Racconti Metamorfici: Racconti dell'essere e del divenire
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Info su questo ebook
I racconti metamorfici sono una raccolta di quasi sessanta racconti , benedetti da apollo, nati strada facendo nell’impeto del divenire, nella foga della creazione sibillina . Metafora della vita quotidiana che si trasforma attraverso i propri innocenti sogni. Versi michelangioleschi fioriti all’alba e spenti a sera nel letto tra mille cupi pensieri fuggendo da morfeo . I racconti Metamorfici sono correlati da canti poetici , impressioni poetiche che emergono nell’espressione individuale quasi volgare crogiolo dialogico della ragione poetica. Poesia intima , ripeto espressiva che descrive il vago timore , la bellezza dell’essere, il bisogno di sentirsi liberi nel flusso immaginario di una coscienza metafisica universale. Cosa sono i racconti metamorfici, sono metafore del vivere , metamorfosi dell’essere nel divenire comune , trascendenti il proprio io in mille altre identità, sintetizzati in concetti che sono espressioni , rappresentazioni soggettive della nostra storia, fatta da uomini e donne, di vita e morte . Speranze e certezze , vanno e vengono come le onde del mare nel vasto della memoria ed oltre ci conducono nel vago indefinito fluire di rime e ritmi. Racconti , canti del divenire di un vivere di cui il fine ultimo è la meraviglia del creare . Gioia dell’essere , espressione di una libertà interiore , unendo mondi e civiltà, razze e religione , uomini e poeti di ogni ceto sociale , tutti uguali sotto l’ombrello al riparo dalla insistente pioggia, scrosciante dall’alto mentre gli angeli cantano : Alleluia , Alleluia .
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Anteprima del libro
Racconti Metamorfici - Domenico De Ferraro
CORAGGIO DI UN CANTO DI MAGGIO
La notte mi ha portato lontano, nel dolore del vivere, nella tristezza dell’essere uniti da uno sguardo che si plasma nel caso , esplode dentro l’ossesso del sesso, vestito di un misero saio. Nel peccato che sale lungo itali lidi si compiace di costa in costa . E sono dentro il mio amore dentro al corpo invaso dal sogno nella lussuria fiorita tra gli alberi di pesco, ingorda incolume ferita dal fiotto di sperma sorgiva che bagna il sedere. Ora mesto ,riposo tra rovi di spine ignaro di come il mio cammino abbiamo deriso il corpo di cristo.
La mia vita per un verso il mio orgoglio per un ricordo. Un santuario questo corpo , un deserto di sabbia ove nascono fragole rosse , L’idea ed il gioco , la corsa verso casa , esplorare nel magno universo trasale come fosse un lutto perpetuo. Passioni che animano il mondo caduto, emergono in mille espressioni confuse . Il dolore ha spezzato il mio destino. Ora l’allodola canta e dorme sopra un bell’ albero come fosse rapita da un estasi insana . Grassa ed ingorda una donna cannone succhia un pene enorme , entra , esce dalla sua bocca , sale lungo l’utero grondante di sudori ed umori materni.
Il mio amore per una gioia in un viaggio infernale raccoglie in se l’itero creato l’amore clandestino l’amore pagano . Ora dunque son distrutto sono fatto di carne. Nell’amore sono tradito ,schiavo del senso ed del sesso che esplode come fosse una bolla di sapone. Ora io voglio ,cerco chi sono , come fossi un ausiliario del traffico come fossi il padrone di quell’auto rubata come fosse il perdono ed il mondo bagordo , l’amore di un padre, la morte di un madre. Tutto e lecito come il pensiero di un gitano, sale lentamente per colli ombrosi, foschi e tinti di pene secolari . Dentro ai conventi s’ ode il vento della vita , passa , assapora la morte, la vita di un tempo le parole mai dette rubate in un attimo , pietre solinghe dentro un letto di un fiume che scende , scivola veloce , trombando, rombando in un imbuto di idee , cavalli impazziti di corsa contro il tempo scorre furtivo nel vago chiarore di un alba rosata.
