Arrigo Benedetti, L'ostinazione laica nell'esperienza giornalistica
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Anteprima del libro
Arrigo Benedetti, L'ostinazione laica nell'esperienza giornalistica - Alberto Marchi
padre
PREMESSA
Gaetano Salvemini nella sua celebre «autopresentazione», riduceva ad un numero estremamente esiguo, in funzione simbolica, ma non troppo, la cerchia di quei «pazzi malinconici» ultimi eredi di una stirpe illustre, in via però di rapida estinzione: una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti), che (auto) descriveva come massi erratici abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si era ritirato sulle alte montagne e che già si chiamò, nel secolo XIX, «liberalismo», «democrazia» e «socialismo».
In questa cerchia stretta ha militato per lungo tempo anche Arrigo Benedetti: a quarant’anni dalla morte (1976), se si ha il coraggio di guardare alla sua figura senza troppe inutili mitizzazioni, in particolare senza quelle legate alla sua fama di «terribile» direttore di grandi rotocalchi e settimanali («nume collerico», implacabile ma autorevole maestro di tante prestigiose «firme»), Benedetti emerge come uno dei più convincenti intellettuali laici e liberali della storia del dopoguerra.
Una valutazione complessiva della sua multiforme opera letteraria, giornalistica e politica induce non solo a riconoscergli il valore, oltre che l’attualità, delle intuizioni e delle battaglie che portò avanti in modo particolare alla guida dell’«Europeo» e dell’«Espresso» quale grande innovatore del linguaggio e della sostanza del nostro giornalismo in special modo di inchiesta, ma ad apprezzarne anche il coraggio in virtù del quale, per oltre tre decenni, fu un efficace e deciso sostenitore della liberale – e quindi laica – idea della rigorosa separazione tra Stato e Chiesa nella sfera istituzionale, politica e civile.
Negli ultimi suoi anni che precedettero la morte prematura, era rimasto, tra i pochissimi ancora in vita, tra i maggiori protagonisti di quella grande avventura politica e culturale che si è soliti identificare, per semplicità di rimando, facendo riferimento al «Mondo» e allo straordinario sodalizio intellettuale animato per decenni da Mario Pannunzio, e che aveva appunto nell’«Europeo» e nell’«Espresso», oltre beninteso che nel Partito Radicale, i termini paralleli di confronto e di concreta attività sul piano giornalistico e dell’impegno civile e politico. Fu anzi ostinatamente laico, secondo la definizione che lui stesso aveva dato della propria idea di separazione dello Stato rispetto alle confessioni religiose, nel rifiuto, in definitiva, di ogni atteggiamento integralista nell’agire civile (un tempo forse si sarebbe detto solo clericale). Anche nel tentativo di aggiungere un tassello nella spesso fuorviante discussione pubblica in Italia sul tema della laicità, può allora rivelarsi utile soffermarsi sulla figura dell’intellettuale Benedetti, servendosi dell’analisi della sua esperienza giornalistica, che fu peraltro accompagnata da quella mai abbandonata di romanziere. Essa costituisce un terreno privilegiato di studio e di riflessione per chi voglia attingere proficuamente a un patrimonio di idee e a un metodo di indagine e di analisi giornalistica e culturale che riesce ad illuminare il vero scontro che continua a caratterizzare anche l’Italia di oggi: quello tra i riformatori da un lato e i conservatori dello status quo dall’altro, momentaneamente vittoriosi, purtroppo, in quanto sempre più tenacemente determinati a restringere (o ad eliminare del tutto, se fosse loro concesso) gli spazi di libertà faticosamente conquistati lungo i decenni dell’Italia repubblicana.
Introduzione. UN MAESTRO FAMOSO E SCONOSCIUTO
«Un giornalista famoso e sconosciuto»: con questo azzeccato e a suo modo emblematico ossimoro, Ottavio Cecchi (1924-2005)¹, già nel 1979, ad appena tre anni dalla sua morte, individuava con illuminante precisione il destino cui sarebbe andata incontro la figura di Arrigo Benedetti nel nostro panorama culturale nei decenni a venire. A pochi altri grandi intellettuali italiani del '900, infatti, è stata forse riservata una sorte postuma tanto ambivalente quanto quella occorsa ad Arrigo Benedetti.
