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Una figlia di Spagna: Rocambole VI
Una figlia di Spagna: Rocambole VI
Una figlia di Spagna: Rocambole VI
E-book323 pagine4 ore

Una figlia di Spagna: Rocambole VI

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Info su questo ebook

Sono passati quattro anni da quando Rocambole è stato graziato da Armand de Kergaz e sir Williams è stato mutilato ed esiliato da Baccarat. Mentre il baronetto è dato per morto, Rocambole torna a Parigi intenzionato a proseguire l'attività criminale del suo mentore.
Vestiti i panni del marchese de Chamery – da lui abbandonato su un'isola deserta dopo un naufragio – Rocambole tenta di sedurre la bella Conception, figlia del duca de Sallandrera.
Ma Conception è vittima di un ricatto, e per venirne a capo serve il genio criminale del redivivo sir Williams…
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2019
ISBN9788899403836
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    Anteprima del libro

    Una figlia di Spagna - Pierre Alexis Ponson Du Terrail

    45

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1

    I drammi di Parigi. Rocambole vol. 11

    Il Club dei Fanti di Cuori, parte prima Rocambole vol. 111

    Il Club dei Fanti di Cuori, parte seconda Rocambole vol. 1v

    La vendetta di Baccarat. Rocambole vol. v

    Pierre Alexis Ponson du Terrail, Una figlia di Spagna

    (Rocambole vol. VI) 1a edizione Landscape Books, novembre 2019

    Collana Aurora n° 45

    © Landscape Books 2019

    Titolo originale: Les Exploits de Rocambole - Une fille d'Espagne pt. 1

    Nuova edizione italiana a cura di Guido Del Duca

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-83-6

    Realizzazione a cura di WAY TO ePUB

    Ponson du Terrail

    Una figlia di Spagna

    Rocambole VI

    Riassunto degli episodi precedenti

    Visti svanire per colpa di Baccarat i piani di vendetta messi in atto con il Club dei Fanti di Cuori – l'organizzazione segreta di cui erano a capo – Rocambole e il suo mentore Sir Williams, alias Andrea de Kergaz, non desistono dai loro sordidi progetti.

    Tra questi, arrivare a convincere il marchese Van Hop dell'infedeltà della moglie e portarlo così a ucciderla: in questo modo il marchese finirebbe tra le braccia della sua lontana cugina Dai-Natha, che ha promesso una lauta ricompensa a Sir Williams.

    È di nuovo Baccarat a ostacolare i piani del baronetto e di Rocambole: e se il conte Armand de Kergaz non intenda credere che a capo della congiura ci sia il suo fratellastro Andrea (che crede pentito e a cui affida la cura della casa e della moglie), Baccarat trova un nuovo alleato nel conte Artoff, giovane nobile russo follemente innamorato di lei.

    Dopo che anche l'affare Van Hop va a monte per l'intervento di Baccarat, Andrea decide di vendicarsi: farà rapire la donna per caricarla poi su una nave negriera alla volta dell'Australia, e farà uccidere in duello Armand da Rocambole, sotto il travestimento del marchese don Inigo de los Montes. Una volta morto Armand, completerà la sua vendetta sposando la vedova Jeanne e tornando così in possesso del patrimonio di famiglia che anni prima il ritorno di Armand gli aveva fatto perdere.

    Ma una serie di eventi scongiurano i piani di Andrea e Rocambole: il conte Artoff è un vecchio amico del capitano della nave negriera, e lo convince facilmente a parlare e passare dalla sua parte. Armand, dal canto suo, vince il duello con Rocambole, che rimane gravemente ferito.

    La vendetta di Baccarat si abbatte terribile su Sir Williams: il baronetto viene catturato, sfregiato e mutilato, dopodiché viene imbarcato sulla nave negriera alla volta dell'Australia.

    Mesi dopo Rocambole, convalescente, viene perdonato da Armand che gli permette di rifarsi una vita. Ma prima di partire, il giovane riesce a rientrare in possesso del diario in cui Sir Williams prendeva appunti per i prossimi colpi…

    I.

