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I ventiquattro eredi di Radamés Rivas Chang
I ventiquattro eredi di Radamés Rivas Chang
I ventiquattro eredi di Radamés Rivas Chang
E-book200 pagine2 ore

I ventiquattro eredi di Radamés Rivas Chang

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Info su questo ebook

Un percorso nella memoria di Cuba, prima e dopo la rivoluzione, attraverso le avventure e disavventure del mulatto Radamés, nel ricordo del suo amico fraterno Juanito il Santero.

Episodi inediti o poco conosciuti dell’isola, luoghi, e personaggi della storia e della cultura cubana, come il Che e Camilo Cienfuegos e gli scrittori José Lezama Lima e Gastón Baquero, s’incrociano con i riti della Santeria e della magia cinese, la vita dei quartieri poveri dell’Avana e le idiosincrasie dei cubani.

Un racconto a tratti surreale, pieno di colore e umorismo, lontano dalla Cuba da cartolina per turisti, con un finale dolce-amaro.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2014
ISBN9786050324204
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    Anteprima del libro

    I ventiquattro eredi di Radamés Rivas Chang - Gaetano Longo

    Gaetano Longo

    I VENTIQUATTRO EREDI DI RADAMÉS RIVAS CHANG

    UUID: 673b6dc2-4642-11e4-bb68-9b5d8de4baaf

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Ringraziamenti

    A Emiliano Berto, paziente Amico, senza il quale sarei annegato nel mare dell'informatica.

    A Rada, sempre.

    Io sono uno a cui piace godere e far godere.

    Io sono un sabroso.

    Radamés Rivas Chang

    L'Avana è una magica palma profumata

    con le radici bagnate nell'antico mare dai sette colori

    dove tutto si placa con uno sguardo

    anche la nostalgia.

    G.L.

    Presentazione di Paolo Collo

    Il dottor Jekyll e il signor Hyde

    E’ forse con il titolo soprastante che si potrebbe definire l’attività letteraria di Gaetano Longo.

    Sì, perché, rileggendo i suoi lavori, ci troviamo di fronte a due persone, a due scrittori ben distinti.

    Da una parte abbiamo Longo-Jekyll: illustre console onorario di Colombia, illuminato direttore artistico di un premio internazionale di poesia, giornalista (o meglio, corresponsal de guerra), consulente editoriale, fine traduttore di autori come Miguel Barnet, Gastón Baquero, Justo Jorge Padrón, Álvaro Mutis, Rodolfo Häsler, e, infine - e soprattutto - poeta. Poeta civile, ma anche lirico senza alcun pudore, che canta la vita senza sdolcinatezze, ma con il vigore di una sostanza resinosa e con una tecnica di seduzione che ci avvolge, come ha scritto il cubano Miguel Barnet. Poeta singolare, profondo, delicato, l’ha definito il rumeno Ion Deaconescu. O, meglio ancora, poeta che ci sorprende in ogni verso, che scrive le sue poesie come se ci sussurrasse all’orecchio, in un angolo di un bar, come ha sottolineato il brasiliano José Eduardo Degrazia.

    Ed ecco due esempi che ripercorrono dieci anni della sua prolifica attività:

    Poi le cose nascono

    crescono e si consumano

    e la loro polvere resta fissa nell’aria

    perché l’oblio non si mangi

    tutta la nostra porzione di ricordi e sogni.

    Il vento degli anni

    si trasforma in un respiro silenzioso.

    Quando è tempo di morire

    non c’è spazio per gli addii.

    Tutto è un semplice arrivederci

    più o meno lungo

    più o meno improvviso

    che sa di muffa e cartone.

    (Curriculum , 2001)

    Sono un gatto randagio

    con una zampa rotta

    che si trascina nella notte

    in cerca di un caldo rifugio.

    Mi raggomitolo in un angolo buio

    perché non voglio che i topi

    mi vedano in queste condizioni.

    Ho svenduto il mio peli lucido

    per un ignoto destino

    e a malapena

    potrei riconoscere i tetti

    dai quali guardavo il cielo.

    Mi sono giocato tutto

    ma non avrei potuto fare altrimenti.

    Tutto quello che voglio

    è di poter vedere la mia ultima luna

    che ancora una volta

    illumina la strada.

    (Estetica della sconfitta, 2011)

    E poi, all’improvviso, compare Longo-Hyde: è quello dell’azzurro del Caribe, dell’aria zuppa di salsedine, dei ventilatori a pale sul soffitto delle stanze, del caldo che imperla la pelle, della pioggia che viene giù a secchi, della musica latinoamericana, del ron, delle bellissime mulatte, dei porti, degli orichas, dei babalawos, delle santeras. Ecco allora fare la sua comparsa il romanziere di questo I ventiquattro eredi di Radamés Rivas Chang, e del successivo Hotel Tropical.

    Un Longo-Hyde che si fa erede del Jorge Amado di La doppia morte di Quincas l’Acquaiolo e dell’Alejo Carpentier di Il regno di questo mondo. Erede di quel realismo magico (termine coniato però nel 1925 dal critico tedesco Franz Roth – Magischer Realismus – per indicare un gruppo di pittori) che ha permeato di sé buona parte della letteratura sudamericana.