Il suo grande e duraturo impegno, insieme giornalistico, culturale e politico, ha trovato senza dubbio autentici riconoscimenti, accanto però a feroci liquidazioni e ad accuse di opportunismo². Riconoscimenti da parte di chi ne ha apprezzato non solo la caratura intellettuale, ma anche la capacità di innovare, di creare nuove pagine nella storia del giornalismo italiano ed europeo. Liquidazioni da chi invece, al contrario, ha voluto fare i conti, anche post mortem, con chi aveva fatto dell’indipendenza e della lontananza dai centri di potere il tratto distintivo di un’idea alta di giornalismo.
Sebbene la nostra cultura sembri sempre più ricondurre alle sole occasioni degli anniversari la considerazione o la riscoperta di un autore, quasi si trattasse di scadenze da onorare meccanicamente, nemmeno nelle occorrenze, rispettivamente, del trentesimo anniversario della sua morte (2006, passato in pratica quasi inosservato in campo nazionale) e, caso ben più significativo, del centenario della nascita (2010)³, le istituzioni culturali e la stampa italiane lo avevano ricordato come le circostanze avrebbero meritato.
Ciò nonostante non si può negare che egli sia considerato quasi universalmente una figura di spicco nella storia del giornalismo italiano nel trentennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale.
Quel «gli siamo tutti debitori»⁴, che giustamente è stato pronunciato come riconoscimento riassuntivo di un’intera esperienza professionale, costituisce il ringraziamento insieme più appropriato e sincero rivoltogli quasi a nome di un’intera generazione di giornalisti, che si sente (o si dovrebbe sentire) obbligata intellettualmente − oltre che professionalmente − per gli spazi di libertà, di vera conoscenza e di denuncia della corruzione e del malaffare che egli ha aperto per almeno tre decenni⁵.
Ma, ed ecco spuntare l’ambivalenza cui accennavamo, non solo la sua opera letteraria è stata quasi completamente dimenticata (non può certo sostenersi il contrario dal fatto che si registrino quattro nuove edizioni o ristampe di sue opere negli ultimi venticinque anni), ma soprattutto è stato accantonato il nucleo centrale del suo pensiero: l’ostinata laicità e la scelta politica e culturale di tipo liberale, con le chiavi di lettura della società e della politica che ne conseguono: il rifiuto del confessionalismo e del temporalismo ecclesiastico, la rivendicazione dell’autonomia della politica dalla religione e dalla morale, la difesa dello spirito civico che permea le società occidentali contemporanee, il rigetto della pseudocultura che si nutre di miti e non di rigore di pensiero. Si tende insomma a vederlo e a rappresentarlo come una sorta di principe dei cronisti e dei direttori, nei casi migliori come direttore rivoluzionario di periodici famosi, ma così facendo è come se lo si volesse confinare in un ambito ben delimitato e proprio per questo ristretto.
Sul piano degli studi, la situazione presenta aspetti ancora non soddisfacenti. L’occasione del centenario della nascita ha sicuramente contribuito alla rinascita di un certo interesse intorno alla sua figura. In questo modo sono venuti alla luce. Sono venuti alla luce così anche alcuni lavori importanti. Si segnalano volumi che hanno preso in esame in particolare il periodo trascorso alla direzione dell’«Europeo»⁶; il rapporto strettissimo mantenuto con Pannunzio⁷; la sua produzione narrativa⁸. Oltre all’antologia degli scritti giornalistici che l’editore Aragno ha pubblicato nella collana Classici del giornalismo, diretta da Alberto Sinigaglia⁹, senza dimenticare l’inserimento e lo spazio riservatogli nel terzo volume dei Meridiani Mondadori dedicati al giornalismo italiano, a cura di Franco Contorbia¹⁰.
