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Racconti Metamorfici: Racconti dell'essere e del divenire
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E-book322 pagine4 ore

Racconti Metamorfici: Racconti dell'essere e del divenire

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RACCONTI METAMORFICI
I racconti metamorfici sono una raccolta di quasi sessanta racconti , benedetti da apollo,  nati strada facendo nell’impeto del divenire,  nella foga della creazione sibillina .  Metafora della  vita quotidiana che si trasforma  attraverso i propri innocenti sogni. Versi  michelangioleschi fioriti  all’alba e spenti  a sera nel letto tra mille  cupi pensieri fuggendo  da  morfeo . I racconti  Metamorfici sono correlati da canti poetici , impressioni poetiche che emergono nell’espressione individuale  quasi volgare  crogiolo  dialogico della ragione poetica. Poesia intima , ripeto espressiva che  descrive il vago timore , la bellezza dell’essere,  il bisogno di sentirsi liberi nel flusso immaginario di una coscienza metafisica universale. Cosa sono i racconti metamorfici,  sono metafore del vivere , metamorfosi dell’essere nel divenire comune , trascendenti  il proprio io in mille altre identità,  sintetizzati  in concetti che sono espressioni , rappresentazioni soggettive della nostra  storia,  fatta  da  uomini e donne,  di vita e morte . Speranze e certezze ,  vanno e vengono come le onde del mare nel vasto della memoria ed oltre ci conducono nel vago indefinito fluire di rime e ritmi.  Racconti , canti del divenire di un vivere di cui il fine  ultimo  è la meraviglia del creare . Gioia dell’essere , espressione di una libertà interiore , unendo  mondi e civiltà,  razze e religione , uomini e poeti di ogni ceto sociale , tutti  uguali sotto l’ombrello al riparo dalla insistente pioggia,  scrosciante   dall’alto mentre gli angeli cantano : Alleluia , Alleluia .
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2020
ISBN9788835830207
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    Anteprima del libro

    Racconti Metamorfici - Domenico De Ferraro

    CORAGGIO DI UN CANTO DI MAGGIO

    La notte mi ha portato lontano,  nel dolore del vivere,  nella tristezza dell’essere uniti da uno sguardo che si plasma nel caso , esplode dentro l’ossesso del sesso, vestito di un misero saio.  Nel peccato  che sale  lungo  itali  lidi si compiace di costa in costa . E sono dentro il mio amore dentro al corpo invaso dal sogno nella lussuria fiorita tra gli alberi di pesco,  ingorda  incolume ferita dal fiotto  di sperma sorgiva che bagna il sedere. Ora mesto ,riposo tra rovi di spine ignaro di come il mio cammino abbiamo deriso il corpo di cristo.

    La mia vita per un verso  il mio orgoglio per un ricordo. Un santuario  questo corpo , un deserto di sabbia  ove nascono  fragole rosse , L’idea ed il gioco , la corsa verso casa , esplorare  nel magno universo  trasale come fosse un lutto  perpetuo.  Passioni che animano  il mondo caduto,    emergono  in mille espressioni confuse . Il dolore ha spezzato il  mio destino. Ora  l’allodola canta e dorme sopra un bell’ albero come fosse rapita da un estasi insana .  Grassa ed ingorda  una donna cannone succhia  un pene enorme , entra , esce  dalla sua bocca , sale  lungo  l’utero  grondante di sudori ed umori materni.

    Il mio amore per una gioia  in un viaggio infernale  raccoglie in se l’itero creato l’amore clandestino l’amore pagano . Ora dunque son distrutto  sono fatto di carne. Nell’amore sono  tradito ,schiavo del senso ed del sesso che esplode come fosse una bolla di sapone. Ora io  voglio ,cerco chi sono , come fossi un ausiliario del traffico come fossi il padrone di  quell’auto rubata come fosse il perdono ed  il mondo bagordo  , l’amore di un padre,  la morte di un madre. Tutto e lecito come il pensiero di  un gitano,  sale lentamente per colli ombrosi,  foschi e tinti di pene secolari . Dentro ai conventi s’ ode  il vento della vita , passa , assapora la morte,  la vita di un tempo le parole mai dette rubate in un attimo ,  pietre solinghe dentro un letto di un fiume che scende , scivola veloce , trombando, rombando in  un imbuto di idee , cavalli impazziti di corsa contro il tempo  scorre furtivo nel vago chiarore di un alba rosata.

