Terze Pagine. Biografismi e storie all'ombra di Clio
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Terze Pagine. Biografismi e storie all'ombra di Clio - Roberto Bonuglia
Tra santità
e imitazione di Cristo
: la riscoperta del monastero nell’Italia del Concilio di Trento
Inizialmente attribuito esclusivo di Dio e di tutto ciò che aveva a che fare direttamente con esso – il tempio, il cielo, il popolo, etc. – il concetto di santità
, ben presto, iniziò ad assumere i contorni di una caratteristica attribuibile anche ai primi martiri cristiani che pagando con la propria vita, avevano reso testimonianza a Dio.
Successivamente, mentre si diffondeva nell’Europa cristiana una «concezione estensiva di santità che si applicava anche ai viventi»¹ vennero riconosciuti santi alcuni monaci e vescovi – Leone Magno, Gregorio Magno, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, etc. – che avevano salvato le loro città o fondato in esse le prime chiese locali.
Con l’evangelizzazione dei popoli europei si affermò, poi, un nuovo tipo di santità
, quella dei re
: il clero, infatti, aveva esaltato nell’Alto Medioevo la figura del sovrano unto
e della regina santa
. La santità iniziò, così, ad essere percepita come una virtus, una forza, cioè, che «promana da un corpo santo e manifesta la potenza guaritrice di Dio»². In tal modo, si costituirono le premesse per il culto delle reliquie dei santi e per la diffusione della pratica devozionale del pellegrinaggio.
Entrambi i fenomeni si diffusero tra il XII ed il XIII secolo quando, in corrispondenza della rinascita delle città, molti comuni italiani sentirono il bisogno di «trovare nuovi protettori celesti e, non di rado, li trovarono in donne che avevano esercitato un ruolo pubblico nel corso della loro vita»³.
Non fu perciò un caso che, oltre alle martiri e ad alcune monache, le prime sante spesso furono donne forti – come nel caso di Santa Genoveffa – e che, sempre più frequentemente, il modello femminile di santità divenne – come nel caso della regina di Polonia Cunegonda – quello delle regnanti.
In entrambi i casi, però, si trattava di donne dotate di particolari doni o comportamenti che le facevano identificare e riconoscere come sante, in connessione con un modello di santità consolidato già da tempo. All’inizio del Cinquecento, infatti «due modelli di santità riscuotono il maggior consenso popolare: quello mistico-profetico e quello eremitico-penitenziale, che configurano anche un differente rapporto femminile/maschile nei confronti della santità. Digiuno, stigmatizzazione e profezia caratterizzano il modello di santità femminile su cui gli storici hanno dato diverse interpretazioni. Pratiche ascetico-penitenziali e predicazione apocalittica connotano viceversa il santo
popolare»⁴.
Nel primo caso, risulta particolarmente eterogenea l’origine del culto delle sante
, delle quali venivano ammirate le più diverse forme di digiuno, penitenza, estasi e profezia. Le mistiche italiane – da Santa Margherita di Cortona a Santa Chiara di Montefalco, dalla Beata Angela da Foligno a Santa Caterina da Siena – si videro riconosciuti dei meriti
tra loro molto diversi che andavano «dalla reclusione solitaria ma ben pubblicizzata, alle incursioni profetiche nelle piazze cittadine (Rosa da Viterbo), alle appassionate discussioni anti-ereticali (Chiara da Montefalco) alla risoluzione pacifica delle lotte tra le fazioni cittadine (Umiliana de’ Cerchi, Margherita da Cortona), dalla liberazione della propria città dal pericolo di un’invasione (Santa Chiara) alla corrispondenza con le più alte autorità dell’epoca, tra cui il papa, l’Imperatore e i re (Santa Caterina da Siena). Nel complesso, le sante del Basso Medioevo si adoperarono quindi per costituirsi un prestigio incisivo, basato su un potere mistico e carismatico»⁵.
Ma non solo le donne forti
e con ruoli pubblici
furono oggetto di ammirazione prima e di devozione poi: ben presto, anche le semplici
monache vennero notate, rispettate e stimate poiché, per loro natura «compivano un’azione indispensabile: intervenivano presso il suo sposo, Cristo, per tutti quei problemi che la presenza del monachesimo nella storia rendeva impellenti. La loro preghiera diventava, in tal modo, azione; un’azione che andava ben oltre le mura del monastero, divenendo un fattore su cui contare»⁶.
Le monache con la loro condotta esercitavano sui fedeli un duplice effetto: fornivano un modello di comportamento da seguire e, allo stesso tempo, dimostravano che l’imitazione di Cristo era qualcosa di possibile, di concretamente realizzabile, anche nelle loro città e, soprattutto, nelle loro vite.
