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Città ingrata
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E-book308 pagine4 ore

Città ingrata

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Info su questo ebook

Un uomo, la città della sua giovinezza, un amore perduto. Al limitare della conradiana linea d’ombra che segna il distacco fra la gioventù e l’età adulta, Andrea viene catapultato per caso in una vicenda che sconvolge il suo equilibrio, raggiunto dopo molte peripezie. Capitato in città per ricevere un’eredità inaspettata, si troverà in bilico fra un passato che lo ghermisce inesorabilmente e un futuro che rischia di travolgerlo. Pamina, la donna amata e irraggiungibile da cui era fuggito, lo trascinerà in un susseguirsi di emozioni e di eventi dove non si riesce a distinguere il vero dal falso, e nessuno è quello che sembra. E la città di provincia, subdola, amara e turpe, lo ingoia nelle sue spire.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2016
ISBN9788898894840
Città ingrata

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    Anteprima del libro

    Città ingrata - Giorgio Diaz

    guerriero

    I

     Ero tornato in quella città, dopo anni che me ne tenevo lontano, per rimanervi il meno possibile; anzi, inizialmente avevo intenzione di sbrigare tutto in una giornata e ripartire la sera stessa. Quella strana frenesia, che mi prendeva quando ero lontano da casa non per mia scelta ma per qualche imprevisto obbligo, si era impadronita dei miei pensieri non appena sceso dal treno e ora mi incalzava, spingendomi a sorvolare su qualsiasi complicazione potesse sopraggiungere. Ma, dopo il colloquio con il notaio che mi aveva prontamente ricevuto, senza farmi aspettare un solo minuto, mi resi conto che sarei dovuto restare almeno una notte, in attesa che tutte le carte fossero a posto, per concludere nella mattinata, o tutt'al più nel primo pomeriggio del giorno successivo, ed essere di nuovo libero da impicci.

     Non che avessi qualche preoccupazione, o che ci fossero ostacoli all'eredità, tutt'altro; visto che mi sarebbe toccata una bella casa sul mare, come non avevo mai avuto, un appartamento arioso e luminoso in un quartiere residenziale a sud della città, la zona più bella con un mare ancora godibile.

     Certo, per abitarci avrebbe avuto bisogno di una robusta ristrutturazione, ma avevo già scartato l'idea di tenerlo, sia pure per le vacanze; troppo impegnativo, troppo costoso, ma soprattutto volevo stare alla larga dai miei vecchi concittadini.

     Avrei potuto venderlo con molto profitto e questa idea mi rallegrava. Del resto mi trovavo in una situazione assolutamente favorevole: altri eredi diretti o indiretti di quel mio vecchio zio non ce n'erano; avrei dovuto essere contento della sorte che mi aveva favorito.

     Invece provavo un certo, indefinibile fastidio, oltre alla irragionevole urgenza di ripartire, come se fossi stato chiamato in causa in una faccenda che non mi riguardava, se non in maniera indiretta; un malessere di cui non riuscivo a identificare pienamente la causa.

     Volevo liberarmene al più presto, di quell'eredità che pure era anche una testimonianza di affetto, e andarmene da Giulia, come se quell'appartamento rappresentasse un peso che mi costringeva a stare lontano da lei, un ostacolo al nostro stare insieme, che solo da poco si era realizzato.

     Perciò le telefonai subito dopo aver parlato con il notaio, e le dissi che mi sarei dovuto trattenere per la notte, ma che l'indomani, immancabilmente, avrei preso il treno del ritorno.

     Non avere fretta, mi rispose, Fai tutto quello che devi senza farti prendere dalla solita ansia, in modo che non ci debbano essere strascichi e ripensamenti. Al di là di tutto è un'ottima occasione per te, qualunque decisione prenderai in seguito. E io, lo sai, sono qui ad aspettarti.