    La morte mi ha preso per mano mi ha condotto da lei come fossi un bambino.  Mi ha  posto tra il bene ed il male , tra ciò che sono e ciò che sarò , insieme all’amore anche la vita  cambia , tromba  ed il turbare,  imbavaglia ,  bianco,  puro come una colomba ferita su un rovo di spine . Una certezza, un ossesso.  Solo nella storia  risorgo,  solo nel  caos delle strade  di una metropoli incancrenita dal chiarore dell’idee malandrine  , rubando ,  sale , scende  entra , esce, picchia  più forte del  martello , battente  sull’ incudine di ferro ,  più veloce di un  lampo,  eccoci ad Ischia a mangiare  le verdi fave , ad ascoltare favole  sincere,  idilli del caso nella  forma che in se riempie la vita .

    Sono solo ad un passo dal capire chi sono.  Perché  mi duolo bagnato dall’olio dell’odio , nel canto del mattino che  ti santifica vicino alla fica , una voce  mi trasporta come un onda sul mare,  come il dire  in  un attimo come l’amore che veggo sotto un monte di merda.  Ed  esule rimango  tra i miei perché. E non biasimo ne ascolto ne rammento ne congiuro giungo in fretta come fossi un gendarme in manica di camicia tutto vestito di foglie d’alloro con il mio ossesso di frasi  scapestrate sopite nel petto  salgono  impettiti verso la sommità dell’olimpo. Tutto mi conduce alla morte tutto mi turba mi percuote mi ingravida di concetti e d’amori novelli che belli nella sorte sono repressi dal caso  nella forma avulsa al contenuto.  La morale  scioglie l’animo lo denigra l’offende lo rende servo della gleba. Ora ragazzo siamo rimasti da soli dentro questa storia dentro il mondo che ruota veloce in compagnia di tanti personaggi nel coraggio di maggio  che  cresce dentro al ventre di una madre megera.

    O sorte mi hai lasciato da solo in compagnia di tanti serpenti in mezzo a questa guerra  in un azione letale che presume sia il soggetto pensante la botta finale l’ urlo di piacere straziante perfetto fino all’ultima goccia di  sangue  fino dentro al corpo  arso dalle fiamme della passione s’inginocchia e succhia forte .  Sgorga come l’acqua dalla fonte  scorre scende batte scroscia scivola inonda preme più forte piu carico di domande di doni e di ombre fallaci ed ignare ingorde d’amori e di mille avventure passate da sola sulla spiaggia deserta  immemore bianca si distende infinita oltre ogni immaginare come fosse una palla di sterco che rotola inseguita da un scarafaggio arrabbiato. Coraggio mi son detto ed oltre andai come fossi un bambino che piange nella culla come fossi la mano ed il perdono il mondo ha dimenticato il mio dolore l’ira di Achille la veste che indossai per quel dì di festa.