La morte mi ha preso per mano mi ha condotto da lei come fossi un bambino. Mi ha posto tra il bene ed il male , tra ciò che sono e ciò che sarò , insieme all’amore anche la vita cambia , tromba ed il turbare, imbavaglia , bianco, puro come una colomba ferita su un rovo di spine . Una certezza, un ossesso. Solo nella storia risorgo, solo nel caos delle strade di una metropoli incancrenita dal chiarore dell’idee malandrine , rubando , sale , scende entra , esce, picchia più forte del martello , battente sull’ incudine di ferro , più veloce di un lampo, eccoci ad Ischia a mangiare le verdi fave , ad ascoltare favole sincere, idilli del caso nella forma che in se riempie la vita .
Sono solo ad un passo dal capire chi sono. Perché mi duolo bagnato dall’olio dell’odio , nel canto del mattino che ti santifica vicino alla fica , una voce mi trasporta come un onda sul mare, come il dire in un attimo come l’amore che veggo sotto un monte di merda. Ed esule rimango tra i miei perché. E non biasimo ne ascolto ne rammento ne congiuro giungo in fretta come fossi un gendarme in manica di camicia tutto vestito di foglie d’alloro con il mio ossesso di frasi scapestrate sopite nel petto salgono impettiti verso la sommità dell’olimpo. Tutto mi conduce alla morte tutto mi turba mi percuote mi ingravida di concetti e d’amori novelli che belli nella sorte sono repressi dal caso nella forma avulsa al contenuto. La morale scioglie l’animo lo denigra l’offende lo rende servo della gleba. Ora ragazzo siamo rimasti da soli dentro questa storia dentro il mondo che ruota veloce in compagnia di tanti personaggi nel coraggio di maggio che cresce dentro al ventre di una madre megera.
O sorte mi hai lasciato da solo in compagnia di tanti serpenti in mezzo a questa guerra in un azione letale che presume sia il soggetto pensante la botta finale l’ urlo di piacere straziante perfetto fino all’ultima goccia di sangue fino dentro al corpo arso dalle fiamme della passione s’inginocchia e succhia forte . Sgorga come l’acqua dalla fonte scorre scende batte scroscia scivola inonda preme più forte piu carico di domande di doni e di ombre fallaci ed ignare ingorde d’amori e di mille avventure passate da sola sulla spiaggia deserta immemore bianca si distende infinita oltre ogni immaginare come fosse una palla di sterco che rotola inseguita da un scarafaggio arrabbiato. Coraggio mi son detto ed oltre andai come fossi un bambino che piange nella culla come fossi la mano ed il perdono il mondo ha dimenticato il mio dolore l’ira di Achille la veste che indossai per quel dì di festa.
Quante volte mi son chiesto se la fede fosse figlia della poesia acerba beltà di quando s’era giovani , fede convertita alla legge morale alla leggerezza dell’essere che spesso si ribella si bea della sua verità. Ora scrivo , ora sogno d’essere un altro ora sono figlio di me stesso e delle mie passioni ora sono dentro al caso ed oltre vado nel tempo che incute e percuote. Ferito nel canto di maggio inoltrato. Ora figlio della santa vergine , figlia dell’umanità intera figlia della volontà di riscatto seduta tra panche polverose , sopita nell’orazioni nel miracolo che non avvenne. Or su meglio levare l’ancora ed andare oltre ciò che ci siamo detti , oltre ciò che siamo stati . Figli dell’amore venale , figli del viaggio , simili ad un fanciullo che dorme tra le braccia della madre la in quella piccola stanzetta dove il male teme l’amore dove ogni cosa si ferma innanzi al giudizio divino . E nell’inizio di un amore di maggio coraggio mi son detto io sono vicino al tuo cuore , ti sono vicino battendo le ali , nel lento battito del cuore , nel tempo che scorre , nello schioccare dei baci nell’abbraccio di cristo all’umanità redenta ai piedi della sua croce di legno.
