Le carte Pasquali Coluzzi: Le corrispondenze dei fascisti detenuti a Viterbo ( 1946-1953 )
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Le carte Pasquali Coluzzi - Anna Laura Sanfilippo
Anna Laura Sanfilippo
Le carte Pasquali Coluzzi
Le corrispondenze dei fascisti detenuti a Viterbo
(1946-1953)
© Copyright 2016 Cavinato Editore International
ISBN: 978-88-6982-491-3
I edizione 2016
Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi
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Indice
Prefazione
Le carte Pasquali Coluzzi
Introduzione storico-archivistica
Nota per la consultazione
Mittenti con la lettera a
Mittenti con la lettera b
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Volumi precedenti della Collana
Archivio privato famiglia Stabile. Agosto 1946, giardino di Viterbo. Da sinistra Angela (Elina) Pasquali Coluzzi, al centro Caterina Pasquali Coluzzi, a destra Giuseppina Pasquali Coluzzi.
PREFAZIONE
Il lavoro archivistico di Anna Laura Sanfilippo, studiosa che ha al suo attivo alcuni saggi molto interessanti sulle donne socialiste e comuniste dopo il 1945, nonché su figure dell’antifascismo romano, si segnala per una effettiva innovazione: l’avere considerato nella storia d’Italia al femminile anche le donne fasciste del secondo dopoguerra, protagoniste di un fenomeno assolutamente inedito quale quello del Movimento italiano femminile Fede e Famiglia
, creato dalla principessa Maria Pignatelli di Cerchiara nell’estate del 1946 e ufficializzato giuridicamente nell’ottobre (la data del 28 è indicativa…).
Il MIF aveva due scopi, uno palese e immediato, l’altro più nascosto e soprattutto da realizzarsi con il tempo. Il primo fu l’assistenza ai fascisti incarcerati; il secondo fu la creazione di un movimento di fascisti nell’Italia del dopoguerra.
I fascisti, sia quelli che appartennero alle organizzazioni del regime, sia quelli che militarono nelle formazioni di Salò, fra il 1943 e il 1946 furono internati in campi di concentramento ad hoc¹. I primi furono costituiti dagli angloamericani qualche mese dopo lo sbarco in Sicilia: tra questi, il più importante fu quello di Padula, presso l’omonima Certosa, in provincia di Salerno. Di un certo rilievo anche i campi pugliesi di Taranto e di Grumo Appula. Dopo la fine della guerra, diversi altri campi (circa un centinaio) si aprirono per i combattenti della Rsi e per i componenti e gli esponenti del Partito fascista repubblicano e delle formazioni armate del Pfr, le Brigate Nere. Si trattò di diversi campi, i più famosi dei quali furono quelli di Coltano, in provincia di Pisa, di Laterina, in provincia di Arezzo, di Miramare, presso Rimini e di Collescipoli, in provincia di Terni.
Complessivamente furono internati, senza alcun processo e senza la tutela da parte delle organizzazioni internazionali (salvo, temporaneamente, per il campo di Collescipoli) circa 56 mila persone, catturate con o senza le armi in pugno perché fasciste o presunte tali; furono internate in condizioni assolutamente precarie dal punto di vista igienico ed alimentare. Poiché tali campi dipendevano prevalentemente dall’autorità britannica, la quale non ha mai voluto chiarire la natura di tale detenzione e neppure le condizioni di vita nei campi, gli archivi britannici e americani non hanno mai chiarito, ad esempio, quale sia stata la percentuale di deceduti durante l’internamento. Purtroppo, ci si è dovuti basare quasi esclusivamente sulle testimonianze di qualche internato che dopo la guerra ha pubblicato una memoria sulla detenzione².
Con i primi del 1946 e fino al giugno dello stesso anno, i campi furono abbandonati dalle autorità militari alleate e finirono sotto la gestione dell’autorità italiana, la quale, un po’ per le pressioni politiche interne (il trattenere in quelle condizioni persone dai 14 agli 80 anni aveva determinato, soprattutto da parte delle autorità ecclesiastiche, numerose rimostranze presso il nostro ministero dell’Interno), un po’ per gli alti costi di gestione dei campi stessi, avevano deciso di liquidare l’esperienza dei campi: un’apposita commissione valutò il comportamento di ogni singolo internato decidendo se inviarlo a casa oppure se affidarlo all’autorità giudiziaria per la valutazione delle eventuali colpe.
Dei 56 mila internati furono associati alle patrie galere circa trentamila fascisti. A giugno, dopo il referendum, il ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti, in seguito a trattative dalle quali non risultò estraneo lo stesso vicesegretario del Partito fascista repubblicano, Pino Romualdi, decise di applicare un’amnistia verso tutti coloro che si erano macchiati di delitti nel corso della guerra civile. Uscirono così dalle carceri due terzi dei detenuti fascisti. Si trattò di coloro che vennero riconosciuti colpevoli di violenze particolarmente efferate
. Molti furono condannati a morte dalle Corti straordinarie d’assise e per una novantina di essi la sentenza fu eseguita. La maggior parte, tuttavia, ebbe fortuna perché non appena venne approvato, nell’autunno del 1947, l’articolo della Costituzione – non ancora varata – che escludeva la pena di morte dalla legislazione italiana, tutti coloro che erano in attesa della fucilazione si trovarono commutata nell’ergastolo la primitiva condanna a morte³.
I personaggi con i quali le signore Rina e Giuseppina Pasquali Coluzzi si trovarono a stabilire un carteggio erano appunto detenuti scampati alla violenza della resa dei conti nelle settimane e nei mesi immediatamente successivi al 25 aprile o detenuti scampati alla fucilazione, ovvero, comunque sottoposti a pesanti pene detentive, in attesa di altri gradi di giudizio o di qualche benevola amnistia.
Il ruolo di queste donne fu fondamentale e costituì effettivamente un’iniziativa mai vista nella storia italiana. Si trattava di garantire dei diritti elementari a detenuti che ne erano pressoché totalmente privi: in primo luogo, il diritto all’assistenza di un legale, per molti quasi impossibile per ragioni economiche; inoltre vi erano diritti
più elementari ma non per questo secondari: quello di potere disporre di un vitto migliore, quello di potersi riparare dal freddo, quello di potere avere notizie da casa, ecc. A tutto questo pensarono le donne del MIF, guidate dalla mente vulcanica di Maria Pignatelli, la quale, oltre a ciò (e, dati i tempi, non era obiettivamente facile creare una struttura del genere) mise in piedi una rivista, Donne d’Italia
, un paio di società commerciali per consentire, da un lato, di finanziare la struttura del MIF e, dall’altro, di trovare occasioni di impiego per le giovani donne rovinate dalla guerra, la Laf (Lavori Artigiani Femminili) e l’Eia (Ente Italiano di Artigianato), sigla, quest’ultima, ben poco criptica rispetto ai sentimenti fascisti della Pignatelli e delle sue amiche.
Ma oltre a questi diritti, ve n’era un altro insostituibile ed era quello della presenza di una voce amica nelle vite di questi fascisti, in molti casi abbandonati dalle rispettive famiglie per timore di rappresaglie sui figli o sui fratelli, per la volontà di recidere i rapporti con un fascista che si era macchiato di delitti gravi o infine per motivi economici: molti di questi detenuti a