    Quante volte mi son chiesto se la fede fosse figlia della  poesia acerba beltà di quando s’era giovani ,  fede  convertita alla legge morale  alla leggerezza dell’essere che spesso  si ribella si bea della sua verità. Ora  scrivo , ora  sogno d’essere un altro ora sono figlio di me stesso e delle mie passioni ora  sono dentro al caso ed oltre vado nel tempo che incute e percuote.  Ferito  nel canto di maggio inoltrato. Ora figlio della  santa  vergine , figlia dell’umanità intera figlia della volontà di riscatto seduta  tra panche polverose , sopita nell’orazioni  nel miracolo che non avvenne. Or su  meglio levare l’ancora ed andare oltre ciò che ci siamo detti , oltre ciò che siamo stati . Figli dell’amore venale , figli del viaggio ,  simili  ad  un fanciullo che dorme tra le braccia della madre la  in quella piccola stanzetta dove il male  teme l’amore dove ogni cosa si ferma  innanzi al giudizio divino . E  nell’inizio di un amore di maggio coraggio mi son detto  io sono vicino  al  tuo cuore , ti sono vicino  battendo le ali , nel lento  battito  del cuore ,  nel tempo  che scorre , nello schioccare dei  baci  nell’abbraccio di  cristo all’umanità redenta ai piedi  della  sua croce di legno.

    L’INVENZIONE DELLA FELICITA’

    In una grande metropoli situata dentro i nostri sogni , dentro un mondo immaginario che ci invita alla comprensione  abitata da trenta milioni di persone viveva un vecchio inventore che vendeva  piccoli robot domestici che aiutavano  a fare le faccende di casa. Il vecchio inventore  era stata a suo tempo in gioventù , una delle menti più brillanti di quel lontano pianeta della costellazione del cigno.  Era stato quello che  un uomo può essere o può sognare d’essere.  Un giorno con i suoi automi esposti  fuori il suo piccolo negozio  passò un grasso  turista d’un pianeta vicino  in cerca di qualcosa d' originale da comprare . Visto i piccoli robot muoversi ,  fare cose a dir poco straordinarie, volle comprare a tutti  costi quei piccoli automi , donando al povero vecchio inventore  un assegno con tanti zeri che l’avrebbero  reso finalmente capace di comprare ciò che aveva sempre sognato per sé un disco volante . Con quella navicella avrebbe potuto finalmente  esplorare e conoscere l'intera galassia.  Giungere in luoghi inaccessibili  dove  esistono luoghi straordinari ,dove il tempo è relativo nel divenire  e scorre cosi lentamente che si diventa  longevi al punto da ritornare giovani per sempre. In cuor suo il vecchio inventore con quell’assegno in mano stretto , nel pugno della sua mano avrebbe voluto partire subito alla ricerca di quel mitico  luogo, di quell’eden ove vive il gatto ed il lupo dove la vecchiaia copula con la giovinezza. Provare  a cercare  in poco tempo  il  punto in cui avrebbe potuto attraversare l’universo per ritornare indietro nel tempo per ritornare  ad essere giovane ed essere  immune dalla morte che incombeva sulla sua esistenza. Una morte  che  l’aspettava sbattendo il piede per terra con fare impaziente. Quell’assegno lo stringeva forte al petto , sembrava una croce d’orata con tanti zaffiri che splendeva sul suo petto, sembrava un aquilone che si librava nel vento portandoti lontano , oltre ogni sconfitta , oltre ogni dolore. La vecchiaia i ricordi d’un tempo passato che nulla gli aveva donato  se non tanto lavoro  se non la gioia  nell’inventare quei strani automi meccanici cosi  perfetti , cosi uguali a se stesso. Una forza incredibile aveva mosso la sua mente e le sue mani nel creare quelle macchine, ma  forse  non era stato lui ad inventare quei automi  e tutto era stato  all’incontrario  era stato un  automa insieme ad altri  robot ad  inventare lui  ,  Le macchine avevano creato quel vecchio inventore,  avevano creato una intelligenza superiore , qualcosa assai simile alla divinità.

