Esercizi di magia: Le avventure di mago Ernesto, ovvero l’importanza di chiamarsi Carota
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Collana Presagi: narrativa fantastica
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Esercizi di magia - Enrico Falconcini
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Acconcia, pretestuosa e vacua premessa
Molto si è dibattuto sull’importanza di chiamarsi Ernesto, tanto che crediamo inutile dilungarci su questo troppo esplorato e, appunto per questo, sconosciuto tema; ci limiteremo, rifuggendo il più possibile ogni chiarezza espositiva (che ci pare abitudine totalmente incivile e poco colta), a informarvi, con cristallina e onesta opacità, che spesso è sufficiente un nome per accomunare l’essere e il sembrare; per fare di due distinte categorie un’unica cosa, per amalgamare completamente, quanto misteriosamente, due liquidi assolutamente non miscibili. Conseguentemente, il nostro esemplare eroe, il nostro bipolare e goffo protagonista, il nostro crepuscolare e innocente gaglioffo (in assoluta e coerente contraddizione di sé e della stessa struttura logico-narrativa) è anche un verace e sfortunato Rosso Malpelo; non solo un solido Ernesto, quindi, ma anche un semoloso Carota, un sapido, ma inconsistentemente tragico, Bunburry.
In questa palese dicotomia, in quest’acerba contrapposizione, sta, come un cane nella sua cuccia, o, se preferite, una pulce nel suo cane, il vero punto cruciale, l’amaro succo, il midollo profondo e sanguinolento di questa candida ma laida lettura, di questo accadimento drammatico e sostanzialmente risibile, di questo piccolo mare, placido e turbolento, nel quale, cari lettori, vi invito a naufragare; qualsiasi età voi abbiate o, soprattutto, riteniate di avere.
1. Nascite indesiderate e canti notturni, ovvero l’inizio della storia
In genere le storie hanno un inizio; anche questa, naturalmente. Il problema è scegliere quale. Potrebbe essere un luminoso giorno di maggio verso le dieci di mattina, quando, in una povera casa, una gracile donna di nome Assunta partorì un paffuto bambino rosso di capelli; tuttavia potrebbe essere anche, un po’ più tardi quando, quello stesso giorno, un grosso uovo rosso, screziato di giallo, si schiuse tra pietre e sterpi in una desolata valle delle montagne Sassose.
Le due creature venute al mondo, le due nuove candide anime catapultate senza colpa in questa terra crudele e difficile, in questa valle vorticosa e ingrata, non furono per niente bene accolte.
«Un orribile marmocchio rosso di capelli!» bofonchiò un omone rozzo e baffuto, scuotendo la testa e guardando con astio una sfinita donna Assunta. «Una vera disgrazia per tutti noi, un’inutile, vorace bocca da sfamare.»
«Un ridicolo draghetto verde smeraldo!» disse, poco più tardi, nel sibilante linguaggio dei draghi, la gigantesca Vanda la Grigia, detta anche l’ammazzauomini. «Una vera disgrazia. Con questo stupido colore non spaventerà neanche un passero. Non credo valga la pena allevarlo.»
No, non ci siamo. Scordatevi quanto abbiamo detto. Il vero inizio è quello stesso anno, una sera di qualche giorno prima quando, in una radura di Bosco Antico, nell’aria tiepida che già odorava d’estate, sotto un cielo di velluto nero trapunto di stelle scintillanti, tra alte erbe, arbusti e fiori selvatici, per la prima volta nella sua giovane vita, un giovane grillo ebbe voglia di cantare.
Certo, direte, questa è una cosa che capita a tutti i grilli, come può constatare chiunque nelle calde e rumorose sere d’estate. Noi, che pure siamo fortemente restii a dare ragione anche a chi ce l’ha (ritenendola un’abitudine fortemente diseducativa), in questo caso, non possiamo permetterci di negare; tuttavia, sappiate che l’ortottero in questione non è proprio come tutti gli altri; è un grillo del tutto speciale, un grillo parlante, un discendente di quello che, per sua disgrazia, consigliò un burrattino molto bugiardo e molto indisciplinato.
Un grillo, il nostro, come del resto quello della favola, curiosamente più portato al ragionamento che al canto notturno; un grillo che, in quella bellissima notte, invece di piegarsi all’istinto prepotente, che pure sentiva, cominciò a saltellare nell’erba e a fare a chiunque imbarazzanti domande.
Domande sull’esistenza, sulla natura e sul mondo. Domande difficili, non solo per tutti gli uomini, che dicono sempre di saper tutto e non sanno mai nulla; ma, anche, per gran parte degli animali.
