tornò a risuonare grave e posata:

    — A me interessa tutto ciò che presuppone lavoro e volontà; m’interessa chiunque abbia un ideale e si sforzi di raggiungerlo.

    Rimasero entrambi silenziosi. Per caso, nello stesso istante, cessarono le diverse conversazioni, e nell’ambiente saturo di tabacco e di profumi vibrò, ingrandita dall’improvviso silenzio, la melodia languida dei due violini, del violoncello e del piano che intonavano una romanza d’amore.

    Claudio ebbe a un tratto l’impressione di vedersi sotto una luce del tutto nuova. Dopo due settimane di solitudine, la inattesa presenza di quella donna, alla quale aveva pensato più di una volta come a una figura che appartenesse a un mondo etereo e arcano, pareva gli consentisse di esaminare sè stesso come dominato da un senso assolutamente nuovo. Si sarebbe detto che una specie di lampo mentale avesse concentrato in un attimo tutta la sua esistenza anteriore, propagandola nella sua memoria con lo zig-zag istantaneo e abbagliante delle scariche elettriche.

    Non era che un visionario, predisposto ad adorare cose assurde purchè fossero interessanti. Credeva di esser nato privo di volontà, ed era perciò, indubbiamente, che desiderava di scrivere la storia di quel don Pedro de Luna, che fu la volontà più tenace del suo tempo e forse di tutti i tempi. Viveva come circondato da fantasmi, provando spesso il rammarico di non essere più bambino, e di non poter più farsi raccontare quelle storie meravigliose che tanto lo avevano allietato nei primi anni della sua vita. Non aveva conosciuto, a differenza della maggior parte degli umani, il sicuro ambiente familiare e il sorriso protettore dei genitori, paragonabile solo a quello delle divinità che furono l’usbergo dei primi uomini.

    Quasi tutto quel che gli era noto di suo padre, lo aveva saputo da Don Aristide Bustamante.

    Ingegnere nato in una piccola città dell’ antico reame di Valenza, levantino parco di parole ma esuberante di volontà, suo padre sembrava contrapporre alla freddezza verbale un’attività tenace ed entusiasta.

    Aveva trascorso gran parte della sua vita viaggiando in Europa e in America, dedicandosi specialmente a importare in patria invenzioni e industrie straniere, e creando una piccola ferrovia. L’ apparizione dell’ automobile gli aveva poi fatto dimenticare le antiche imprese. Ma in qualunque sua attività egli aveva sempre cercato il piacere della creazione e l’orgoglio del trionfo, più che il guadagno materiale. Alla sua morte, l’amico Bustamante, illustre avvocato, era però riuscito a districarne gli affari, vendendo, transigendo, permutando, fino a lasciare garantita all’orfano, una fortuna netta di più di un milione di pesetas.

    L’ingegnere Borgia, durante uno dei suoi soggiorni a Parigi, aveva posto gli occhi su di una certa signorina che aveva conosciuto anni prima a Gibilterra, Estrella Toledo, discendente da un’antica famiglia d’ebrei spagnoli espulsi dal territorio, la quale mostrava di interessarsi alle cose di Spagna. Assorbito dagli affari e dalle invenzioni, quest’uomo che aveva avuto rapporti con donne solo in caso d’estrema necessità e in modo passeggero, si sentì innamorato, a modo suo, della signorina Toledo, fors’anche perchè parlava la sua stessa lingua. Egli non aveva pregiudizi religiosi, e da altra parte nemmeno la giovane, educata all’inglese a Gibilterra e modellata poi sulla vita di Parigi, dava importanza alle diversità di dogma e di razza.

    Borgia sposò Estrella Toledo dopo di essersi consigliato con un suo cugino materno, don Baldassarre Figueras, col quale erasi trastullato da ragazzo e che allora occupava un seggio di canonico nel coro della cattedrale di Valenza.

    Quest’uomo di abitudini metodiche e tranquille, privo di qualsiasi sensualità che non fosse quella della tavola, amava la sua carica perchè gli permetteva d’essere l’archivista della cattedrale e di dedicarsi così allo spoglio ed alla caccia di dati storici nella selva intricata di migliaia di scartafacci che egli era il primo ad aprire. Tutti gli anni gli capitava di scovare documenti importanti, e pubblicava poi le sue scoperte in riviste poco lette o in volumi stampati a ventincinque o cinquanta esemplari al più.

    Figueras, che all’infuori delle ore dedicate ai pasti e al sonno, viveva sprofondato nei secoli XIV e XV, diede il suo consenso a tale matrimonio. Aveva trovato nei suoi studi molte ebree spagnole sposate a personaggi importanti. L’essenziale per lui era che la gente fosse buona e credesse in Dio. Inoltre, stando alle affermazioni di suo cugino, la signorina Toledo si accostava al matrimonio tutt’altro che spoglia di averi; possedeva i suoi beni e aveva per giunta una parentela ricca, il che non era da disprezzare.