    Piangeva il vecchio inventore nel ricordare cosa era stato, piangeva  bagnato dalla  pioggia , dentro  un diluivo ,  nella sua  misera vita che  correva via , verso mondi sconosciuti  ed i suoi pensieri erano leggeri come nuvole nel cielo , si confondevano con tante altre vite che  avevano sognato  un esistenza diversa.  Una felicità fatta di poche cose , di pisolini pomeridiani , di pranzetti succulenti ,passeggiatine tra i monti per spiagge deserte , trombatine, sveltine a poco prezzo .  Piaceri , passioni ,pensieri felici  che  il tempo ci porta via , che  tramutano  le nostre passioni  , lasciandoci  soli  mezzo a una via increduli di cosa siamo diventati. Il vecchio inventore si accorse così , che aveva inventato di tutto  tranne la felicità ed ora , che era ricco ,si sentiva  solo , cosi solo  come mai lo era stato  ,cosi  solo da non poter dividere quell’intelligenza  con nessuno  , s’accorse di non aver inventato  quella cosa assai importante lungo la sua vita , l’amicizia la comprensione il senso dell’essere umani e non macchine . Cosi comprese di non essere mai  stato  in grado di diventare felice, forse famoso, forse uguale a tante persone che conosceva , che avevano poco , ma erano felici di svegliarsi di mattino presto di andare a lavoro,  di ritornare a  sera a casa dalla propria famiglia.  Cosi come  il vento spinge  il volo degli uccelli  e li conduce dove ogni cosa può divenire  qualcosa di  meraviglioso , tale da poter dire che bello vivere ,  bello essere se stesso. Il povero vecchio inventore dovette ammettere in cuor suo d’essere stato  sempre infelice  sempre ad un passo dal comprendere il bene ed il male , dal raggiungere una felicità che  come il volo degli angeli, come il tempo  che passa e porta via guerre e morte ,  lui non aveva mai  conquistato ,  né posseduto mai  la felicità.

    Ed il povero inventore , cosi con quell’assegno con tanti zeri invece di recarsi a comprare una navicella spaziale che l’avrebbe condotto lontano,  tanto lontano ove avrebbe potuto attraversare qualche buco nero ,  lo spazio ed il tempo, avrebbe potuto divenire , giovine di nuovo , sconfiggendo la morte, l’ignoranza ,l’incredulità , l’incomprensione  raggiungendo cosi  in un certo qual modo la felicità . Il  vecchio inventore aveva  solo sognato d’inventare  migliaia di nuove vite, esseri perfetti , capaci di compiere  cose assai  utili. Aveva sognato di vivere e d’essere qualcosa di superiore di simile ad un arco teso a quella patatina assaggiata sotto l’arco della pizzeria. Mentre la gente si bacia si abbraccia mentre scende la pioggia il vecchio risaliva l’inferno verso il paradiso nell’ipotesi di un reato di un sogno conquistato incolume nel peccato il vecchio mostro i denti alla vita e la vita gli mostro il suo sedere.  Ed il turista di passaggio sul suo pianeta aveva compreso che  quella sua  grande  invenzione  ,era  la volontà del vecchio inventore di essere lui , quella macchina perfetta  che egli costruiva  , che non provava,  nè gioia , nè dolore ed era eternamente felice.

    Il tempo passa ed invecchia , ride alle nostre spalle,  ci mostra cosa siamo diventati , cosa eravamo , cosa siamo , ci mostra il mondo , come noi lo vogliamo vedere e desiderare , ci mostra pianeti ed universi meravigliosi  , amori irraggiungibili  cosi dolci , cosi belli che il povero vecchio inventore incominciò tutto ad un tratto  a piangere nel ricordare  ciò ch’era stato ,  cosa era diventato , il tempo è  relativo nel suo scorrere , relativo nel  dolore, nella  gioia, nelle tante vite incontrate. E  tutto è  nulla ed il nulla è un tutto , che ci conduce a credere ad essere per un attimo felice di ciò che siamo,  di ciò che potremmo essere e divenire. Questo dato di fatto  ha nome umanità  , ed  è una grande invenzione. Basta poco per averla  , basta chiudere gli occhi ed immaginare d’essere noi stessi  in un luogo meraviglioso , d’essere grandi , piccoli, diversi da ciò che siamo , da ciò che potremmo divenire, la felicità è una chimera,  un personaggio di una buffa commedia, un eroe senza tempo , una stella errante  , una utopia , un credere , un  sorriso di una bella ragazza ,  una bella canzone che ci porta via con lei,  lontano cosi lontano da essere  per un momento felici  con noi stessi, cosi felici di aver compreso il necessario  che basta ,  per esserlo per sempre. 