     La morte dello zio, uno zio acquistato ma non per questo meno caro, mi aveva addolorato. Avevo molti ricordi della mia adolescenza legati a lui, senza figli e affezionato a me, ironico e dolce, che mi aveva insegnato tante cose, in quell'età ingrata. Ormai però era passato molto tempo da quando era successo, ed era così vecchio che mi era sembrato un evento del tutto naturale; e poi non lo vedevo da parecchio e quei ricordi erano leggermente sfumati. Ma lui mi aveva lasciato quello che aveva, e a cui teneva tanto, la casa con una grande terrazza su quel mare che sapeva quanto una volta avessi amato.

     Mi misi in cerca di un albergo dove passare la notte: senza tante pretese perché, appunto, si sarebbe trattato di una sola notte, e non valeva la pena spendere troppo, anche se in realtà mi sarei potuto trattare molto meglio; potevo permettermi una camera di ottima categoria. Ma quella apprensione che mi forzava a considerarmi di passaggio, mi induceva anche a ricercare un profilo basso nella mia permanenza in città, come se non volessi farmi assolutamente notare; ma chi avrebbe potuto farlo, dopo tanti anni?

     In realtà, poi, c'era un'idea che mi attirava, nascosta nella mente ma che aveva fatto capolino da subito; una vecchia pensione, che conoscevo fin dalla mia infanzia e che da sempre mi aveva incuriosito per la sua strana architettura, con archetti e guglie che facevano pensare ad un palazzo veneziano e con un intonaco color porpora che la distingueva dagli edifici intorno.

     Avevo chiesto al notaio se esisteva ancora e lui mi aveva detto che, anzi, era stata ristrutturata di recente; si trovava nello stesso quartiere della casa di mio zio, periferico ma facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. Inoltre, ricordavo, aveva il grande vantaggio di una posizione assai vicina al mare, su cui si affacciavano le camere nella parte anteriore, mentre sul retro aveva un giardino che confinava con una vasta pineta, e dove nella bella stagione si poteva fare colazione.

     Non era questo il caso, perché capitavo lì in autunno, con un clima grigio e piovigginoso; ma l'idea di quel luogo dimesso e un po' fuori mano mi sorrideva e, nonostante i lavori di ammodernamento, la categoria era rimasta modesta e il prezzo, come mi confermarono al telefono, più che accessibile.

     Mi resi conto, mentre viaggiavo su un tram nel tardo pomeriggio, con il mio ridotto bagaglio, un piccolo zaino con un ricambio di vestiti e i documenti per la successione, in cosa consistesse il mio disagio che man mano cresceva, nonostante la prospettiva di respirare da vicino l'aria marina e godermi con agio una notte di riposo, alla larga da tutto e da tutti.

     Era la città, i ricordi che mi spuntavano in testa, i luoghi che attraversavo, legati alla mia infanzia tenera e spaurita, alla sciocca adolescenza, alla giovinezza dissipata; era l'aria stessa che mi entrava nei polmoni quasi con impeto, ma che cercavo inconsciamente di respingere, come se fosse un alito di morte. Mi ritornava alla mente il perché ogni cosa in quella città, negli anni in cui ci avevo vissuto, mi fosse apparsa ostile, sepolta da una coltre di perbenismo, falsità, ipocrisia e infingardaggine, che invano avevo provato a contrastare; le sue strade, i suoi palazzi, la sua atmosfera apparentemente svagata e giocosa, le facce stesse della gente che incontravo, rappresentavano il simbolo stesso del rifiuto del mio essere, dei miei ideali presenti e passati, del mio amore perduto.

     Ora capivo a pieno il significato del mio turbamento, e ancor più cresceva la smania di far presto, di sottrarmi a quel luogo di fantasmi, di riappropriarmi della mia identità vera, quella che mi ero guadagnato nei lunghi anni in cui ero vissuto lontano e, dopo molte sofferenze, legate ai ricordi, ai rimpianti, alla nostalgia, ero divenuto, contro la mia stessa volontà, felice; come può esserlo un uomo che, a trentacinque anni, ha imboccato una strada che gli sembra libera da ingombranti vincoli e ostacoli, e non ha altri legami che quelli che lui stesso si è scelto.