    Il mercantile francese La Mouette, in rotta da Liverpool a Le Havre, filava alla velocità di due nodi.

    «Bel tempo, brezza piacevole, vento in poppa!», mormorava il capitano soddisfatto mentre passeggiava sul ponte del brigantino. «Se dura ancora per dodici ore, entreremo domani mattina nel porto di Le Havre che La Mouette non rivede da quattro anni».

    «Sicché, capitano, non siete più tornato in Francia da quattro anni?»

    La domanda era stata fatta da un viaggiatore che, passeggiando sul ponte, aveva udito il soliloquio del capitano.

    «No, sir», rispose questi.

    Anche se la domanda gli era stata rivolta in francese, era scusabile che rispondesse in inglese, dato l’aspetto del suo interlocutore.

    Costui era un giovanotto di media statura, fra i ventisei e i ventotto anni, biondo, dai lineamenti piacevoli e signorili ma atteggiati a quella inconfondibile flemma che caratterizza i figli dell’orgogliosa Albione. Il suo abbigliamento era esattamente quello di un inglese in viaggio: pantaloni a grandi scacchi grigi e neri, aderenti, sciarpa scozzese su un cappotto corto di colore rossastro dalle tasche capaci, berretto di forma conica con lunghi nastri, borsa da viaggio nella quale si scorgevano un dizionario inglese-francese, un cannocchiale, un portasigari e una fiaschetta di rum.

    «Oh!», fece costui con un lieve accento inglese, ma in buon francese, «potete fare a meno di rivolgermi la parola in inglese. Trascorro a Parigi tutti gli inverni».

    Il capitano assentì col capo.

    «Allora», continuò il giovane inglese, «senza dubbio venite dall’Australia o dall’America del Sud».

    «Vengo dalla Cina, sir».

    «Siete nato a Le Havre?»

    «A Ingouville».

    «Pensate dunque che domani entreremo in porto?»

    «A meno che non capiti qualche disgrazia… o una tempesta».

    E il capitano scrutò tutto in giro l’orizzonte con il cannocchiale.

    «Il cielo è azzurro come un lago d’indaco», disse; «vado a passare le consegne al mio secondo e poi a riposare. Ho fatto il quarto di notte, e casco dal sonno. Buona sera, sir Arthur».

    «Buona sera, capitano».

    Con questo saluto, il comandante della Mouette e il giovane si separarono.

    Il primo passò le consegne al suo secondo, l’altro rimase sul ponte, a fantasticare con i gomiti appoggiati al parapetto.

    «In fede mia», mormorò volgendo uno sguardo ardente verso l’orizzonte a sud, rischiarato dalla luna, «non sono né un sentimentale né un poeta, ho sempre considerato con disprezzo coloro che cantano le pene dell’esilio, il richiamo della patria lontana e agognata, e tuttavia mi batte il cuore al solo pensiero che domani sarò a Le Havre, e che Le Havre dista da Parigi appena cinque ore… Ho passato quattro anni immerso nella nebbia inglese, che a lungo andare ti uccide soffocandoti nella sua morsa umida; e durante questi quattro anni, a ogni ora, a ogni minuto, mi bastava chiudere gli occhi per rivedere Parigi».

    Sir Arthur sospirò.

    «Sì, ho trascorso quattro anni a Londra, coltivando la virtù come un borghese del Marais coltiva un vaso di reseda. Ancora un anno, e sir Arthur, gentiluomo anglo-indiano, avrebbe sposato miss Anne Perkins o la padrona del Trois Etoiles, e sarebbe diventato vice presidente di una delle tante associazioni contro l’alcolismo. Fortunatamente sir Arthur si è ricordato di essere stato un tempo visconte de Cambolh, poi marchese don Inigo de los Montes, di aver diretto il gioco del club dei Fanti di Cuori, e che il suo disgraziato maestro, sir Williams, gli aveva predetto un grande avvenire…»

    E Rocambole, giacché si trattava del nostro vecchio amico del club dei Fanti di Cuori, lasciò il ponte e scese in cabina.