L’INVENZIONE DELLA FELICITA’
In una grande metropoli situata dentro i nostri sogni , dentro un mondo immaginario che ci invita alla comprensione abitata da trenta milioni di persone viveva un vecchio inventore che vendeva piccoli robot domestici che aiutavano a fare le faccende di casa. Il vecchio inventore era stata a suo tempo in gioventù , una delle menti più brillanti di quel lontano pianeta della costellazione del cigno. Era stato quello che un uomo può essere o può sognare d’essere. Un giorno con i suoi automi esposti fuori il suo piccolo negozio passò un grasso turista d’un pianeta vicino in cerca di qualcosa d' originale da comprare . Visto i piccoli robot muoversi , fare cose a dir poco straordinarie, volle comprare a tutti costi quei piccoli automi , donando al povero vecchio inventore un assegno con tanti zeri che l’avrebbero reso finalmente capace di comprare ciò che aveva sempre sognato per sé un disco volante . Con quella navicella avrebbe potuto finalmente esplorare e conoscere l'intera galassia. Giungere in luoghi inaccessibili dove esistono luoghi straordinari ,dove il tempo è relativo nel divenire e scorre cosi lentamente che si diventa longevi al punto da ritornare giovani per sempre. In cuor suo il vecchio inventore con quell’assegno in mano stretto , nel pugno della sua mano avrebbe voluto partire subito alla ricerca di quel mitico luogo, di quell’eden ove vive il gatto ed il lupo dove la vecchiaia copula con la giovinezza. Provare a cercare in poco tempo il punto in cui avrebbe potuto attraversare l’universo per ritornare indietro nel tempo per ritornare ad essere giovane ed essere immune dalla morte che incombeva sulla sua esistenza. Una morte che l’aspettava sbattendo il piede per terra con fare impaziente. Quell’assegno lo stringeva forte al petto , sembrava una croce d’orata con tanti zaffiri che splendeva sul suo petto, sembrava un aquilone che si librava nel vento portandoti lontano , oltre ogni sconfitta , oltre ogni dolore. La vecchiaia i ricordi d’un tempo passato che nulla gli aveva donato se non tanto lavoro se non la gioia nell’inventare quei strani automi meccanici cosi perfetti , cosi uguali a se stesso. Una forza incredibile aveva mosso la sua mente e le sue mani nel creare quelle macchine, ma forse non era stato lui ad inventare quei automi e tutto era stato all’incontrario era stato un automa insieme ad altri robot ad inventare lui , Le macchine avevano creato quel vecchio inventore, avevano creato una intelligenza superiore , qualcosa assai simile alla divinità.
Piangeva il vecchio inventore nel ricordare cosa era stato, piangeva bagnato dalla pioggia , dentro un diluivo , nella sua misera vita che correva via , verso mondi sconosciuti ed i suoi pensieri erano leggeri come nuvole nel cielo , si confondevano con tante altre vite che avevano sognato un esistenza diversa. Una felicità fatta di poche cose , di pisolini pomeridiani , di pranzetti succulenti ,passeggiatine tra i monti per spiagge deserte , trombatine, sveltine a poco prezzo . Piaceri , passioni ,pensieri felici che il tempo ci porta via , che tramutano le nostre passioni , lasciandoci soli mezzo a una via increduli di cosa siamo diventati. Il vecchio inventore si accorse così , che aveva inventato di tutto tranne la felicità ed ora , che era ricco ,si sentiva solo , cosi solo come mai lo era stato ,cosi solo da non poter dividere quell’intelligenza con nessuno , s’accorse di non aver inventato quella cosa assai importante lungo la sua vita , l’amicizia la comprensione il senso dell’essere umani e non macchine . Cosi comprese di non essere mai stato in grado di diventare felice, forse famoso, forse uguale a tante persone che conosceva , che avevano poco , ma erano felici di svegliarsi di mattino presto di andare a lavoro, di ritornare a sera a casa dalla propria famiglia. Cosi come il vento spinge il volo degli uccelli e li conduce dove ogni cosa può divenire qualcosa di meraviglioso , tale da poter dire che bello vivere , bello essere se stesso. Il povero vecchio inventore dovette ammettere in cuor suo d’essere stato sempre infelice sempre ad un passo dal comprendere il bene ed il male , dal raggiungere una felicità che come il volo degli angeli, come il tempo che passa e porta via guerre e morte , lui non aveva mai conquistato , né posseduto mai la felicità.