     Con questo stato d'animo, chiariti almeno in parte i miei dubbi interiori ma oppresso da un'inquietudine che mi guastava l'animo, mi accinsi ad entrare nella pensione che mi aveva attirato e stuzzicato da bambino, ma che raffigurava anch'essa, come sullo sfondo, tanta parte delle mie sgradevoli rimembranze.

     Per un certo periodo, secondo i miei nonni e i miei genitori, di cui mi tornavano a mente le parole, era stata una locanda malfamata, dove loro sostenevano si potessero facilmente trovare donne di malaffare, e dove di tanto in tanto doveva intervenire la squadra del buoncostume, per violazione della legge Merlin. Poi forse, ma io non c'ero già più e capitavo solo saltuariamente per venire a trovare i parenti, le cose si erano assestate e la posizione amena aveva favorito una discreta attività turistica, durante l'estate; però quell'aura ambigua in qualche modo era rimasta a gravare sulla sua reputazione e chissà, nei mesi di magra, quali storie si erano svolte là dentro.

     Ora comunque la situazione doveva essere radicalmente cambiata, mi dicevo, grazie all'ammodernamento, alla nuova gestione; la donna con cui avevo parlato al telefono mi era parsa cortese e gaia, animata da senso di ospitalità. Sceso dal tram traversai il viale a mare e percorsi i sentieri ghiaiosi, costeggiati da aiole fiorite, siepi di oleandro e pitosforo, macchie di pini e lecci, isolate tamerici, che conducevano all'ingresso.

     Nella piccola hall non c'era anima viva. Mi guardai intorno. Il restauro doveva essere stato fatto in economia, senza molto gusto: pavimento scuro, pareti bianco sporco, un divano marrone in finta pelle con due poltroncine e un tavolinetto basso di vetro, qualche brutta riproduzione di quadri impressionisti qua e là, un bancone lucido color ciliegio, con dietro le cassettine per le chiavi. Una ventina di camere in tutto, calcolai: perlomeno si doveva stare tranquilli, senza il via vai degli alberghi; in quella stagione, poi, solo qualche viaggiatore di passaggio, come me, magari affezionato al panorama.

     Rimasi in piedi in silenzio, fermo ad aspettare, cercando di carpire eventuali rumori che testimoniassero una presenza, qualcuno che venisse ad accogliermi; non mi andava di chiamare, farmi sentire battendo la mano sul bancone, come mi fossi indebitamente intromesso in quel luogo. Dopo qualche minuto udii dei passi per le scale, di fianco a me, e una donna corpulenta, di mezza età, probabilmente quella che mi aveva risposto al telefono, mi venne incontro sorpresa.

     Buongiorno, dissi, Avevo prenotato una camera.

     Ah, è lei, mi rispose con la stessa voce affabile che mi aveva favorevolmente impressionato, Quello che mi ha chiamato poco fa. Mi scusi, ero salita ad accompagnare dei clienti. Ma poteva accomodarsi, nell'attesa.

     Grazie, sono qui da pochi minuti, non si preoccupi.

     Ecco, disse sfogliando un registro con poche annotazioni, Le ho riservato una camera con vista sul mare, come mi aveva chiesto. La accompagno.

     Non doveva esserci molto da fare, ma la sua disponibilità era sincera, come la cordialità del suo tono.

     È al secondo piano, venga, prendiamo l'ascensore. Lei ha pochissimo bagaglio.

     Beh, solo per una notte, e poi, quando sono partito, pensavo non ci fosse neanche bisogno di fermarmi. Ma posso salire a piedi.

     C'era un piccolo ascensore a sinistra delle scale, nuovo ma angusto, fortunatamente aperto, a vetri, e la donna insistette, così mi rassegnai. Per quella volta sola.

     Nel breve tragitto fece in tempo a chiedermi da dove venivo, se conoscevo già la città; risposi tenendomi sul vago, anche se le sue parole mi apparvero franche, prive di quella insinuante curiosità che in altre occasioni mi avrebbe fatto stare sul chi vive.