    «Ma riflettiamo!», disse a se stesso chiudendosi nella cabina, «non basta dire: io non sono di quelli che possono vivere con diecimila franchi di rendita come un virtuoso borghese; ed è proprio a questo punto che sento maggiormente la perdita del mio insigne maestro, sir Williams…».

    Rocambole ritenne doveroso emettere un lieve sospiro a mo’ d’orazione funebre in memoria di sir Williams, che sicuramente già da un pezzo era stato infilzato allo spiedo e divorato dai selvaggi delle terre australi; poi si sedette davanti all’unico tavolo che ci fosse nella cabina e che era cosparso di carte, fra le quali un taccuino coperto in ogni pagina da una fitta scrittura.

    Afferrò il taccuino con l’aria di voler dedicare tutta la sua attenzione e tutta la sua intelligenza a decifrare e a comprendere il senso di quella scrittura che era una misteriosa accozzaglia di cifre e di lettere. Era il taccuino che Rocambole aveva trovato sotto la tela di un vecchio ritratto di famiglia, nel castello de Kergaz, poco prima di partire.

    «Al diavolo sir Williams e i suoi geroglifici», mormorò dopo alcuni minuti di concentrazione; «sono quattro anni che ne cerco invano la chiave, e non ho fatto un solo passo avanti rispetto al primo giorno. Purtroppo, devo concludere che sir Williams aveva due scritture: di una mi aveva svelato da tempo i misteri, ma il segreto dell’altra lo aveva tenuto esclusivamente per sé. Questo taccuino è pieno di dati preziosi, di indicazioni eccellenti, contiene lo spunto per una ventina di affari. Ma disgraziatamente non ho la chiave che serve per far scattare la molla segreta. Ah! sir Williams era un uomo prudente; aveva una scrittura per i fatti, un’altra per i nomi e le date. Perciò, ecco cosa leggo:

    A Parigi c’è un palazzo, in rue…

    «Il nome della via», fece Rocambole interrompendo la lettura, «è indicato nel secondo linguaggio geroglifico, quello che non capisco…».

    E continuò:

    In questo palazzo abitano il marchese e la marchesa de…, un altro nome illeggibile! "e la loro figlia. Il marchese ha sessant’anni, la marchesa cinquanta; la figlia ne ha diciassette. La famiglia ha una rendita di centomila lire.

    Il marchese ha un figlio che deve avere all’incirca ventiquattro anni. Questo figlio si è imbarcato come mozzo a dieci anni, su un vascello inglese della Compagnia delle Indie. Non se ne è più saputo nulla. È morto o vivo? La marchesa lo ignora. Solo il marito conosce il segreto riguardante la fine del povero ragazzo, e lo porterà nella tomba insieme, forse, con il segreto dello strano comportamento di questa famiglia ricca e titolata che destina il suo unico erede alla rude e miserabile vita del mozzo. I de… vivono ritirati nel loro palazzo, non frequentano nessuno: il marchese cupo e taciturno, sua moglie agitata dalla debole ma ardente speranza di rivedere un giorno il figlio.

    Se questo figlio tornasse, alla morte del padre avrebbe settantacinquemila franchi di rendita, in quanto nella famiglia de… i maschi ereditano sempre un quarto in più. Si potrebbe dunque…".

    Qui ricominciava la scrittura geroglifica e il testo diventava inintelligibile.

    Rocambole, scoraggiato, mise da parte il taccuino.

    «Maledetto sir Williams!», esclamò. «Così, so che c’è una marchesa la quale aspetta un figlio che non torna. Ha una figlia e centomila franchi di rendita. Solo che ignoro il nome di questa marchesa, quello della strada in cui abita, e quanto al vantaggio che si potrebbe trarre da tutto ciò… Perbacco! dovrei farmi passare per il figlio della marchesa… Se sapessi come si chiama questa signora, dove abita, e qual è il nome del figlio, morto senza dubbio… Sfortunatamente, sir Williams ha portato con sé in Australia il suo segreto».

    Immerso nei suoi pensieri, Rocambole si avvicinò all’oblò.