    CANTO DI UN INDIANO METROPOLITANO

    Le bugie  hanno le gambe lunghe, forse ne hanno  tre,  non hanno il  senso della misura ,  neppure il senso di essere eterni ma in ogni riscontro  culturale si ripercuote  in quello che crediamo certi  nel  contrapporsi ad ogni costo  ad una realtà  soggettiva . Una dimensione operaia , frustata,  messa in croce venduta per pochi spiccioli vissuta  laggiù in strada rincorrendo  le farfalle dalle ali d’oro .  Inseguendo  sogni e speranze. Ed in ogni luogo noi viviamo,  emerge in noi  un punto interrogativo che ci lascia inermi  contro la nostra volontà. È siamo  fatti ad immagine di un dio troppo bello o troppo piccolo  per accoglierci sul suo seno ,  che può generare a volte un  malinteso , una  forma  bisessuale che imbocca  ogni coccola e  può  divenire  un grappolo alla gola  . E questo grande gioco fatto di forme e di cose che non hanno senso  ci lascia meravigliati  in un faticoso  divenire.

    Un  vecchio  sedeva sulla panchina di un  giardinetto pubblico era convinto che quel giorno andava tutto bene  così si girò sui tacchi e rendendosi conto  del male che saliva lento dal ventre della città  si tolse il  cappello ed  aggiunse :

    E ti pare una  cosa bella  rapire questa estasi che mi cambia l’esistenza  ?  ho sempre tifato Napoli  ed ora  che ho  le tenebre alle calcagna  una  gomma da masticare che mi cade dalla bocca insieme al canto dell’allodola.  La ricchezza è una tenera ebrezza ,  meglio se  fossi emigrato nei paese bassi  ma alle tante disgrazie non c’è  mai d’ anteporre  un vaso di fiore . Mi scuote  questa sfiga mi sfiora e  corre in me fino a condurmi  verso quel  maestoso  camposanto.

    Meglio forse  essere rinato dal nulla, parte  dalla polvere che sparsa nel vento e giunta fin qui  nella  vigilia di Pasqua senza rimpianto  con l’onore di essere  compreso  nel fare quello che mi pare  con  tutti i miei anni trascorsi  da solo , confesso sono rimasto bambino.

    Il vecchio aveva all’incirca settant’anni portati male come la gomma di un auto che si sta consumando che presenta un imperfezione linguistica. Il vecchio si chiamava Albert ed era del Massachusetts ed era venuto in Italia perché doveva sbrigare una commissione per il governo  degli Stati Uniti ed  il vecchio la sapeva lunga , oltre alla barba aveva uno stuolo di medaglie che lui mostrava a chiunque andasse a trovarlo. Era buono il vecchio Albert aveva viaggiato in  lungo ed in largo per l’ intero globo terrestre  in veste d’infermiere aveva diagnosticato tante malattie,  ne aveva curate a milioni.  Aveva conosciuto da vicino la pelle di tante popolazioni  ed il dorso dei scarafaggi che volano nell’ aria di maggio con in dorso , palle di sterco. Ed Albert era contento di vivere a Napoli precisamente a monte di Procida  su un picco d’ una collina  dove si poteva vedere il mare e le sirene danzare nell’ acque limpide d’un sogno di un dio morente. Dalle sue mani volavano le immagini della sua vita , ed era difficile capire se il vecchio Albert scherzasse o facesse per davvero quando diceva chi te muorte chi te stramurte , maledetto il giorno in cui ho comprato questa casa . Maledetto il giorno in cui mi sono innamorato di una italiana precisamente di una napoletana . Io,  che ò  pesce non mi è mai  piaciuto  e penso sempre al Massachusetts ai suoi grandi prati verdi. Rammento le vacche per i prati fare l amore con tori novelli  nell’eco di  una lirica  legato ad un sogno giovanile di un mondo bello come il cubo dove la donna siede con le gambe aperte.