     Sa, qui abbiamo clienti specie nella bella stagione; ora, chi viene per lavoro preferisce alloggiare in città, tranne quei pochi che amano la quiete.

     Non stetti a raccontarle come era avvenuta la mia scelta, e soprattutto che quel quartiere, quella stessa pensione, mi erano familiari, fin da quando ero piccolo. Mi limitai ad annuire, in attesa di rimanere solo.

     La camera era spaziosa per una sola persona, con un letto a due piazze e un bagno sufficientemente ampio e all'apparenza pulito.

     Le ho dato una matrimoniale, così starà più comodo. Guardi, c'è un terrazzino, anche se il clima non è dei più adatti a stare fuori.

     Ringraziai e la donna si accomiatò. Mi chiami, se le manca qualche cosa. Basta fare lo zero e io rispondo. Quando scende, ho bisogno di un documento, glielo restituisco stasera.

     Chiuse la porta e io appoggiai lo zaino su una sedia e aprii la porta finestra che dava sul balcone; era piccolo ma ci stava un tavolincino tondo con due sedie ripiegate e appoggiate al muro, e subito, dato che non pioveva più, ne presi una e mi accomodai di fronte al mare. Cercai di evadere dai miei scuri pensieri ipotizzando dove sarei potuto andare a cena; conoscevo bene, poco distante da lì, una vecchia trattoria dove mio nonno era solito portare la famiglia la domenica d'estate, quando ero bambino, e dove poi più volte ero stato con quel mio gaudente zio, e quindi con amici e ragazze. Ma chissà se esisteva ancora. Lo avrei chiesto alla gentile signora, o forse meglio di no, magari me ne avrebbe voluto consigliare un'altra; sarei andato direttamente a verificare e semmai avrei ripiegato su una via più frequentata poco lontano, dove ricordavo che c'erano un paio di ristoranti.

     Avrei desiderato richiamare Giulia, ma non volevo farmi percepire troppo impaziente, irrequieto; le avrei telefonato più tardi, magari dal ristorante.

     Qualche raro passante girellava sul lungomare, sotto il cielo grigio, gli scogli erano battuti da piccole onde, che si frangevano delicatamente, ma con un effetto quasi sinistro per l'incupirsi dell'aria nella sera imminente. Le terrazze delle camere accanto erano deserte, probabilmente non c'era nessuno; mi chiedevo se addirittura ci fossero altri avventori, ma mi ricordai che la signora mi aveva detto di aver accompagnato dei clienti prima di me. Mi prese una certa rilassatezza, una quiete che scioglieva la tensione delle ultime ore, respingeva il malessere che avevo provato, rimandava l'urgenza di ripartire.

     Ero scontento di molte cose che avvenivano nel mio paese: la situazione politica infestata da una destra ottusa, vociante e sguaiata, la corruzione sempre più diffusa, il disgregarsi dei legami sociali, la superficialità con cui si affrontavano i più seri problemi, non solo da parte della classe dirigente, ma degli stessi comuni cittadini che sembravano aver dimenticato le banali regole della vita comune; ma avevo acquistato fiducia in me stesso, ed ero cosciente che c'erano ancora abbastanza persone che la pensavano come me, a partire da Giulia che mi aveva risollevato dall'aura di pessimismo in cui avevo rischiato di sprofondare. Perciò avevo imparato ad allontanare inutili elucubrazioni e a prendere in considerazione cose concrete, aspetti positivi della vita.

     Mi sentivo quasi libero su quel balcone, aguzzando la vista per distinguere le forme degli alberi, degli scogli, delle persone nella incipiente caligine della fine del pomeriggio, privo di tramonto, nella luce incerta che si offuscava.

     Rimanevo lì, seduto, quasi senza pensieri, come intontito dall'improvviso rivelarsi della mia libertà, inconsapevole perfino di dove mi trovavo, di quella città di cui fino a pochi minuti prima aborrivo ogni angolo.