Ed il povero inventore , cosi con quell’assegno con tanti zeri invece di recarsi a comprare una navicella spaziale che l’avrebbe condotto lontano, tanto lontano ove avrebbe potuto attraversare qualche buco nero , lo spazio ed il tempo, avrebbe potuto divenire , giovine di nuovo , sconfiggendo la morte, l’ignoranza ,l’incredulità , l’incomprensione raggiungendo cosi in un certo qual modo la felicità . Il vecchio inventore aveva solo sognato d’inventare migliaia di nuove vite, esseri perfetti , capaci di compiere cose assai utili. Aveva sognato di vivere e d’essere qualcosa di superiore di simile ad un arco teso a quella patatina assaggiata sotto l’arco della pizzeria. Mentre la gente si bacia si abbraccia mentre scende la pioggia il vecchio risaliva l’inferno verso il paradiso nell’ipotesi di un reato di un sogno conquistato incolume nel peccato il vecchio mostro i denti alla vita e la vita gli mostro il suo sedere. Ed il turista di passaggio sul suo pianeta aveva compreso che quella sua grande invenzione ,era la volontà del vecchio inventore di essere lui , quella macchina perfetta che egli costruiva , che non provava, nè gioia , nè dolore ed era eternamente felice.
Il tempo passa ed invecchia , ride alle nostre spalle, ci mostra cosa siamo diventati , cosa eravamo , cosa siamo , ci mostra il mondo , come noi lo vogliamo vedere e desiderare , ci mostra pianeti ed universi meravigliosi , amori irraggiungibili cosi dolci , cosi belli che il povero vecchio inventore incominciò tutto ad un tratto a piangere nel ricordare ciò ch’era stato , cosa era diventato , il tempo è relativo nel suo scorrere , relativo nel dolore, nella gioia, nelle tante vite incontrate. E tutto è nulla ed il nulla è un tutto , che ci conduce a credere ad essere per un attimo felice di ciò che siamo, di ciò che potremmo essere e divenire. Questo dato di fatto ha nome umanità , ed è una grande invenzione. Basta poco per averla , basta chiudere gli occhi ed immaginare d’essere noi stessi in un luogo meraviglioso , d’essere grandi , piccoli, diversi da ciò che siamo , da ciò che potremmo divenire, la felicità è una chimera, un personaggio di una buffa commedia, un eroe senza tempo , una stella errante , una utopia , un credere , un sorriso di una bella ragazza , una bella canzone che ci porta via con lei, lontano cosi lontano da essere per un momento felici con noi stessi, cosi felici di aver compreso il necessario che basta , per esserlo per sempre.
CANTO DI UN INDIANO METROPOLITANO
Le bugie hanno le gambe lunghe, forse ne hanno tre, non hanno il senso della misura , neppure il senso di essere eterni ma in ogni riscontro culturale si ripercuote in quello che crediamo certi nel contrapporsi ad ogni costo ad una realtà soggettiva . Una dimensione operaia , frustata, messa in croce venduta per pochi spiccioli vissuta laggiù in strada rincorrendo le farfalle dalle ali d’oro . Inseguendo sogni e speranze. Ed in ogni luogo noi viviamo, emerge in noi un punto interrogativo che ci lascia inermi contro la nostra volontà. È siamo fatti ad immagine di un dio troppo bello o troppo piccolo per accoglierci sul suo seno , che può generare a volte un malinteso , una forma bisessuale che imbocca ogni coccola e può divenire un grappolo alla gola . E questo grande gioco fatto di forme e di cose che non hanno senso ci lascia meravigliati in un faticoso divenire.
Un vecchio sedeva sulla panchina di un giardinetto pubblico era convinto che quel giorno andava tutto bene così si girò sui tacchi e rendendosi conto del male che saliva lento dal ventre della città si tolse il cappello ed aggiunse :
E ti pare una cosa bella rapire questa estasi che mi cambia l’esistenza ? ho sempre tifato Napoli ed ora che ho le tenebre alle calcagna una gomma da masticare che mi cade dalla bocca insieme al canto dell’allodola. La ricchezza è una tenera ebrezza , meglio se fossi emigrato nei paese bassi ma alle tante disgrazie non c’è mai d’ anteporre un vaso di fiore . Mi scuote questa sfiga mi sfiora e corre in me fino a condurmi verso quel maestoso camposanto.
Meglio forse essere rinato dal nulla, parte dalla polvere che sparsa nel vento e giunta fin qui nella vigilia di Pasqua senza rimpianto con l’onore di essere compreso nel fare quello che mi pare con tutti i miei anni trascorsi da solo , confesso sono rimasto bambino.