    Una vita tra sogno e realtà,  tra quello che credi giusto o sbagliato,  tra un panino ed un sorriso,  tutto scorre anche la vita del vecchio Albert che ne ha viste di cotte e crude,  come quella volta che volò  sopra l’Africa e vide gli elefanti rosa volare , vide una scimmia andare dal parrucchiere e ridere di un altra scimmia , perché si era fatta le trecce bionde. E la vita scorre come un fiume , come quelle lacrime sulle rose gote di una fanciulla perduta nei suoi sogni e nella speranze di un esistenza migliore  si apre questo sipario sulla sua sconosciuta storia di soldato e di padre d’infermiere e di sacerdote del dolce far nulla. Le giornate trascorrono pigre in casa di Alberto che a volte fa fatica ad alzarsi dalla poltrona,  per cercare la bottiglia dell’alcool , per farsi la siringa nelle natiche bitorzolute,  rappellati , mitocondri che strisciano nella propria genetica , surreali figlio di microbi meditabondi che trasportano da cellule amorfe ad altre cellule impazzite il grasso di città,  il gas che alimenta una fiamma , forse la vita in quel corpo decadente che stenta a  stare all’in piedi  . Albert figlio di un Apache della tribù di cervo ferito , figlio di una figlia dei fiori  dell’indiana  che amava decantare  ai quatto venti  cosa significa essere liberi  in America che s’innamora tutto ad un tratto  di quello strano indiano che non sapeva parlare bene l’inglese.  Di nome  Gufo  ferito che ogni volta che la vedeva s’alzava in volo e adorava manitù come pochi.  Ed era un grande ubriacone, gufo ferito  beveva Whisky  di sottomarca e faceva la spola tra la riserva in cui abitava ed il paese dove viveva la sua amante . La mamma di Albert era bella cosi bella che sembrava un girasole impazzito al sole isogenetico  dell’America ribelle.  Un raggio di sole che penetra  la terra e fa sbocciare  magici  fiori  da quell’arido deserto .

    I fiori nascono e muoiono si piegano alla forza del vento si piegano alle tante domande a chi ne sa  più ne metta con  chi gioca con il destino altrui , come una domanda bollata fatta per essere trasferito in un altro nosocomio in un altro continente . Ed  il vecchio Albert era il  figlio di un indiano Apache  detto Gufo Ferito e di una figlia dei fiori perdutamente innamorata degli indiani  del sole di manitù . Che rideva quando girava intorno a quell’idolo di legno ,  saltellava porgeva l’altra guancia cercando un senso alle proprie disgrazie . E  quando nacque Albert piccolo rosso e bianco , dai capelli biondo quasi argenti  con tante lentiggini come  se avesse l’allergia di maggio. Fu  un onda di sentimenti strani che ti entrano dentro il corpo nel vederlo . La madre di Albert Lidia era cosi contenta che ringraziò  manitù poi Allah e poi nostro signore Gesù di aver avuto un figlio maschio che il nonno  indiano piede storto figlio di toro zoppo fece dare una festa immane e cosi opulente , piena di pietanze di ogni genere che rimase nella memoria indelebile  delle  generazioni future.  Un tempo felice  che  rimarrà  nel  ricordo immemore  di quanta roba furono capace di ingurgitare , di divorare,  di bruciacchiare sulla fiamma ardente dei falò . Sotto la calma tonda luna,  del deserto nell’accampamento degli Apache della tribù di Toro zoppo in molti si giocarono numeri a lotto , altri finirono per ubriacarsi e fare l’amore strano , ma proprio strano dentro una tenda laggiù vicino al fiume che passa e conduce alle miniere d’oro e d’argento.