     Non valeva la pena ricordare; troppi rimpianti, e non volevo rimpiangere, sarebbero spuntati alla memoria, come nuvole procellose. Bandire la nostalgia, per non perdermi nei meandri dei sentimenti ormai colati a picco, vascelli fantasma che un tempo non troppo lontano avevano solcato i ricordi per indurmi alla commozione. Tutto era cambiato, la vita, il lavoro, l'amore; e io ora mi trovavo in un luogo qualsiasi, in un giorno qualsiasi di una malinconica stagione che non scalfiva il mio umore, ad occuparmi di affari che avrebbero portato giovamento alle mie finanze e, nel preciso momento, a desiderare il tavolo di una tranquilla trattoria, pregustando una cena a base di pesci freschi e delicati del mio mare, quello che avevo davanti e ingrigiva lentamente nel cielo senza luccicore.

     Questo era il mio stato d'animo, quasi allegro e privo di inutili ugge, quando un crepitio di voci concitate attrasse la mia attenzione; crescevano, anche se non riuscivo a stabilire da dove esattamente provenissero e, come riprendendo conoscenza da quella pausa di leggerezza piccola e breve, anche se a me era sembrata assai lunga, mi concentrai nel tentativo di distinguere le parole che, in quello che stava diventando un frenetico urlio, continuavano a sfuggirmi.

     Maledetti! Un tuono fragoroso e infuriato balenò nell'aria. Un uomo, abbastanza giovane, forse al mio stesso piano, qualche balcone più indietro.

     No, no, lasciami!, era una donna, giovane, implorante. Ancora frasi incomprensibili, rabbia e preghiere. No, non farlo!, ancora la donna.

     Vieni qui, puttana! E lo sbattere di una porta, un sordo lottare con lampade in frantumi e mobili rovesciati.

     Che fare? Certo, chiunque fosse nei dintorni avrebbe sentito come me la furia e lo sconquasso; la signora nella hall più che mai. Ero ancora immobile sulla mia sedia, con l'orecchio teso, quando udii uno scoppio secco, possente, poi un secondo, e uno straziante grido di dolore. Quasi contemporaneamente, un battere frenetico alla mia porta, di pugni che, me ne rendevo conto adesso, avevano picchiato a tutte le camere precedenti, senza evidentemente avere risposta.

     Mi alzai di scatto e corsi alla porta, senza lì per lì pensare che i botti che avevo udito dovevano essere colpi di pistola, ed io avrei potuto trovarmi di fronte un pazzo armato pronto a colpirmi.

     Ma no, ero inconsciamente rassicurato dal fatto che gli spari, se tali erano, avevano seguito il percuotere della porta prima della mia. Aprii cautamente, mentre una figura tremolante spingeva con vigore.

     La prego, mi faccia entrare, con voce supplichevole ma risoluta. Non opposi resistenza, la porta si spalancò e il corpo nudo di una donna si catapultò all'interno.

     Chiuda, chiuda, per carità! Girai la chiave e mi volsi verso di lei, allibito. Si stava infilando sotto le coperte del mio letto e per pudore sollevai lo sguardo, sui lunghi capelli castani e lisci che incorniciavano un ovale perfetto e minuto, la fronte alta, gli occhi tenuamente marroni, il naso piccolo e ben fatto, le labbra lucide, un viso incantevole. Ero sbalordito e non riuscivo a credere ai miei occhi, né articolare parole. Stava sprofondata sotto le coltri, coprendosi fino al mento, saettava lo sguardo verso di me, stupefatta.

     Pamina, riuscii a dire in un sussurro.

     Lei non rispose, continuava a guardarmi come non mi conoscesse o aspettasse da me una spiegazione, ma si avvertiva il suo orecchio teso verso l'esterno, nel timore che il suo persecutore ci raggiungesse, sopraffacendomi. Ma i suoni, fuori, erano cambiati, solo ora me ne rendevo conto: sommessi lamenti, uno scalpiccio di fuga, il grido della signora. Cosa ha fatto? Poi, con insospettabile rapidità, una sirena che annunciava un pronto epilogo.

