La strana fuga del gorilla Gerry
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Anteprima del libro
La strana fuga del gorilla Gerry - Michele Sarrica
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LA STRANA FUGA DEL GORILLA GERRY
Copyright © 2009 Michele Sarrica
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michelesarrica@interfree.it
Copertina e interni di Ivana
ivi_66@libero.it
Tutti i diritti riservati.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale.
LETTERA AL MIO CARISSIMO LETTORE
Ciao, io sono Gerry! Nonostante il nome, non sono un ragazzo come te: sono un gorilla. Sono nato qui, in questa gabbia di derisione, e mia madre, fragile alito di primavera, col seno ancora gonfio di latte e miele, chiuse gli occhi mentre mi affidava a questa luce. Con un sorriso strano, che sembrava strazio, mi lasciò cadere dalle braccia chiedendomi perdono, perdono per avermi dato questa pelle e la malinconia della prigione.
Forse, mia madre, dall’alto della sequoia dove riposano gli spiriti più puri, non saprà mai della mia incredibile vicenda, della strana e inquieta storia che ti affido. Io l’ho subita, capitolo dopo capitolo, giorno dopo giorno, e adesso la offro a te, amico sconosciuto. La dedico alle generazioni che verranno, ai miei e ai tuoi simili e a tutti quelli che amano la vita e la rispettano ma, soprattutto, intendo sbriciolare il mio dolore a chi della vita continua a farne scempio.
Adesso io so! Adesso che ho subito la follia e il martirio degli avvenimenti, adesso che ho visto da vicino il terribile volto della paura, io so che oltre il dono all’esistenza non vegeta nemmeno un’illusione, una speranza, una parola per riconciliarci con il mondo e con la vita. Per liberarsi dalle catene bisogna carpire il segreto che anima l’acciaio. Bisogna conoscerle, ricordarle, rinnegarle. Adesso io le conosco! Ho imparato ad ascoltarne la voce e il silenzio e, per non dimenticare la glacialità del loro effetto, affido a te, amico-uomo, il mio destino compiuto. Adesso riesco a distinguere i confini invisibili del bene e del male. Adesso sono in grado di anticipare il futuro poiché io ho visto deflorarsi il presente e saccheggiare il passato. Ma io, nonostante gli occhi spalancati sulla quotidiana demenza delle bestie
, non sono in grado di condizionare il tuo pensiero, le tue scelte, le tue azioni. Posso soltanto sfiorare la tua innocenza, pungolare la tua commozione e offrirti parole di speranza. Io, inerme come un’ombra e fragile più del vetro, non posso rifondare la tua vita, inventare il futuro e modellare il tuo avvenire, né riesco a condizionare il nostro miserabile destino di sfrattati, di eterni derisi e schiavizzati. Non sono in grado d’interferire con il tuo vangelo, né con il tuo senso d’umanità. Tu, mio Cesare, non essere l’epigono di un barbaro padrone, erede di quella parte maligna che domina la terra con la frusta, priva di cuore e priva di rimorsi. Non diventare mai carnefice e boia di questo nostro mondo-paradiso. Ricorda: Colui che ci ha donato questa terra è il padre più generoso dell’universo e l’ha donata a tutti, anche all’ultima formica. Non appartiene solo a poca gente: ai ricchi, ai guerrafondai, ai prepotenti.
Se il signore degli animali non è stato capace di difenderci dal malessere degli uomini, il signore degli uomini ci ha lasciato ingabbiare, torturare, morire. Nel suo cuore di padre si sarà scavata un’inguaribile ferita nel vedere questa sua nobile progenie, così maestosamente cinica e superba, depredare il presente e assassinare il futuro.
Noi siamo stati traditi. Tu, uomo, ti sei illuso di essere il padrone d’ogni cosa. In fondo, forse, tutto quanto accade in questa terra, non avviene per caso, ma per incontrollabile necessità. Sei, comunque, mio compagno di viaggio, mio piccolo e stupendo carceriere!