    La moglie di Borgia, creatura dolce, che sapeva mantenersi a una certa distanza dal marito, come le sottomesse femmine del tempo delle Dodici Tribù, lasciò la vita poco dopo di aver dato Claudio alla luce. L’ingegnere non seppe che cosa fare del suo unico figlio. Lo lasciò a Valenza, dove la mamma era morta; ma quando il bimbo ebbe sei anni, gli parve opportuno toglierlo da quell’ambiente provinciale, dalla compagnia silenziosa di un sacerdote occupato sempre nell’esame di carte antiche, e dalle sue vecchie governanti, pie donne che non badavano ad altro che a insegnargli orazioni e miracoli di santi. Inoltre a Parigi gli era più facile vederlo, essendo quella capitale il punto d’intersezione dei suoi continui viaggi.

    Claudio, dalla calle de los Caballeros di Valenza, antica strada dai silenziosi caseggiati, si vide quindi trasferito a una casetta di Passy, presso il Bosco di Boulogne, con intorno un piccolo giardino che egli giudicava ammirevole perchè vi si ergeva una statua bianca ricoperta di musco, fra una mezza dozzina d’alberi i cui tronchi erano pure rivestiti di verde metallico stillante umidità.

    In quella casetta dimorava un fratello di sua madre, Salomone Toledo, considerato da tutti i Toledo dei diversi porti del Mediterraneo, come il pazzo della famiglia. Essi, ricchi commercianti, che si dividevano fra loro gli affari con una solidarietà di tribù rapace, mostravano sprezzo e timore verso quel parente soddisfatto di non essere ricco e che usava parlar loro alteramente, nonostante i loro milioni.

    La vita di Claudio Borgia aveva oscillato a guisa di un pendolo fra questi due parenti che erano stati come limiti opposti al campo della sua infanzia e della sua giovinezza: il canonico di Valenza, don Baldassarre, e lo zio Salomone di Parigi.

    Quest’ultimo, quand’egli lo vide per la prima volta, doveva essere ancor giovane. Era alto, un po’ curvo di spalle, con una bella testa d’ebreo che ricordava quella di Cristo delle pitture religiose; il naso estremamente aquilino, il colorito bruno pallido, la barba increspata, a due punte, le ciocche della capigliatura lucide, ondulate, ricadenti ai lati del volto.

    Lo zio Salomone, vestito solitamente di scuro, aveva sempre sulle spalle un lieve strato di forfora, e il bavero, le maniche e le ginocchia luccicavano di un riflesso untuoso. La casa offriva lo stesso aspetto d’abbandono. Salomone amava leggere quanto il canonico di Valenza; le sue stanze erano letteralmente inondate da valanghe di volumi che parevano franare dagli scaffali, su tavole e sedie. Una israelita piuttosto avanzata negli anni, sempre querula nel ricordare il sole di Tangeri contrastante con le fredde giornate di Parigi, gli serviva da governante, ed era quanto mai rispettosa delle sacre cataste di libri, nonchè dei mobili, delle stoffe e degli altri oggetti della casa.

    La vecchia Sefora era rimasta scolpita, come una immagine dai netti contorni, nella memoria di Claudio. Insecchita, essa aveva quella spettrale magrezza che caratterizza le donne ebree quando non sono obese. Portava sempre un fazzoletto multicolore annodato sulla capigliatura dai ricci minuscoli e appiccicati sulle tempia. Avventure e violenze della vita marocchina avevano senza dubbio introdotto nella sua famiglia un po’ di sangue africano. Aveva la pelle color del rame, come una mulatta, e ciò, unitamente all’estrema magrezza, le conferiva un certo aspetto di fattucchiera semi abbrustolita, scampata da un rogo dell’Inquisizione. Claudio ricordava specialmente le palme delle sue mani, di color violaceo, simili alle zampe di certi animali rampicanti.

    Abituata dal suo studioso padrone a lunghissimi silenzi, non tardò a conoscere il dolce piacere della conversazione, passando ore ed ore col piccolo Claudio sulle ginocchia e insegnandogli quanto aveva potuto apprendere sul passato del popolo eletto da Dio e più ancora sul suo avvenire.

    In gioventù ella aveva servito venerabili rabbini del Marocco, grandi talmudisti, conoscitori del libro santo, all’infuori del quale non esiste nulla che sia degno di rispetto. Uno di essi l’aveva raccomandata a Salomone, per il quale ella nutriva ammirazione non minore, sebbene egli non si fosse mai degnato di mostrarle la più piccola favilla della propria sapienza.

    — Tuo zio, goy, è un cabalista. Studia la cabala, che è il nocciolo del Talmud. Conosce il linguaggio degli esseri che non si lasciano vedere.

    Ella lo chiamava sempre goy (cristiano), e nonostante la religione del piccino, si compiaceva nel descrivergli il grande trionfo del popolo d’Israele, così come lo narrava il Talmud.

    Per Claudio questo libro valeva quanto Le mille e una notte. La sua immaginazione di bimbo malinconico gli faceva incessantemente desiderare nuovi racconti meravigliosi che lo allontanassero per alcune ore dalla realtà.