     Stavo ancora incollato alla porta. Non aprire, non aprire!, mi supplicò lei come se io avessi deciso di far entrare un assassino. Stai tranquilla, sta arrivando la polizia, e qui non entra nessuno.

     Parlavamo come se fossimo soltanto complici nel presente, e il passato non fosse mai esistito. Non potevo chiederle niente: anche io seguivo i rumori, percepivo gli indizi, aspettavo paziente la fine con gli occhi inclinati verso il corridoio, come potessi vedere oltre la porta chiusa.

     Poi, in un improvviso silenzio, la guardai dritto in viso, non più fuggevolmente, e ne fui sconvolto. Era lei, nulla era cambiato, la sua faccia angelica, tesa dalla paura, mi dava un senso di annientamento, lo stesso di sempre, ma volevo proteggerla, custodirla, di nuovo amarla, come se fosse passato un solo giorno.

     And those were the days of roses, poetry and prose 

     And Martha all I had was you and all you had was me. 

     There was no tomorrows, we'd packed away our sorrows 

     And we saved them for a rainy day",

     mi suggeriva la magica voce di Tom Waits.

     Andrea, mi disse scuotendosi dall'incubo, Scusami, non avrei mai immaginato. Si sentiva più sicura; passi rapidi, decisi, risalivano le scale, l'ascensore si apriva, voci ferme impartivano ordini, poi la sirena di un'ambulanza. Presto sarebbero venuti da noi, avevo poco tempo per ammirarla ancora.

     Pamina stava accucciata nel mio letto, con le coperte tirate fino al mento, non per timore che io la osservassi quanto per nascondersi a un invisibile inseguitore ma, avvicinandosi quei rumori, si riscosse e con tono quasi frivolo e civettuolo mi si rivolse guardandomi di sottecchi.

     Hai qualcosa di tuo che possa mettermi addosso? Non posso uscire nuda dal letto, quando arriveranno qui.

     Rimasi perplesso, come se quella richiesta fosse assurda, mentre non poteva essere più ragionevole; avevo nel mio zaino solo quel ricambio di abiti che mi ero portato per ogni evenienza, sicuro alla partenza che non li avrei utilizzati, e un pigiama. Le risposi imbarazzato, perché dentro di me avvertivo che questo significava la ripresa di un'intimità, per quanto dettata da un'oggettiva urgenza, e ne provavo insieme compiacimento e trepidazione.

     Se ti accontenti di una camicia e di un pullover, te li presto volentieri, e per fortuna ho anche un paio di pantaloni, ma sarai scalza.

     È il meno che possa capitarmi. Poi ricupererò le mie, ma intanto sarò presentabile. Non so come ringraziarti. Non avrei mai immaginato di incontrarti qui, combinata come sono. Spero che a te non dispiaccia, comunque non ho alternativa. E poi mi fa piacere rivederti.

     Sembrava non preoccuparsi più di cosa era successo, della sorte di quello che doveva trovarsi con lei prima del baccano e dello sparo, ma forse l'istinto di difendersi, di procurarsi la mia comprensione, prevaleva su tutto in quel momento e occultava la paura.

     Non sembrava imbarazzata né stupita di essere stata colta in quella disdicevole situazione, semmai ero io a sentirmi di troppo. E il fatto di farle indossare i miei vestiti mi riportava involontariamente indietro nel tempo, al sentimento di complicità e tenerezza che avevo provato per lei, nel periodo della mia vita che mi era apparso, fino a non molto tempo prima, come il più felice, per quanto tormentato, e troppo presto perduto.

     Però questa sensazione mi infastidiva anche, e la parte razionale di me avrebbe voluto cancellarla, per mostrarmi indifferente, offrirle aiuto, visto che si trovava in estrema difficoltà, senza esserne coinvolto. Invece cominciavo già ad accorgermi che ciò era impossibile, che qualcosa stava cedendo sotto i miei piedi come una botola che si apriva per inghiottirmi, e non potevo farci nulla: stava capitando e basta.