Per questo, come testimoniano alcune pagine di Battista Caironi da Crema, i fedeli iniziarono a guardare con stupore alcune monache sante
tanto che «imperò che molti si parteno da casa sua et lassano le proprie faccende per andare a vedere o udire uno qualche huomo o donna; da poi che l’hanno visto o udito non pigliano altro che admiratione et stanno stupefatti come possa stare tanto tempo in oratione et extasi, o come possa stare tanto tempo senza mangiare o in tanta povertà. Che vale a voi avere avuto tal bono esempio et non seguitarlo?»⁷.
La testimonianza di Battista Caironi da Crema conferma quanto, tra il 1450 ed il 1520, si sia effettivamente registrato − soprattutto in Italia «un non comune slancio espansionistico delle comunità monastiche femminili». In quegli anni, infatti, mentre nell’Europa centrale si diffondevano il protestantesimo luterano, nella Penisola, come in tutti i periodi di apertura ai laici e di crisi della Chiesa, «le donne emergevano nella storia in quanto movimento religioso e in quanto profezia"»⁸.
Ciò era anche una diretta conseguenza del fatto che, soprattutto in Italia, la figura della Madonna aveva assunto⁹ ‒ nel corso dei secoli ed in misura sempre maggiore ‒ «le caratteristiche di un modello comportamentale per le donne connotato da alcuni tratti caratteristici»¹⁰, che finirono per corrispondere con quelli assunti dalle monache sante
: «la confermazione della verginità come più alto stato di perfezione, l’umiltà come fondamento della virtù e l’obbedienza come atteggiamento costante delle donne nei confronti delle autorit໹¹.
Osservare ed adempiere questi tre precetti accresceva di certo il prestigio delle monache verso i fedeli tanto che, di fronte a questo proliferare di monache sante
e di vergini mistiche
, il Concilio di Trento predispose alcune norme – poi ribadite da Pio V sia nel 1566 sia nel 1571 e, poi, da Gregorio XIII nel 1572 – volte a garantire l’autenticità delle vocazioni e di accertare i veri casi di santità monacale
.
In primo luogo, con il ripristino della vita disciplina monastica, i monasteri che tanto avevano calamitato l’attenzione dei fedeli tornarono ad essere luoghi protetti ed isolati dal mondo esterno. In secondo luogo, due norme furono disposte in virtù garanzia dell’autenticità delle vocazioni: «la disposizione impartita ai vescovi di interrogare ciascuna monaca sulla libertà della propria vocazione e la presenza del vescovo o di un suo delegato alla cerimonia della professione religiosa»¹².
Entrambe le disposizioni corrispondevano ad una esigenza percepita dalla Chiesa post-tridentina: l’ormai diffusa convinzione di stimolare un definitivo «superamento del modello mistico medievale e la proposta, in sua vece, del modulo centrato sulle virtù eroiche e sull’impegno religioso, additati all’imitazione del popolo cristiano»¹³.
In altre parole, di fronte al proliferarsi del numero di monache sante e mistiche, la Chiesa post-conciliare – elaborando un codice rigido di pratica religiosa uniforme e predisponendo un sistema compatto di regole e di comportamenti religiosi –, avviò un processo di regolamentazione e di disciplinamento della santità femminile
in direzione di una più stretta osservanza dei precetti e del ritorno ad una condizione «primitiva di vita religiosa più aspra e austera»¹⁴ che il culto delle monache mistiche
aveva in parte attenuato aprendo, ad esempio, molti monasteri ai fedeli.
Durante il Concilio si fece allora diffusa la convinzione di rendere «sempre più mediati dal controllo dei vescovi e dalla presenza dei direttori spirituali e dei confessori, i rapporti dei monasteri con l’esterno, almeno nei loro modi più diretti e stridenti»¹⁵.
Ciò si era reso necessario perché la situazione creatasi iniziava ad assumere i caratteri di un fenomeno sociale che iniziava ad interessare non solo il popolo dei fedeli
, ma anche ceti più agiati, come testimoniato ancora dalle parole di Battista Caironi da Crema: «Molte sorte di genti così seculari et gran Maestri, come religiosi et molti litterati et così gran prelati, quando sentono la fama di alcuna persona vanno da quella, alcuni per pura curiosità, per vedere e intendere che cosa dice tal persona; alcuni altri vanno per dimandare qualche cosa non necessaria... Et altri così dimandano che cosa serà di tal mio figliolo o figliola, nepote, parente o amico, et dimandano se si mariterà o se sarà religioso, overo se harà bona o mala fortuna; alcuni altri se sarà guerra o pace, se venirà carestia overo diluvio»¹⁶.
La preoccupazione tridentina fu quella di evitare che tali situazioni fossero generate intorno a casi di false sante
colpevoli, tra le altre cose, agli occhi della gerarchia ecclesiale, soprattutto di «rovesciare il rapporto codificato dei ruoli tra direttore spirituale e penitente, e di recuperare la pericolosa e oramai condannata pratica del magistero femminile e della maternità spirituale»¹⁷.