    Era un affamato di fiabe, incapace di saziarsi. In casa del canonico, appena scorgeva la governante seduta a far la calza, appoggiava i gomiti sulle ginocchia di lei, e le chiedeva di raccontargli qualche vita di santo, con molti orribili martiri inflitti dai pagani, molte apparizioni del demonio, molti gemiti di anime in pena. A Parigi non si stancava di pregare Sefora perchè gli narrasse i prodigi e le grandi feste della venuta del Messia, con la vittoria finale del popolo di Dio.

    Grazie alla sua precocità, non gli era passato inosservato il sorriso di compatimento dello zio, allorchè questi sorprendeva la vecchia domestica infervorata nel riferire quei maravigliosi racconti del Talmud. Più tardi, fatto ormai uomo, si era spiegato tale sorriso. Esistevano due Talmud, e il più famoso, quello detto di Babilonia, era una raccolta popolare alla quale avevano collaborato tutte le classi della razza ebrea durante il secondo secolo del cristianesimo.

    Uomini eminenti, come Hillel, Akiba e altri celebri rabbini, avevano depositato in questo libro pensieri di sublime dolcezza evangelica. Il popolo aveva aggiunto stravaganze e superstizioni, fra aneliti di gloria e di trionfo.

    Sempre vessati e umiliati, quegli eterni perseguitati avevano sognato le soddisfazioni della vendetta e del potere, affidandole alle pagine del Talmud fra le esagerazioni d’una immaginazione orientale.

    Claudio si rammaricava che le storie di Sefora non fossero ora per lui che i semplici racconti di una vecchia. Ah! Se qualcuno avesse potuto ripetergliele!.… Desiderava vedersi sempre bambino e dimenticare le maravigliose storie del giorno innanzi per riudirle con rafforzata verginità.

    Sefora gli descriveva Geova con ai lati i due animali favoriti: un corvo ed un leone. Le dimensioni del corvo erano facili da immaginare. Un rospo, grande quanto un paese di sessanta case, veniva inghiottito con la massima facilità da un serpente. Poi il corvo, con una sola beccata, se li divorava tutti e due.

    Quando il leone non si trovava a fianco del Signore, viveva nella selva di Elai, e non vi era nulla, nemmeno la voce dello stesso Geova, che si potesse paragonare a un suo ruggito. Un imperatore romano, desideroso di conoscere un animale così straordinario, ordinava ai rabbini, sotto pena di morte, di condurlo al suo cospetto. Il rabbino Giosuè andava a cercarlo nella selva per condurlo a Roma. Quando furono a quattrocento miglia, il leone lanciò un ruggito, uno solo, ma di tale potenza che tutte le donne incinte abortirono e le mura di Roma crollarono al suolo. A trecento miglia tornò a ruggire, e commosse l’aria in modo tale che a tutti i romani caddero ì denti e l’imperatore ruzzolò dal trono, raccomandandosi con alte grida che riconducessero la bestia nel suo covo.

    Il più gran piacere di Geova era studiare il Talmud in compagnia degli angeli, e durante i suoi riposi chiamava il Leviathan, re dei mostri marini, per intrattenersi a giocherellare con lui. Solo la sapienza di famosi rabbini era giunta a calcolare le dimensioni di quell’animale. Il Signore, temendo che si riproducesse, lo aveva castrato, uccidendone la femmina e serbandola in conserva per il banchetto del popolo eletto.

    Un giorno il rabbino Sifra, viaggiando per mare, vide un pesce enorme, la testa del quale, ornata di corna, recava in fronte questa iscrizione: «Sono la creatura più piccola dell’Oceano». Nonostante simile affermazione, il rabbino si rese conto che il pesce misurava circa trecento leghe di lunghezza. In quella apparve il Leviathan, che in men che non si dica inghiottì l’immenso animale, come se fosse un vermiciattolo.

    Il suo sguardo è d’uno splendore irresistibile; ognuna delle sue pupille contiene trecento tonnellate d’olio, e di lui si è detto che «i suoi occhi sono le finestre del mattino». Molte volte i naviganti, scorgendo il suo dorso ricoperto di rena, sulla quale crescono canneti ed alberi, lo presero per un’isola e vi saltarono sopra per cuocervi il loro pasto; ma la bestia, sentendo il calore del fornello, si agitava, mandando all’aria uomini, legna a paioli.

    — Quando verrà il Messia, goy — continuava la vecchia — gli ebrei domineranno tutti i popoli della terra. La loro vittoria apparirà così enorme, che occorreranno sette anni per bruciare le armi dei vinti. Tutte le ricchezze del mondo finiranno nelle mani dei nostri, e il tesoro del Re-Messia sarà così ingente, che ci vorranno trecento bestie da soma soltanto per trasportare le chiavi dei suoi milioni di forzieri, pieni zeppi di denaro.

    Il più umile degli israeliti riceverà in dono duemila e ottocento schiavi; ma finalmente tutti i popoli, dopo la loro immensa disfatta, apriranno gli occhi, chiedendo la circoncisione e la tunica dei proseliti, e il mondo intero resterà popolato da ebrei. Allora, goy, la terra produrrà, senza bisogno di lavoro, torte col miele, abiti di lana e un frumento così bello che ognuno dei suoi chicchi sarà grosso

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