«Non te ne verrà niente di buono» lo ammonì una vecchia volpe rossa un po’ spelacchiata: «Non si può ignorare così la vecchia tradizione del canto.»
«Non te ne verrà niente di buono» gli disse una grassa lumaca viscida: «Non fa mai bene reprimere gli istinti.»
«Non te ne verrà niente di buono» gli suggerì un giovane arruffato passero dal becco giallo: «Sappi che i grilli trovano una compagna grazie alle loro serenate; quindi, se continui a fare domande invece di cantare, tu rimarrai solo.»
«Ma io devo sapere come vanno le cose nel mondo» rispose l’ostinato insetto. «Devo conoscere la realtà che mi circonda, superando l’estremo inganno dei sensi, rinnegando il prepotente ma superficiale dominio degli istinti.»
«Questo, amico mio, non ti porterà la felicità» concluse il passero scuotendo la testa.
L’interminabile notte lasciò il posto a un rosato mattino e, mentre la luce del giorno penetrava a fatica l’ombra dei rami, un grillo stanco, pur non avendo cantato una sola nota, si rese conto che gli rimaneva una sola una cosa da fare: cercare qualcuno, persona, animale o cosa, che conoscesse tutte le risposte.
Cacciare sulle montagne sassose era il principale, i maligni dicevano l’unico, divertimento del Cavalier Goffredo detto Sparafreccia; tuttavia, quel giorno faceva notevolmente troppo caldo. Il prode cavaliere smontò esausto da cavallo, per ripararsi all’ombra di un grande masso. Nel fare questo l’occhio esperto del grande cacciatore vide qualcosa muoversi tra le rocce. Il cavaliere prese subito l’arco e si fece attento. Di nuovo un rapido movimento, qualcosa di verde comparve e scomparve in un attimo. Sparafreccia sorrise, posò l’arco e prese del cibo dalla bisaccia; quindi lo depositò per terra e si allontanò. Un draghetto verde denutrito e macilento uscì dal suo nascondiglio a raccoglierlo. La terribile fame gli faceva vincere anche la tremenda paura. Il cacciatore lo lasciò mangiare, poi prese altro cibo e lo depose per terra ma più vicino a sé. Il draghetto si avvicinò. Sparafreccia lasciò di nuovo che finisse il cibo e ripeté più volte il gesto avvicinandosi sempre più all’affamata creatura.
In mezzo all’immenso e antico bosco, all’imponente intreccio dei rami, alla natura integra e selvaggia, c’era un formidabile castello dall’aspetto decadente; le mura mostravano evidenti segni di continui rattoppi, i tetti stavano su per miracolo e la torre principale... sì, va bene, anche quella stava in piedi, ma solo quel poco che ne restava.
Il vecchio laboratorio del mago Zerbino era un grande e oscuro locale nei sotterranei di quel castello imponente e malandato. Sul pavimento lercio alcuni ratti gironzolavano in cerca di cibo. Sulle pareti, a coprire crepe sospette, c’erano manifesti con maghi e streghe e una bella targa colorata: Federico Zerbino mago dei maghi di Petronia diplomato presso la facoltà di magie e bugie della reale Università di Pietramagica.
Tra immense ragnatele, curiosi recipienti, pentoloni ed alambicchi sporchi, molti libri dagli strani titoli: Riti a rate, filtri e flirt, Guida fiscale per il mago accorto, Fatture senza fattura...
In un angolo della stanza un mozzicone di candela illuminava un vecchio libro aperto su uno sghembo leggio. Un vecchio decrepito con una lunga barba, una lunga veste e un lungo cappello a cono, lo osservava, guarda caso, lungamente.
Si sentì battere alla porta. Un pipistrello molto scocciato, appeso all’enorme soffitto a volta, pensò: «Mai un riposino tranquillo... neanche in pieno giorno!»
Il vecchio mago smise di girare le polverose pagine del libro. «Chi può mai essere a quest’ora?» dopodiché, con molta calma, andò ad aprire il vecchio e cigolante uscio. Il mago non vide nessuno e richiuse perplesso. Di nuovo bussarono alla porta, di nuovo Zerbino aprì, di nuovo non vide nessuno. Questo successe altre tre volte; poi, quando lo stregone stava già pensando ad arcani e sinistri misteri, si udì una vocina sottile: «Signor mago, guardi in basso, per favore.»
In effetti in basso c’era un minuscolo grillo con un parapioggia in mano.
«Che diamine! Un grillo parlante. Ti riconosco dall’ombrello.»
«Sì. Una vecchia tradizione di famiglia.»
«L’ombrello?»
«No, parlare.»
«Come sei entrato nel castello?»
«Non è difficile per un grillo passare inosservato.»