Piuttosto, con il ripristino e la regolamentazione della disciplina monastica la Chiesa controriformata puntò all’integrazione ed alla corrispondenza tra «modelli di comportamenti e esempi di santit໹⁸. Di conseguenza, tra le virtù di carità, di devozione e di obbedienza che tanto avevano avvicinato il popolo devoto
ai casi di santità femminile
, sarà ribadita l’importanza solo dell’ultima virtus che, insieme alla fedeltà al padrone
– e cioè a Dio –, sarebbe stata sufficiente per caratterizzare i nuovi modelli devozionali post-tridentini.
Contemporaneamente, anche il modello della santa regina
perderà importanza e, se si eccettua la canonizzazione di Elisabetta di Portogallo, proclamata santa da papa Urbano VIII nel 1625, nel corso del 1600 le sante regine
diventeranno sempre più rare, mentre è il modello della santità mistica – ma ben accertata – a trionfare: tutte le nuove sante del XVII secolo sono infatti, come osservato dal Renoux, delle mistiche riconosciute come tali non solo dal popolo, ma dai vertici ecclesiali: Francesca Romana (morta nel 1440), Teresa d’Avila (1582), Maria Maddalena de’ Pazzi (1607) e Rosa da Lima (1617)¹⁹. La stessa cosa può dirsi per i processi di beatificazione: Coletta di Corbie (1447), Gertrude la Grande di Helfta (1301), Margherita di Città di Castello (1320) e Rita da Cascia erano, infatti, tutte mistiche
²⁰.
Questo vero e proprio itinerario di normalizzazione ‒ e di codificazione ‒ nella sua specifica destinazione sociale, indirizzò il modello della serva ideale
«a tutti gli individui di condizione inferiore, rispondendo alle ansie di controllo religioso e politico dei ceti popolari elaborate dalle gerarchie ecclesiastiche e civili»²¹.
Nel processo di femminilizzazione (devozionale e istituzionale) religiosa post-tridentino, le donne e i ceti popolari, infatti, finirono per apparire come «le nuove risorse, più saldamente ancorate alla Chiesa, su cui fondare la ricomposizione della società cristiana e le strategie della riconquista cattolica»²².
___________________
¹ G. Zarri, Le sante vive. Cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, p. 49, passim.
² M. Bartoli, Caterina la santa di Bologna, Bologna, EDB, 2003, p. 23.
³ Ivi, p. 25.
⁴ G. Zarri, L’officina della perfezione. Modelli popolari e modelli ufficiali nella santità moderna, lezione tenuta presso la «Fondazione Collegio San Carlo» l’8 febbraio 1996, ora in Id., La memoria di lei: storia delle donne, storia di genere, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996.
⁵ A. Vauchez, Esperienze religiose nel Medioevo, Roma, Viella, 2003, p. 107.
⁶ E. Pásztor, Donne e sante. Studi sulla religiosità femminile nel Medio Evo, Roma, Studium, 2000, p. 45.
⁷ Cfr., B. Caironi da Crema, Specchio interiore, Milano, Tipys dal Calvo, 1540.
⁸ A. Vauchez, I laici nel medioevo, Milano, Il Saggiatore, 1987, p. 34.
⁹ Va, infatti, ricordato che, proprio nel XV secolo, il culto della Vergine Maria «giunge effettivamente a rivaleggiare con il culto dei santi, temporaneamente posto sotto accusa ed epurato dei più evidenti caratteri del meraviglioso e del magico». D’altro canto, «la maggior parte dei santuari dedicati alla Madonna furono eretti in Italia nei secoli XVI e XVII», cfr. G. Besutti, Motivi del sorgere e dello sviluppo dei santuari, in AA.VV., Nuovo Dizionario di Mariologia, a cura di S. De Fiores e S. Meo, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1986, pp. 1268-1272.
¹⁰ G. Zarri, Dalla profezia alla disciplina (1450-1650), in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 188.
¹¹ Ibidem.
¹² Ivi, p. 209.
¹³ R. De Maio, L’ideale eroico nei processi di canonizzazione della controriforma, in Id., Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli, Guida, 1973, pp. 257-278.
¹⁴ M. Rosa, La religiosa, in AA.VV., L’uomo barocco, a cura di R. Villari, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 220.
¹⁵ Ivi, p. 221.
¹⁶ Cfr., B. Caironi da Crema, Specchio interiore, cit.
¹⁷ G. Palumbo, Vera santità, simulata santità: ipotesi e riscontri, in AA.VV., Finzione e santità tra medioevo e età moderna, a cura di G. Zarri, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 9-17.