Ciao, Gerry
I CAPITOLO
Tutto ebbe inizio in quell’afoso giorno d’agosto quando Benjamin, il mio custode-carceriere, venne a portarmi l’ultima cena, (la solita razione di mele e di banane), e mi trovò agonizzante nella mia prigione. Come se gli stesse per morire un figlio, si precipitò fuori chiedendo aiuto. Un signore, il veterinario dello zoo, chiamato comunemente, dottore, venne ad ascoltare il mio petto silenzioso. Avvertii un ago violentare la mia carne e poi la notte penetrare ruffiana nei miei confusi pensieri di gorilla. Non so quanto tempo rimasi a vegetare tra la vita e la morte... non so! Allora, il mio tempo era un cinico tripudio di momenti sempre uguali; un avvicendarsi di giorni e di notti privi di ragioni, senza attesa, senza stimoli di vita. Lo accettavo senza meraviglia e senza scopo, inutile e ingombrante, come i sogni miei. E i miei sogni, in quel tempo, sembravano spruzzi di colori sopravvissuti alla mortificazione dei miei strani pensieri carcerati.
Io, credevo di pensare, di vedere, di aver fatto sogni inimmaginabili e invece, io, non avevo mai pensato, visto, sognato. Adesso che iniziavo a capire le origini della mia tristezza, iniziavo a scoprire la mia realtà senza futuro. In quell’intreccio di sensazioni bidimensionali nasceva e rinasceva un racconto di sole, di stelle e di stagioni nuove. Nasceva, nel mio sangue sconfitto, un fremito di libertà vagheggiata, la stessa libertà vissuta e raccontata da un vecchio gorilla segregato di fronte la mia gabbia, in un’altro spazio di tortura
.
Lui, il vecchio Gurgh, aveva conosciuto la savana, i grandi laghi, le immense foreste. Aveva visto i tramonti e le albe del mondo cui apparteneva di diritto. E ripeteva, fino alla pazzia, quel racconto di liane e di sequoie, di uccelli e di serpenti. Ricordava per non morire. Raccontava per mantenere viva la speranza. Ci parlava della sua tana di edera e di foglie, della sua tribù, della sua famiglia, della giungla violata dalla scure dell’uomo, dove lo avevano catturato. Idolo peloso da mostrare alla civiltà colonialista quale trofeo della stupidità.
II CAPITOLO
- C’era una volta, tanto tempo fa, una bellissima fata di nome Kurgù. Viveva alle pendici di una grande foresta, nel fitto fogliame di una sequoia gigantesca. Si raccontava che la fata Kurgù parlava agli uccelli e sapeva volare. Nessuno, però, l’aveva vista scendere da quel cielo turchino. Nessuno, mai, l’aveva vista. Eppure, tutti, specialmente i più vecchi, la conoscevano, ne parlavano, come se si fossero lasciati un attimo prima. E tutti erano d’accordo sulla bellezza rara di quella fata-gorilla e sulle sue capacità strabilianti. Era capace, persino, di fare da scudo alle sferzate del vento e di comandare le nubi, la luna e il sole. Kurgù, insomma, era una fata e le fate, come tutti sappiamo, possiedono dei poteri davvero eccezionali.
Così iniziava il racconto del mio amico Gurgh e così continuava.
- "Era usanza, nella nostra tribù, d’invocarla nei momenti peggiori, come s’implora lo spirito eletto di una dea, e di consultarla nelle occasioni migliori per chiederle un segno che gratificasse la nostra speranza. Difatti, quando un pretendente chiedeva la mano di una giovane, la famiglia di questa, per sapere se il matrimonio era gradito agli spiriti della foresta, andava a consultare la fata Kurgù. Nella sera che precede il plenilunio, tutti i componenti della famiglia, compresi i parenti e i più intimi amici, andavano in processione fino alla grande sequoia e ai suoi piedi deponevano una montagna di frutta fresca. Dopo avere invocato la fata ed espresso il desiderio di avere il suo parere sulla richiesta di nozze, il corteo, schiamazzando, tornava alla tana della prescelta e tra canti e balli attendeva che l’alba animasse la foresta. Soltanto a giorno inoltrato il corteo, stanco e silenzioso, riprendeva la strada della divina sequoia per conoscere l’esito della loro richiesta. Se la frutta era ancora lì, intatta, significava