    «Povero sir Williams», disse fra sé, «era un gran genio!… Ma che disdetta! Ah, se avessi il cervello di sir Williams!»

    Rocambole fu bruscamente strappato alle sue fantasticherie da un rumore insolito:

    «Tutti sul ponte!», gridava la voce dura e imperiosa del capitano.

    «Oh, oh!», pensò Rocambole, «che diamine succede?»

    Rocambole uscì dalla cabina e salì sul ponte. Il capitano era già al suo posto di comando e impartiva ordini, i marinai imbrogliavano le vele, i passeggeri erano costernati.

    Rocambole chiese il perché di tutta quell’agitazione insolita alla prima persona che incontrò, un giovane biondo, alto e snello, intabarrato in un cappotto da marinaio ma con un berretto di tela cerata filettato d’argento che faceva supporre si trattasse di un ufficiale.

    «Chiedo scusa, signore», gli disse Rocambole, «potreste dirmi che significa tutto ciò?»

    Rocambole gli aveva rivolto la domanda in perfetto inglese.

    «Signore», rispose il giovane nella stessa lingua, «fra poco avremo una tempesta».

    «Una tempesta? Ma via! In cielo non c’è neanche una nuvola».

    «Per voi, signore; ma per noi uomini di mare… Ecco, prendete il mio cannocchiale e guardate. Vedete laggiù, a occidente, quel puntino grigiastro che sembra una vela? Ebbene, fra un’ora quella nuvoletta avrà invaso tutto il cielo, trasformando questa nottata limpida e chiara in una notte oscura; poi comincerà a vomitare tuoni e fulmini, e questo mare liscio, calmo come un lago, diventerà improvvisamente furioso».

    Il giovane si esprimeva con la precisione e il sangue freddo di un marinaio consumato.

    «Ma come può quella povera nuvoletta farle presagire tutte queste cose?», chiese Rocambole.

    «Signore», disse il giovane sorridendo, «sono un marinaio, e i marinai studiano continuamente il cielo, e raramente sbagliano».

    «Diavolo!», fece Rocambole che, da uomo coraggioso, non si preoccupava né tanto né poco di andare a riposare in fondo al mare.

    «Dio mio!», continuò il marinaio abbozzando un sorriso, «può darsi che io esageri… d’altra parte il capitano di questo brigantino, dove io sono un semplice passeggero, sa il suo mestiere, l’equipaggio è buono».

    «Ah!», disse Rocambole, «voi qui siete solo un passeggero?»

    «Sì, sono ufficiale subalterno della Compagnia delle Indie».

    Questa risposta fece trasalire Rocambole, che ricordò gli appunti del taccuino di sir Williams.

    «E andate a Le Havre?»

    «Signore», rispose il giovane, «vado a Parigi, dove devo avere ancora una madre e una sorella che non vedo da diciotto anni… dal giorno in cui», concluse con improvvisa emozione, «mi sono imbarcato come mozzo, all’età di dieci anni, su un mercantile della Compagnia delle Indie».

    Queste ultime parole fecero dimenticare a Rocambole l’imminente tempesta. Gli parve che l’avvenire, fino a quel momento avvolto nelle tenebre, si rischiarasse improvvisamente e che il segreto di tale avvenire sarebbe stato svelato dalle parole di quello sconosciuto che il caso aveva messo sulla sua strada.

    «Ah!» gli disse, «allora voi siete francese, signore?»

    «Sì», fece il giovane con un cenno del capo.

    E sorrise.

    «Comprendo il vostro stupore», disse, «nell’apprendere che sono francese mentre dipendo dalla Compagnia delle Indie; ma si tratta di un segreto di famiglia che non è esclusivamente mio».

    Il giovane marinaio lo salutò cortesemente e riprese il cannocchiale dalle mani di Rocambole.

    «Scusate, signore», gli disse, «devo lasciarvi un momento per andare a prendere in cabina delle carte che mi preme salvare dal naufragio, se faremo naufragio».