Il vecchio aveva all’incirca settant’anni portati male come la gomma di un auto che si sta consumando che presenta un imperfezione linguistica. Il vecchio si chiamava Albert ed era del Massachusetts ed era venuto in Italia perché doveva sbrigare una commissione per il governo degli Stati Uniti ed il vecchio la sapeva lunga , oltre alla barba aveva uno stuolo di medaglie che lui mostrava a chiunque andasse a trovarlo. Era buono il vecchio Albert aveva viaggiato in lungo ed in largo per l’ intero globo terrestre in veste d’infermiere aveva diagnosticato tante malattie, ne aveva curate a milioni. Aveva conosciuto da vicino la pelle di tante popolazioni ed il dorso dei scarafaggi che volano nell’ aria di maggio con in dorso , palle di sterco. Ed Albert era contento di vivere a Napoli precisamente a monte di Procida su un picco d’ una collina dove si poteva vedere il mare e le sirene danzare nell’ acque limpide d’un sogno di un dio morente. Dalle sue mani volavano le immagini della sua vita , ed era difficile capire se il vecchio Albert scherzasse o facesse per davvero quando diceva chi te muorte chi te stramurte , maledetto il giorno in cui ho comprato questa casa . Maledetto il giorno in cui mi sono innamorato di una italiana precisamente di una napoletana . Io, che ò pesce non mi è mai piaciuto e penso sempre al Massachusetts ai suoi grandi prati verdi. Rammento le vacche per i prati fare l amore con tori novelli nell’eco di una lirica legato ad un sogno giovanile di un mondo bello come il cubo dove la donna siede con le gambe aperte.
Una vita tra sogno e realtà, tra quello che credi giusto o sbagliato, tra un panino ed un sorriso, tutto scorre anche la vita del vecchio Albert che ne ha viste di cotte e crude, come quella volta che volò sopra l’Africa e vide gli elefanti rosa volare , vide una scimmia andare dal parrucchiere e ridere di un altra scimmia , perché si era fatta le trecce bionde. E la vita scorre come un fiume , come quelle lacrime sulle rose gote di una fanciulla perduta nei suoi sogni e nella speranze di un esistenza migliore si apre questo sipario sulla sua sconosciuta storia di soldato e di padre d’infermiere e di sacerdote del dolce far nulla. Le giornate trascorrono pigre in casa di Alberto che a volte fa fatica ad alzarsi dalla poltrona, per cercare la bottiglia dell’alcool , per farsi la siringa nelle natiche bitorzolute, rappellati , mitocondri che strisciano nella propria genetica , surreali figlio di microbi meditabondi che trasportano da cellule amorfe ad altre cellule impazzite il grasso di città, il gas che alimenta una fiamma , forse la vita in quel corpo decadente che stenta a stare all’in piedi . Albert figlio di un Apache della tribù di cervo ferito , figlio di una figlia dei fiori dell’indiana che amava decantare ai quatto venti cosa significa essere liberi in America che s’innamora tutto ad un tratto di quello strano indiano che non sapeva parlare bene l’inglese. Di nome Gufo ferito che ogni volta che la vedeva s’alzava in volo e adorava manitù come pochi. Ed era un grande ubriacone, gufo ferito beveva Whisky di sottomarca e faceva la spola tra la riserva in cui abitava ed il paese dove viveva la sua amante . La mamma di Albert era bella cosi bella che sembrava un girasole impazzito al sole isogenetico dell’America ribelle. Un raggio di sole che penetra la terra e fa sbocciare magici fiori da quell’arido deserto .
I fiori nascono e muoiono si piegano alla forza del vento si piegano alle tante domande a chi ne sa più ne metta con chi gioca con il destino altrui , come una domanda bollata fatta per essere trasferito in un altro nosocomio in un altro continente . Ed il vecchio Albert era il figlio di un indiano Apache detto Gufo Ferito e di una figlia dei fiori perdutamente innamorata degli indiani del sole di manitù . Che rideva quando girava intorno a quell’idolo di legno , saltellava porgeva l’altra guancia cercando un senso alle proprie disgrazie . E quando nacque Albert piccolo rosso e bianco , dai capelli biondo quasi argenti con tante lentiggini come se avesse l’allergia di maggio. Fu un onda di sentimenti strani che ti entrano dentro il corpo nel vederlo . La madre di Albert Lidia era cosi contenta che ringraziò manitù poi Allah e poi nostro signore Gesù di aver avuto un figlio maschio che il nonno indiano piede storto figlio di toro zoppo fece dare una festa immane e cosi opulente , piena di pietanze di ogni genere che rimase nella memoria indelebile delle generazioni future. Un tempo felice che rimarrà nel ricordo immemore di quanta roba furono capace di ingurgitare , di divorare, di bruciacchiare sulla fiamma ardente dei falò . Sotto la calma tonda luna, del deserto nell’accampamento degli Apache della tribù di Toro zoppo in molti si giocarono numeri a lotto , altri finirono per ubriacarsi e fare l’amore strano , ma proprio strano dentro una tenda laggiù vicino al fiume che passa e conduce alle miniere d’oro e d’argento.