    Lidia non avrebbe mai creduto di partorire un cosi bel bambino,  rosso ,  biondo e rubicondo che sapeva già dire augh e salutare con la manina alzata come i romani de Roma. Il bimbo  sapeva sorridere e tirava forte al suo seno quel latte materno che ti da forza,  tanta forza. Bello Albert piccolo mezzosangue crebbe in svelta giocando agli indiani dentro l’accampamento e qualche volta andava insieme a caccia con il nonno  Piede Storto .

    Nonno cosa significa essere pellerossa

    Noi ridiamo ed amiamo la natura  siamo indiani

    Forse mi prendi in giro

    Una penna d’indiano non indietreggia davanti nessun pericolo piccolo cerbiatto

    Anch’io un giorno sarò grande come te

    Il vento e manitù ci conducono dove il sole tramonta ,

    dove le parole emergono dall’animo afflitto della natura

    Io sono fiero d’essere un indiano

    Noi viviamo per morire, a volte  per essere liberi , per essere noi stessi

    Ed un giorno i nostri avi ci porteranno nei loro pascoli , sempre verdi ed andremo a caccia insieme,  del bisonte.

    Nonno non svegliarmi , ma dammi una pacca dietro la schiena voglio continuare a sognare

    Non dormire troppo chi dorme  troppo non prende pesci

    Scendo lungo  il fiume e con l’alba mi alzo,  combatterò con orgoglio  la mia guerra.

    Siamo rimasti in pochi un tempo tutte quello che vedi era nostro,  fin dove calava il sole , fin dove nasceva la luna e le stelle luccicavano sul nostro cammino ed il cavallo ci portava verso terre meravigliose dove lo scoiattolo saltava tra ramo in ramo fin dentro le foreste fitte dove abitano le belle squaw

    I ricordi di Albert  sono immagini  che emergono da un vaso di pandora ora  Albert naturalizzato napoletano gli  sembrava assai  ridicolo stare in quella veste di paesano coatto.  Considerava  quella sua nuova condizione  una maledizione lui in divisa , al supermercato in  cerca tra gli scaffali  di una crema per far ricrescere i capelli e la moglie Giuseppina originaria di bacoli gli dice :

    Albert salta la coda non perdere tempo tra quei scaffali

    Ma non posso stare mai in pace ora divento un indiano furioso

    Non perdere il controllo,  oggi ti ho preparato pasta e fagioli

    Buono con molto pepe ed un bicchiere di vino questo primo maggio sarà una gran festa

    Più tardi facciamo l’amore lo faremo assai  strano Albert come piace a te a testa in giù all’indiana

    Giuseppina acciuffi  questo pesce guizzante come in un sogno tra i miei pensieri,  vorrei donarti  una calda  pelliccia di bisonte nero per i tanti baci dati

    Marito mio se non ti sbrighi il supermercato chiude e noi rimaniamo dentro

    Sempre di fretta , sempre di fretta napoletanamente di fretta.

    Giuseppina piccola tonda , rossiccia molto simile  ad una squaw  della  tribù dei Sioux,  una napoletana verace tosta iscritta al partito comunista d’adolescente da quando persa la sua verginità con uno scellerato ragazzo che faceva il cameriere in una pizzeria del centro ,  da quando c’era Berlinguer sempre in prima fila a combattere contro i soprusi di una società grassa e spregiudicata che ama sedersi a tavola senza dividere il bene culinario con il gatto malandrino che sa suonare il chitarrino e  porta l’orecchino . Ed Albert aveva una gran voglia di ritornare in America nella sua terra  di origine ritornare in seno alla sua tribù di indiani piedi neri che si davano il cambio quando la luna calava o quando il sole si spogliava e rimaneva  nudo lassù in cielo tra le nubi sopra un bianco deserto. Una prateria  infinita ,  madre di tante cavalcate  che cuoce il cervello  in  aforismi  segreti e naturali che fanno fischiare la serpe e ragionare il ragno peloso. Ma se la terra è madre  dell’anima , luogo  mitico  in cui si nasce e  sviluppa  in noi una propria  utopia un luogo

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