    Rocambole gli restituì il saluto e lasciò che si allontanasse. Ma da quel momento in poi il nostro eroe ebbe un solo scopo: attaccarsi al marinaio, conquistare la sua fiducia, strappargli il segreto, e forse…

    L’ultimo scopo di Rocambole era ancora così vago che egli non osava nemmeno formularlo.

    Rocambole percorse il ponte avanti e indietro per un’ora, indifferente a tutto ciò che gli accadeva intorno.

    «Francese…», mormorava, «al servizio della Compagnia delle Indie… ha lasciato Parigi da diciotto anni… imbarcato come mozzo!… Evidentemente, è il figlio della marchesa di cui parlava sir Williams quattro anni fa nei suoi appunti…». E Rocambole, immerso nei suoi pensieri tenebrosi, non si accorse che il puntino grigiastro all’orizzonte si era rapidamente ingigantito.

    Sulle onde si era alzato il vento che, debole dapprima e poi furioso, fischiava tra gli alberi del brigantino facendoli scricchiolare.

    «Ci siamo», esclamò in quel momento un marinaio, «corpo del diavolo!»

    Questa esclamazione strappò Rocambole alle sue meditazioni. Si accorse allora che la tempesta stava arrivando.

    «Diavolo!» pensò Rocambole, «sembra proprio che non arriveremo a Le Havre domani mattina».

    «Pregate Iddio, signore», disse una voce come rispondendo ai suoi pensieri: «se domani saremo ancora al mondo, potremo essere soddisfatti».

    Rocambole si voltò. Il giovane marinaio della Compagnia delle Indie era alle sue spalle.

    Si era tolto il cappotto da marinaio e indossava solo una blusa di lana, un paio di pantaloni di tela e il berretto da ufficiale. Ma appeso al collo aveva un astuccio di latta e alla vita portava una cintura, dalla quale spuntavano i calci lucenti di due pistole e il manico cesellato di un pugnale indiano.

    «Ecco la mia tenuta da mare», disse a Rocambole. «Se dovrò gettarmi in acqua, il bagaglio non mi impaccerà troppo».

    «Ah!», rispose Rocambole, «credo che abbiate preso delle precauzioni inutili».

    «Ma non vedete con quale rapidità e con quanto impeto, malgrado le vele imbrigliate, stiamo filando da nord a sud? Sentite? Il capitano, che è un vecchio lupo di mare, sta ordinando le manovre che si compiono in caso di pericolo». Quasi nello stesso istante, il mozzo di vedetta sulla vela di gabbia urlò terrorizzato: «Terra! terra!»

    Rocambole non esitò più.

    II.

    Quando Rocambole si rese conto che il brigantino sarebbe stato inevitabilmente sbattuto contro la costa, lasciò il suo giovane compagno e scese in cabina, dove arraffò tutti gli oggetti di un certo valore che possedeva. Innanzitutto i preziosi appunti di sir Williams; poi il portafoglio che conteneva i titoli di rendita; infine la borsa, che attaccò alla cintola. Poi si tolse una parte di indumenti e risalì sul ponte. Non voleva perdere di vista il giovane marinaio della Compagnia delle Indie.

    Sul ponte, il disordine, il tumulto, il terrore erano al culmine.

    «È finita», gli disse il marinaio.

    «Che volete dire?»

    «Che entro un’ora, o anche meno, la nave sarà affondata».

    E tese la mano verso sud, dove si vedeva un angolo di cielo meno nero.

    «Guardate», disse, «la terra è là… forse a due o tre leghe. Ma ormai nessuna manovra può fermare lo slancio della nave, e la costa verso la quale stiamo correndo è disseminata di scogli a fior d’acqua, sui quali andremo a sfracellarci».

    Il giovane marinaio non ebbe il tempo di finire… Sì udì un cozzo spaventoso, seguito da urla di disperazione e di terrore. La nave aveva toccato.

    «In acqua! in acqua!»

    «Le scialuppe in mare!»

    Ma già Rocambole e il suo compagno di sventura si erano buttati in acqua e nuotavano fianco a fianco.

    Ci salveremo insieme o moriremo insieme, pensava Rocambole che era un grande nuotatore.