Lidia non avrebbe mai creduto di partorire un cosi bel bambino, rosso , biondo e rubicondo che sapeva già dire augh e salutare con la manina alzata come i romani de Roma. Il bimbo sapeva sorridere e tirava forte al suo seno quel latte materno che ti da forza, tanta forza. Bello Albert piccolo mezzosangue crebbe in svelta giocando agli indiani dentro l’accampamento e qualche volta andava insieme a caccia con il nonno Piede Storto .
Nonno cosa significa essere pellerossa
Noi ridiamo ed amiamo la natura siamo indiani
Forse mi prendi in giro
Una penna d’indiano non indietreggia davanti nessun pericolo piccolo cerbiatto
Anch’io un giorno sarò grande come te
Il vento e manitù ci conducono dove il sole tramonta ,
dove le parole emergono dall’animo afflitto della natura
Io sono fiero d’essere un indiano
Noi viviamo per morire, a volte per essere liberi , per essere noi stessi
Ed un giorno i nostri avi ci porteranno nei loro pascoli , sempre verdi ed andremo a caccia insieme, del bisonte.
Nonno non svegliarmi , ma dammi una pacca dietro la schiena voglio continuare a sognare
Non dormire troppo chi dorme troppo non prende pesci
Scendo lungo il fiume e con l’alba mi alzo, combatterò con orgoglio la mia guerra.
Siamo rimasti in pochi un tempo tutte quello che vedi era nostro, fin dove calava il sole , fin dove nasceva la luna e le stelle luccicavano sul nostro cammino ed il cavallo ci portava verso terre meravigliose dove lo scoiattolo saltava tra ramo in ramo fin dentro le foreste fitte dove abitano le belle squaw
I ricordi di Albert sono immagini che emergono da un vaso di pandora ora Albert naturalizzato napoletano gli sembrava assai ridicolo stare in quella veste di paesano coatto. Considerava quella sua nuova condizione una maledizione lui in divisa , al supermercato in cerca tra gli scaffali di una crema per far ricrescere i capelli e la moglie Giuseppina originaria di bacoli gli dice :
Albert salta la coda non perdere tempo tra quei scaffali
Ma non posso stare mai in pace ora divento un indiano furioso
Non perdere il controllo, oggi ti ho preparato pasta e fagioli
Buono con molto pepe ed un bicchiere di vino questo primo maggio sarà una gran festa
Più tardi facciamo l’amore lo faremo assai strano Albert come piace a te a testa in giù all’indiana
Giuseppina acciuffi questo pesce guizzante come in un sogno tra i miei pensieri, vorrei donarti una calda pelliccia di bisonte nero per i tanti baci dati
Marito mio se non ti sbrighi il supermercato chiude e noi rimaniamo dentro
Sempre di fretta , sempre di fretta napoletanamente di fretta.
Giuseppina piccola tonda , rossiccia molto simile ad una squaw della tribù dei Sioux, una napoletana verace tosta iscritta al partito comunista d’adolescente da quando persa la sua verginità con uno scellerato ragazzo che faceva il cameriere in una pizzeria del centro , da quando c’era Berlinguer sempre in prima fila a combattere contro i soprusi di una società grassa e spregiudicata che ama sedersi a tavola senza dividere il bene culinario con il gatto malandrino che sa suonare il chitarrino e porta l’orecchino . Ed Albert aveva una gran voglia di ritornare in America nella sua terra di origine ritornare in seno alla sua tribù di indiani piedi neri che si davano il cambio quando la luna calava o quando il sole si spogliava e rimaneva nudo lassù in cielo tra le nubi sopra un bianco deserto. Una prateria infinita , madre di tante cavalcate che cuoce il cervello in aforismi segreti e naturali che fanno fischiare la serpe e ragionare il ragno peloso. Ma se la terra è madre dell’anima , luogo mitico in cui si nasce e sviluppa in noi una propria utopia un luogo