     Tirai fuori gli abiti sgualciti e glieli porsi, avvicinandomi ma quasi scostando gli occhi, per un insensato pudore.

     Sgusciò fuori dalle lenzuola senza indugio, come se io non esistessi, o forse fossi rimasto parte della sua vita e dunque autorizzato a qualsiasi confidenza; e mi sorrise, e allora io la guardai. Poi, rapida, si vestì.

    II

     Bussarono vigorosamente alla porta. Polizia, c'è qualcuno?

     Aprii dopo aver controllato che lei fosse in ordine, e un agente, pistola in pugno, si affacciò nella stanza. Dette intorno un'occhiata sospettosa, ma evidentemente il mio aspetto non gli parve preoccupante. Venga ispettore, qui c'è gente, esclamò rivolgendosi verso il corridoio.

     Pamina era in piedi, dietro di me, come dovessi fare da schermo alla realtà, buffa in quei panni che un po' la ingoffavano, ma che indossava con una grazia che la rendeva ai miei occhi incantevole.

     Venne un uomo tarchiato, sui cinquant'anni, con capelli corti folti e ingrigiti, la faccia piena, che sbuffava come una locomotiva. Appena la vide, capì subito quale doveva essere stato il suo ruolo e non perse tempo.

     Sono l'ispettore Carli. Spiegatemi cosa ci fate voi qui. Aveva un piglio da uomo sicuro ed esperto ed io mi accinsi a chiarirgli cosa era successo, ma Pamina mi precedette facendosi avanti e parlandogli con un'aria concitata, che pareva tirata fuori per l'occasione. Ispettore, io ero nella stanza di là con un amico, quando è entrato mio marito, sfondando la porta e minacciandoci con una pistola. Sono scappata perché lui si è gettato sul mio compagno, e mi sono rifugiata qui. Ma la prego, mi dica cosa è successo a Icilio. Ho udito degli spari e temo per lui.

     È ferito a un braccio, ma non è in pericolo, l'hanno già portato all'ospedale. Ora però dovete venire con me in questura. Anche lei prego, disse rudemente con lo sguardo severo.

     La prego, posso rimettermi i vestiti che ho lasciato di là, soprattutto le scarpe?, fece Pamina riprendendo il suo piglio leggero, evidentemente soddisfatta della parte che aveva recitato e dello scampato pericolo del suo Icilio.

     Sì, faccia pure, ma alla svelta, non perdiamo altro tempo. I fatti sembrano già abbastanza chiari, ma voglio approfondire certi particolari, e deve aiutarmi a ritrovare suo marito, prima che combini altri guai.

     Lei si incamminò nel corridoio e la aspettammo fuori della camera; la porta era sfasciata e dentro si scorgeva una grande confusione. Carli guardava il pavimento e ogni tanto mi gettava un'occhiata torva, credo non intenzionalmente. Mi sentivo un pesce fuor d'acqua, ma ora la mia preoccupazione era per Giulia; mi era balzata in mente all'improvviso e avrei voluta avvertirla al più presto, per raccontarle in che razza di disavventura mi ero cacciato, ma mi rendevo conto che tutta la situazione era assai difficile da spiegare: soprattutto come fossi capitato, per caso, in un intrigo di cui era protagonista proprio Pamina. Non volevo che Giulia si allarmasse, e poi era meglio aspettare che le cose si fossero chiarite anche per me, e io mi fossi liberato di tutti gli impicci della deposizione. Comunque la mia cena era saltata e temevo che avrei dovuto protrarre la permanenza a causa della mia posizione di testimone; ma forse era Pamina che mi preoccupava, visto come si era aggrappata a me fin da subito. La sua sola presenza mi turbava.

     Dopo un quarto d'ora, mentre Carli passeggiava nervosamente avanti e indietro guardando l'orologio, uscì, elegante, profumata, porgendomi i miei vestiti accuratamente ripiegati. Grazie, e scusami ancora. I suoi occhi saettarono ambigui e ironici.

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