Manca però ancora una biografia, così come mancano contributi, salvo eccezioni che è doveroso segnalare¹¹, in grado di dar conto e di approfondire la complessità del suo autentico approccio culturale e intellettuale. Al di là degli ondeggiamenti e delle contraddizioni che in alcuni frangenti ne hanno caratterizzato l’attività (per tutte, l’avvicinamento nella metà degli anni Settanta alle posizioni del Partito comunista italiano, lui che per anni aveva stigmatizzato ogni ipotesi di «repubblica conciliare»), la sua figura va apprezzata non solo tenendo conto delle capacità di grande direttore di giornali e dei relativi successi editoriali, ma deve essere ragguagliata ai contenuti che costituiscono l’ossatura del suo impegno, oltre che letterario, civile e politico. Si tratta di contenuti che oggi sembra perfino impossibile nominare, nei termini in cui venivano «correntemente» proposti sul «Mondo» o sui periodici diretti da Benedetti, senza timore di essere quasi malvisti: basti pensare, per tutti, all’avversione che da liberale autentico costantemente manifestò nei confronti del concordato tra Stato e Chiesa, indicato come un problema fra i più urgenti da affrontare nei primi decenni dell’Italia repubblicana, in quanto valutato come gravissima limitazione delle prerogative del primo; o all’insistenza sulla necessità di superare la «piaga» dell’ipocrita istituto della separazione legale con una legge che riconoscesse a tutti i cittadini la libertà di divorziare, senza imporre a nessuno precetti di tipo religioso.
In ogni caso, se ci è lecito proseguire in questo breve cahier de doléances, per quanto riguarda la sua opera letteraria è certo che i romanzi non vengono più ristampati da molto tempo e ciò costituisce comunque un’amputazione intollerabile nella valutazione complessiva della sua figura intellettuale, la quale ha visto l’attività di scrittore e quella di giornalista alternarsi costantemente, e che necessariamente vanno studiate nelle loro interconnessioni.
Se prendiamo ad esempio come punto di riferimento iniziale gli anni Novanta del secolo scorso, si conoscono come detto solo quattro nuove edizioni delle sue opere, mediamente ben curate e quindi particolarmente meritorie, sebbene rimaste in certo senso isolate nel panorama della cultura italiana: Paura all’alba, per i tipi di Baldini & Castoldi, nel 1995, poi ristampato anche dalla casa editrice Consulta Libri e Progetti (Reggio Emilia, 2012¹²); Tempo di guerra, edito da La Vita Felice nel 1997 e Diario di campagna, edito da Maria Pacini Fazzi Editore nel 2010. Vanamente, del resto, si cercherebbero vecchie edizioni di suoi volumi di narrativa perfino nelle bancarelle dei libri di seconda mano, e solo internet, in questo senso, oltre beninteso alle biblioteche pubbliche, possono aiutare chi voglia approfondire l’indagine della sua vita e delle sue opere.
Gli studi più approfonditi sulla sua attività di scrittore si possono considerare sporadici, e il Castoro (Benedetti, La Nuova Italia, op. cit.), che Flora Perazzolli gli dedicò nell’ormai lontano 1981, resta l’unico saggio in cui si esamini nel suo complesso l’intera opera di narratore e di giornalista.
Dal punto di vista delle attenzioni della storiografia e della pubblicistica, Benedetti sembra inoltre un fratello minore¹³ di Mario Pannunzio, lucchese di nascita come lui e coetaneo, oltre che amico di gioventù e compagno di «imprese» giornalistiche¹⁴.
È paradossale che certi moderni presunti epigoni del direttore del «Mondo», e − se ne rendano conto o meno − anche necessariamente di Arrigo Benedetti, visto che tra i due vi fu una vicinanza costante di vedute e di idee, non tengano quasi mai conto di aspetti centrali nel pensiero e dell’agire dei due «gemelli lucchesi». Lotta contro il clericalismo, politico e culturale (che poi è tutt’uno); battaglia per l’affermarsi delle libertà civili ed economiche (basti pensare ai convegni organizzati dagli «Amici del Mondo»); impegno per costruire un’Italia «europea», all’altezza della sua tradizione storica e culturale.
Il difetto di attenzione «postuma», per quanto riguarda specificamente Arrigo Benedetti, se da un lato lo preserva da quelle celebrazioni che sarebbero spesso, inavvertitamente o meno, pronte a scadere nella retorica memorialistica, rivela però anche l’abissale diversità di approccio culturale e di lettura della realtà che, mutatis mutandis, in verità elaborano anche coloro che vorrebbero essere i continuatori del suo (loro) magistero segnatamente giornalistico.
Il titolo indovinato dell’articolo di Ottavio Cecchi, riferito più direttamente alla sua attività di giornalista, che nella intestazione