«No, suppongo di no. Questo però ci porta alla domanda principale. Cosa diamine vuoi da me?»
«Imparare, grande mago. Imparare.»
«Bellissima cosa, naturalmente. Tuttavia, non me ne voglia egregio signor grillo, imparare cosa, per la precisione?»
«Imparare tutto.»
«Proposito un tantinello ambizioso, direi.»
«Ad esempio, questa notte, mentre l’istinto mi diceva di liberare il mio aggraziato canto, guardavo il cielo meraviglioso e ho notato che quelle luci, che tutti chiamano stelle, non sono fisse, si muovono, si spostano lentamente da est verso ovest. Si alzano dalle lontane colline, salgono, salgono, poi scendono dalla parte opposta dove si trova il grande mare. Solo una stella mi pareva ferma guardando verso Nord e alcune, ne sono sicuro, girano intorno a questa, facendo un cerchio, senza scendere mai sotto l’orizzonte.»
«Eccellente osservazione, ma cosa vuoi sapere?»
«Cosa sono quelle cose luminose che si muovono in cielo, ad esempio.»
«Le cose luminose, l’hai detto tu, si chiamano stelle.»
«Questo lo sanno tutti, ma questo è solo un nome.»
«Sì hai ragione, è solo un nome; io credo che il cielo sia un tessuto nero pieno di buchi che fanno trasparire il grande fuoco che c’è dietro, non ne so molto di più. A me interessano i disegni che le stelle fanno nel cielo... Quelle figure che si chiamano costellazioni.»
«Scusa, perché ti servono tanto?»
«Il mio mestiere... Me ne servo per gli oroscopi, per capire il destino degli uomini, il loro carattere e le loro fortune.»
«La cosa funziona?»
«Rimanga tra noi, signor grillo. Io non ci credo molto, anzi non ci credo per nulla; preferisco la magia classica, sul tipo, mi perdoni l’esempio, trasformare un grazioso grillo in un pungente carciofo. Tuttavia l’astrologia è una cosa molto popolare... e mi pagano per questo, per fare oroscopi, intendo.»
«Grande mago, prima di trasformarmi in un carciofo, potrebbe almeno insegnarmi qualcosa?»
«Sugli oroscopi?»
«No, su come funzionano le cose del mondo.»
«Lei mi piace, signor grillo, e in fondo io ho bisogno di un assistente, fosse anche un minuscolo assistente. Dai, grillo, sali sulla mia spalla.»
Nel cielo rossastro del tramonto l’enorme castello in mezzo a Bosco Antico, quello di cui abbiamo già conosciuto i sotterranei, aveva un aspetto spettrale. I saloni illuminati erano ferite di luce nelle scure mura.
Da una grande finestra si vedeva una sala del trono enorme, dove un re basso di statura e obeso stava discutendo vivacemente con la regina sua moglie, un donnone grande e grosso dai capelli color stoppa e dai tratti decisamente mascolini.
Nella grande sala c’era un trono di legno più tarlato che intarsiato, una tappezzeria rattoppata e un pavimento coperto da tappeti lisi e pieni di buchi. Sulle pareti facevano mostra di sé arazzi stinti oltre agli immancabili, orribili ritratti degli antenati.
Non spaventatevi troppo, ritratto in armatura e posa eroica, ecco il truce conte Torsolo detto anche Nasolungo; poco oltre, in ricchissimi abiti, immortalata sulla tela da un pittore dal dubbio talento, la giunonica e ghignante marchesa Filippa Canaponi; ultimo nella sala, coperto di ermellino e schiacciato in una prospettiva molto discutibile, il padre dell’attuale sovrano, un omino dallo sguardo vuoto e innocuo, il recentemente defunto re Ugone terzo, detto anche il Pesce Lesso.
Il figlio del pesce, l’avannotto sovrano, re Carlo, detto Tortellone, stava parlando: «La nostra regale figlia, la principessa Biancastarna ci preoccupa davvero molto.»
La regina sua moglie lo guardò sorpresa: «Ti preoccupa, casomai. Io sono tranquillissima, Carlo!»
«Ci nel senso di mi. Era un plurale maiestatis, Anastasia!»
Mentre i sovrani parlavano, diversi cani scorrazzavano per la sala rincorrendo un gatto assai arruffato. Il gatto saltò su un armadio, i cani che lo inseguivano abbaiarono e frenarono; il più aggressivo sbatté con fragore, e probabilmente dolore, il naso nel mobile, che, contraddicendosi alquanto, rimase piuttosto immobile, al massimo oscillò un poco.
«Ma, ma... scusa...» continuò la regina. «Perché tale preoccupazione, mio splendido e regale marito?»
«Sai, da