    Nuotarono così per un’ora, lottando contro le onde, immersi in una profonda oscurità. Alla fine, benché fosse un buon nuotatore, Rocambole cominciò ad accusare la stanchezza.

    «Siete stanco?», gli gridò il giovane marinaio che lo sentì nuotare con minor lena.

    «Sì», disse Rocambole.

    «Coraggio! fate uno sforzo; solo poche bracciate e raggiungeremo una massa scura che vedo apparire e scomparire».

    «È la terraferma?», chiese Rocambole che stava perdendo rapidamente le forze.

    «No, ma è uno scoglio, un isolotto sul quale potremo riposarci».

    Mentre il marinaio parlava, Rocambole diceva a se stesso: «Forza, amico! non devi andare a riposare in fondo al mare… Puoi diventare marchese!»

    Quest’ultimo pensiero permise a Rocambole di fare ancora alcune bracciate, ma fu lo sforzo supremo; malgrado la sua energia, sentì le membra che si irrigidivano, poi gli si chiusero gli occhi.

    Gettò un grido, e stava cominciando a sprofondare, scomparendo sotto un’ondata allorché il giovane marinaio, che aveva udito il grido, accorse e lo afferrò per i capelli…

    Ma Rocambole era già svenuto.

    Quando Rocambole riprese conoscenza, i suoi occhi furono colpiti dalla luce accecante del sole. Alle tenebre era succeduto il giorno; alla tempesta la calma… Era disteso sopra della sabbia fine e compatta e, sollevandosi a fatica su un fianco, si accorse di essere su un isolotto in mezzo al mare… e solo! Come mai si trovava lì? Dapprima faticò a riordinare le idee… poi ricordò che per parecchie ore aveva lottato vigorosamente contro la morte nuotando fianco a fianco con il giovane ufficiale di marina: a un certo momento le forze lo avevano abbandonato, e, vistosi ormai morto, aveva gettato un ultimo grido, aveva chiuso gli occhi e si era sentito sommergere da un’ondata, mentre perdeva coscienza.

    Da quel momento in poi, non ricordava più nulla. Ma d’improvviso tutto gli fu chiaro. Il suo compagno di sventura, nuotatore più temprato di lui, l’aveva salvato ed era riuscito a portarlo sull’isolotto. Che ne era stato di quel giovane? Aveva continuato a nuotare verso la terraferma? Per un momento Rocambole lo temette. Appena sfuggito alla morte quasi per miracolo, tornava già al suo sogno ambizioso, ma questo sogno si fondava sull’uomo che lo aveva salvato.

    Si alzò a fatica e fece alcuni passi per farsi un’idea del luogo in cui si trovava.

    L’isolotto che misurava circa un quarto di lega di circonferenza, era poco distante dalla terraferma, che si scorgeva all’orizzonte. Era completamente privo di vegetazione e le rive erano coperte di conchiglie. In alto, volteggiavano alcuni uccelli marini, gabbiani e cormorani.

    Rocambole fece il giro dell’isolotto, vide con costernazione che era deserto e stava per convincersi che il suo compagno di sventura doveva aver raggiunto la terraferma, allorché la vista di un oggetto che scintillava al sole gli strappò un grido di sorpresa e di gioia. Era l’astuccio di latta nel quale il giovane ufficiale della Compagnia delle Indie aveva riposto le sue carte. Accanto all’astuccio, Rocambole scorse altri oggetti: la cintura e le pistole che il marinaio portava indosso quando si era gettato in acqua. Si sentì rinascere la speranza che il giovane non avesse lasciato l’isolotto e dormisse in qualche anfrattuosità delle rocce. Allora si rimise in cammino per continuare le ricerche.

    D’improvviso, un suono diverso dal rumore confuso del mare giunse, dapprima debole e poi sempre più distinto, alle orecchie del novello Robinson. Era una voce umana che invocava aiuto.

    Rocambole si diresse verso il luogo da cui partiva la voce e scoprì una specie di crepaccio. Il giovane marinaio vi era caduto dentro e

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