    Disse García Márquez: Il mio problema maggiore era distruggere la linea di demarcazione che separa ciò che sembra reale da ciò che appare fantastico, perché nel mondo che cercavo di evocare tale barriera non esisteva. Ma avevo bisogno di un tono convincente, che rendesse verosimili le cose che meno lo parevano. […] bisognava raccontare una storia, semplicemente, come le raccontavano i nonni.

    Violare forme, stili, sequenze spazio-temporali, far convivere vivi e morti, dura realtà e fantastico, inventare o reinventare città come Macondo (García Márquez), Comala (Rulfo) o le Buenos Aires – diversissime tra loro - di Cortázar, di Borges, di Sabato, di Saér…

    Non è facile scegliere tra Jekyll e Hyde, ve lo posso garantire.

    Buona lettura.

    Paolo Collo 

    1. Nel attimo in cui vide arrivare la Morte …

    Nell'attimo in cui vide arrivare la Morte per abbracciarlo sulla soglia di casa, il vecchio Radamés si rese conto che in quel momento bisogna affrontare se stessi completamente soli, coperti solamente dalla propria vecchiaia.

    Colpito da un tremito di paura che gli provocò un brivido che sembrava lacerargli la pelle secca, sentì qualcosa sui capelli spettinati, come se qualcuno lo accarezzasse e, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto giurare di averlo visto allontanarsi lentamente.

    Né quel giorno, né in quelli seguenti si sentirono riecheggiare i colpi a salve dei cannoni del castello del Morro, né venne mai dichiarato il lutto nazionale e nessuna bandiera venne mai posta a mezz'asta.

    La vita della città continuò il suo corso normale senza sapere ancora che un certo Radamés aveva abbandonato, seppur controvoglia, quella valle di lacrime ma piena anche di grande godimento, come era solito dire socchiudendo furbescamente gli occhi.

    Solamente nel bar che si trova tra Infanta e San Lázaro, qualcuno capì, da quella strana assenza, che qualcosa doveva essere accaduto.

    Tre vecchi stavano seduti sugli sgabelli del bancone, un po' silenziosi, bevendo birra e assaporando una doppia porzione di ostriche e salsa di pomodoro. Erano lì già da un po', come ogni tardo pomeriggio di ogni giorno che Dio manda su questa terra, in quello stesso posto che negli anni Cinquanta aveva avuto tra i suoi molti ospiti fissi un giovane studente di giurisprudenza della vicina università, che col tempo era diventato il capo di un gruppo di giovani rivoluzionari che avevano fatto fuggire a gambe levate il mulatto Batista.

    -Olguita, hai un po' di salsa piccante per le ostriche? - chiese Héctor.

    -Qui di piccante ci sono solo io! - rispose Olga senza degnarlo di uno sguardo, continuando a lavare un bicchiere.

    -Forse una volta, ragazza. Tu ormai sei come il latte vecchio, andata a male da un pezzo. - le fece eco il negro Juanito accendendo un sigaro già mezzo fumato.

    -Ha parlato il super macho. - rispose la vecchia Olga ridacchiando. - Qui nei piani bassi tutto funziona ancora alla perfezione. Cosa che non credo vi riguardi ancora.

    Urbano Fong, detto il Cinese, alzò lo sguardo verso il marito della donna, che in quel momento era occupato a fare i conti della giornata in un angolo del bancone, e disse:

    -Complimenti. Dove hai trovato questa principessa?

    -Lasciate perdere Domingo voialtri. Principessa o no, lui almeno sa ancora come si tratta una donna, vero papi?

    -Più o meno. - rispose lui infilandosi la matita sopra l'orecchio.

    -Comunque ecco la salsa piccante e anche il sale. Se continuate così uno di questi giorni arriverete qui con il culo in fiamme.

    -Grazie, compañera, molto gentile. - fece Juanito.

    -A proposito di gente gentile, - fece la donna asciugandosi le mani con un pezzo di straccio che doveva risalire ai primi anni della Rivoluzione - che fine ha fatto il mulatto? Sono due giorni che non si fa vedere.

    -Avrà avuto da fare. - sospirò Domingo.

    -Tu taci e pensa a fare i conti. - rispose la donna, fulminandolo con lo sguardo.

    Nessuno dei tre amici la degnò di una parola, tutti occupati a bere la loro birra ghiacciata o a gustare le ostriche.

    Il Cinese fu il primo ad alzarsi. Tirò fuori alcuni pesos da una tasca dei pantaloni e li mise sul bancone.

    -Caballeros, ci vediamo alla prossima.

    Tutti mugugnarono una specie di saluto e ripiombarono nel silenzio di quel tardo pomeriggio ancora pieno di sole.