¹⁸ M. Caffiero, Tra modelli di disciplinamento e autonomia soggettiva, in AA.VV., Modelli di santità e modelli di comportamento: contrasti, intersezioni, complementarità, a cura di G. Barone, M. Caffiero, F. Scorza Barcellona, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, p. 268.
¹⁹ C. Renoux, Canonizzazione e santità femminile in età moderna, in AA.VV., Storia d’Italia, Annali 16, Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, a cura di L. Fiorani, A. Prosperi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 739-740.
²⁰ Ibidem.
²¹ M. Caffiero, Tra modelli di disciplinamento e autonomia soggettiva, cit., p. 273.
²² M. Caffiero, Istituzioni, forme e uso del sacro, in AA.VV., Storia di Roma dall’antichità ad oggi, a cura di G. Ciucci, Bari-Roma, Laterza, 2002, p. 167.
Roma, il Papa e il potere politico
La città di Roma, è noto, già nel corso del Seicento ha seguito «la parabola politica dei suoi governanti pontifici»¹.
L’amministrazione civica che gestiva la città era il Senato di Roma, un corpo municipale formato da 48 consiglieri ai quali si aggiungevano due deputati ecclesiastici del clero secolare e regolare. Otto di essi, col nome di Conservatori di Roma
formavano la magistratura romana, questa guidata dal Senatore di Roma
al quale spettava sotto il controllo del pontefice, in teoria, il governo della Città².
In realtà il rappresentante del papa era il Governatore di Roma
, un chierico con giurisdizione penale all’interno della città. Alcuni dei membri della corte romana erano, tra l’altro, esentati dalla soggezione alle corti comunali e la loro potestà era comunque, non di rado, invocata contro quella di altri tribunali pontifici.
Anche la figura dei Conservatori
– come, del resto, quella del Senatore
–, era ben diversa dalla sua originale connotazione: in teoria si trattava dei principali collaboratori del Senatore
, tanto da risiedere in un palazzo attiguo al suo in Campidoglio ma, di fatto, i loro poteri reali erano stati fortemente ridimensionati. Come quelli delle altre municipalità dello Stato pontificio, anche gli statuti di Roma erano soggetti all’approvazione del papa e, infatti, l’ultima grande revisione degli statuti accolti dal pontefice fu eseguita nel 1580³.
Durante il pontificato di Urbano VIII Barberini, ad esempio, era già una consuetudine, quella del papa, di porre alla guida delle finanze del comune funzionari già facenti parte dell’organizzazione economica pontificia, di assegnare cariche importanti per l’urbanistica e per la difesa della città, per la costruzione di nuove strade, per la fortificazione delle mura urbane⁴. Inoltre, va ricordato, che era sempre il pontefice a nominare tutti i funzionari di Roma ‒ tranne alcune eccezioni ‒ e che persino gli incarichi universitari potevano essere definiti come «un’estensione della rete di patronage della curia»⁵.
Istituito secondo la tradizione⁶ da Romolo ‒ che fece eleggere dal popolo cento senatori che avrebbero costituito il suo consiglio supremo
‒ il ruolo del Senato di Roma
era diventato, nel Seicento, ben diverso: l’istituzione era stata progressivamente e continuamente svuotata del suo potere effettivo
dalle ordinanze ecclesiastiche e dai poteri papali che ne avevano preso il controllo.
Tra il Cinquecento e il Seicento e più in generale nell’età moderna, la cerimonialità pontificia utilizzò rituali e simboli del potere soprattutto per resistere e reagire prima ai processi di secolarizzazione di derivazione luterana e poi alla politica giurisdizionalistica e antiecclesiastica settecentesca⁷.
In tal modo, le funzioni del Senato di Roma
cessarono di essere autonome dal potere papale e il 3 ottobre 1847 si arrivò, tra l’altro, alla pubblicazione, da parte dell’allora segretario di Stato – il cardinal Gabriele Ferretti –, del Prospetto delle prerogative onorifiche del Senato romano nel quale venivano elencate tutte le attribuzioni concesse
dal pontefice all’istituzione⁸.
Prima di allora, molti erano comunque i momenti, anche simbolici, che testimoniavano la svalutazione del Senato e la sua sottomissione al papa: durante il rito del possesso
⁹, ad esempio, uno degli omaggi più rilevanti offerti al nuovo pontefice ‒ durante il percorso che lo avrebbe portato dalla basilica di San Pietro a quella di San Giovanni in Laterano ‒ era proprio quello del Senatore di Roma
che al Campidoglio lo incontrava come rappresentante di un ormai «modesto e formale potere municipale»¹⁰.
Tale consuetudine traeva origine dall’entrata papale di Paolo III che, dopo aver riconciliato Francesco I e Carlo V al congresso di Nizza del 1538, fu accolto