    2. Urbano Fong, detto il Cinese …

    Urbano Fong, detto il Cinese, veniva chiamato così proprio perché era un cinese al cento per cento. I suoi genitori erano puri cinesi così come i suoi nonni e i suoi bisnonni tra i primi a essere arrivati a Cuba dalle lontane terre del Celeste Impero. Il bisnonno di Urbano e sua moglie erano arrivati a Cuba il 3 giugno 1847, dopo essere partiti dal porto di Amoy. Si erano imbarcati sulla nave Oquendo insieme a più di trecento connazionali, tutti ansiosi di trovare una vita migliore. Alla fine della traversata, a causa di un’epidemia di colera e degli stenti dovuti alla durezza del viaggio, erano sbarcati solo in duecentosette e avevano dato vita alla prima comunità cinese di Cuba.

    Lui lavorava come cuoco in un ristorante di calle Dragones, in pieno quartiere cinese, ma ogni tardo pomeriggio, prima di iniziare il turno della sera, passava a farsi una birra e una porzione di ostriche con i suoi vecchi amici nel bar tra Infanta e San Lázaro.

    La sua unica passione, a parte le donne, come si conviene a qualsiasi cubano di origini cinesi, arabe o perfino eschimesi che sia, era quella del domino e di questo gioco ne era diventato un maestro riconosciuto tra i suoi connazionali. Tutti i sabati e le domeniche mattina si recava presso la società cinese Lung Con Cun Sol, al numero 364 di calle Dragones, e lì si riuniva per giocare a domino con gli altri membri di quella che era una delle più importanti società giunte nell'isola con i primi immigrati dagli occhi a mandorla. Solo gli amici più intimi sapevano che era un gran conoscitore della temibile magia cinese e devoto del santo Cuang Con, divinità irascibile e signore della spada e del colore rosso, trasformatosi poi a Cuba in san Fan Con e venerato dalla comunità orientale al secondo piano della stessa società ubicata in calle Dragones.

    Dopo cinque minuti anche gli altri due clienti si alzarono, misero una manciata di pesos sul bancone e, facendo ciao con la mano, uscirono per strada.

    Héctor si riabbottonò la camicia della divisa e si mise il berretto. Era un jabao non molto alto, grassottello e con i capelli rossicci. Era poliziotto di quartiere a Cayo Hueso e San Leopoldo e gli mancavano ormai solo due mesi per la sospirata pensione. Era benvoluto e rispettato da tutti gli abitanti della zona. Nella sua lunga carriera aveva sempre cercato di non mettere nei guai nessuno. Vivi e lascia vivere era stata la sua filosofia.

    Solo una volta, alcuni anni prima, aveva rischiato grosso. Durante una rissa di strada, in piena calle San Lázaro, era intervenuto per calmare gli animi. Era una semplice rissa tra ubriachi ma, come sempre accade, la strada si era riempita di curiosi. Il primo dei contendenti, alla vista del poliziotto, riconoscendolo, si era immediatamente bloccato. L'altro, un mulatto alto e con un braccio completamente tatuato, aveva estratto un coltello colpendolo di striscio a una mano. Non era uno del quartiere. Gli erano saltati addosso tre negri che lo avevano disarmato e avevano iniziato a prenderlo a legnate e solo l'intervento di una pattuglia era riuscita a riportare l'ordine con la minaccia di portare tutti alla più vicina stazione di polizia. Héctor venne fatto entrare in una casa e una vecchia gli disinfettò il graffio con un po' di alcol e gli offrì un bicchiere di rum.

    La gente di quel quartiere popolare, la maggior parte della quale era costretta a fare affari più o meno illegali per sopravvivere, non amava molto i poliziotti. E poi non era un segreto per nessuno che ormai fossero quasi tutti di Santiago. Per gli abitanti del posto erano solo gentaglia che non sapeva quasi né leggere né scrivere e che veniva mandata nella capitale per mantenere l'ordine in cambio di due pasti sicuri al giorno e un letto. Ma Héctor era un'altra cosa. Dopo tanti anni faceva parte del quartiere, era quasi uno di loro. Faceva il suo dovere ma senza l'arroganza di quei giovinastri arrivati da Oriente. Erano colleghi, certo, ma a dir la verità, neanche a lui piacevano molto.

    3. Juanito salutò Héctor …

    Juanito salutò Héctor, tolse il catenaccio dalla ruota della vecchia bicicletta cinese e ci montò sopra. Guardò l'orologio e, iniziando a pedalare lentamente, si diresse verso la loggia per la riunione settimanale.

    Il nome completo di Juanito era Juan Rafael Domínguez Travado. Era un moro molto molto scuro, alto e magro, con i lineamenti fini simili a quelli di un bianco. Ex postino ormai in pensione, santero e massone, non avrebbe immaginato che da quel momento si sarebbe trasformato nel biografo ufficiale del suo amico Radamés Rivas Chang.

    Juanito era nato a Casilda, un paesino poco lontano da Trinidad. Non aveva mai conosciuto il padre e aveva perso la madre quando aveva appena quattro anni. Aveva così passato la sua infanzia in un piccolo orfanotrofio della cittadina coloniale tenuto da alcune suore spagnole, in compagnia di altri tre bambini, dal quale era scappato all'età di tredici anni. Aveva girovagato per la zona lavorando sempre come tagliatore di canna da zucchero, dormendo nei campi e vivendo del poco che riusciva a racimolare. Erano stati anni particolarmente duri anche perché bisognava fare i conti

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