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Le avventure di Villa Bietola. La morte di Jenny
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Le avventure di Villa Bietola. La morte di Jenny
E-book113 pagine1 ora

Le avventure di Villa Bietola. La morte di Jenny

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Info su questo ebook

A Villa Bietola c'è posto per tutti. E' facilmente raggiungibile seguendo le frecce gialle con su scritto in bella calligrafia: "Uova fresche di giornata e camere con vista". Vista su cosa? Probabilmente su un pollaio. Ed è seguendo questa indicazione che Maria Carla (in seguito chiamata Laura), sessantenne tormentata per l'età ed esaurita quanto basta, raggiunge il cortile di una casa dalle persiane multicolore. Ad accoglierla è Roger, ossuto e dalla barba giallognola annodata, che mette subito in chiaro che "fra la mente dei semplici e la mente dei pazzi c'è la mente degli scrittori" e, subito dopo, Angelica Hope che, bucolica e svolazzante, provvede a rassicurarla: "Con noi starai bene. Qui viviamo di fantasia e, dove c'è fantasia, mia cara, è tutto un altro vivere." Le sorprese, nel bene e nel male, non tarderanno però a rivelarsi. "La morte di Jenny" è il primo episodio delle Avventure di Villa Bietola.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2018
ISBN9788827837276
Le avventure di Villa Bietola. La morte di Jenny

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    Anteprima del libro

    Le avventure di Villa Bietola. La morte di Jenny - Paola Farah Giorgi

    Roby

    Capitolo I

    Giunsi a Villa Bietola in un periodo cruciale della mia vita. Anche se fossi vissuta sino a cent’anni, il tempo ancora a disposizione sarebbe stato inferiore a quello già utilizzato. In altre parole, lo scoccare impietoso dei sessanta, con sessanta candeline avvitate in una torta farcita all’arancia tipo sacher. Riuscite a immaginarle accese? Uno sfrigolante falò sul quale immolare per sempre ogni illusione di gioventù. Donna attempata arrosto, su letto di cioccolata.

    Focalizzarmi su questa evidenza mi aveva resa aspra, se non intrattabile e mediamente depressa.

    A un mese dalla torta, vai a farti un bel giro, dolce amore mio, e calmati un po’ era stato il suggerimento, quanto mai opportuno, di mio marito, un modo come un altro per festeggiare insieme il primo giorno di primavera, la seconda importante ricorrenza dopo il compleanno.

    Un'unica rondine ci svolazzava sulla testa peggio di un rapace pronto a colpire e sembrava un presagio di solitudine. Violette innocenti strabuzzavano gli occhi in attesa di uno scoop mentre lui si rigirava fra le dita uno stuzzicadenti che l’umido della bocca e l’usura avevano reso quasi malleabile.

    Trenta secondi dopo, quando avevo già in tasca occhiali da sole, telefono e fazzoletti di carta, il minimo occorrente per i soliti quattro passi fino alla Chiesa di San Sospiro, aveva aggiunto tra i denti: puoi tornare anche tra due giorni, se vuoi. Per me va bene. Ai piatti e al gatto ci penso io. Anche una settimana, se ne hai bisogno. Anche un mese. Anche due. Le sopracciglia, tanto simili a code di ghiro arruffate, per l’imbarazzo gli erano scese a nascondere gli occhi.

    Mi fece pena, e la pena smorzò la rabbia.

    Che fosse un saggio consiglio era inopinabile.

    Lo guardai. Non rimarcò altro. Io neppure. Cinque minuti di tacita intesa, poi un bacio sulla fronte che suggellò il mio destino.

    Si ritirò in cantina.

    Io rimasi lì.

    Che dire? Mi accorsi di essere come un limone ammuffito che rischia d’infestare tutta la frutta del cesto.

    Okay. Perfetto. Ti ho stressato e posso capirti.

    Aveva parlato chiaro, mio marito, ed essere così sinceri è una virtù soltanto da apprezzare, per non dire che ti spiazza.

    Sì. Io il limone ammuffito; lui (e il gatto) la frutta del cesto. La demenza di un paragone.

    Il dove andare fu una questione secondaria. Mi avrebbero guidato le mie suole e il mio fiuto. Naso a terra sino alla corriera, per fare scena, e di seguito una ventina di fermate sino all’alberghetto La sana felicità della zia di mia cugina, almeno per la prima notte. Aveva una camera per mezza persona che difficilmente era occupata, inutile prenotare in anticipo.

    Okay, okay per davvero. Hai ragione.

    Non intendevo contagiare nessuno col mio costante malumore, tanto meno lui, innocuo e placido da fare tenerezza, così cercai d’istinto l’amato zaino blu, quello che usavo da ragazza, per caricarlo con criterio e niente d’inutile: un ricambio completo, dalle mutande al cervello, più shampoo e balsamo per capelli elettrici. Li avevo talmente crespi da sembrare pazza e, per di più, l’abbigliamento che intendevo adottare per comodità, ovvero scarpe da ginnastica e felpa con cappuccio, mi avrebbe reso del tutto una caricatura. A sessant’anni, bassa e grassoccia nella giusta misura, senza trucco, patetica. Tutto detto.

    Con pacata ponderatezza iniziai a riflettere su quanto stavo facendo soltanto al termine della preparazione dell’amato zaino.

    Stavo, forse, commettendo un errore?

    Riepilogo. Io, lontana da casa, da due giorni a due mesi, il giusto lasso di tempo per ritornare a essere quella di prima. I quarant’anni di vita che avevo ancora a disposizione, calcolando sui cento, mi sarebbero apparsi di nuovo come boccioli di rosa e non più come crisantemi. Oplà, ritorno a casa (dopo due giorni o dopo due mesi) con depressione e nervosismo a zero. Come nuova.

    Lui, nel frattempo, si sarebbe rilassato in amaca, al fresco dei ciliegi, e sarebbe sceso al fiume per due cannate. La sera si sarebbe cucinato le trote al verde in santa pace, forse un po' triste ma non troppo, col gatto a tenergli compagnia.

    Perfetto, senza una piega.

    L’unica incognita era come avrei trascorso il magico periodo lontana da casa (ormai propensa ai due mesi) dopo la prima notte all’alberghetto La sana felicità.

    Non riuscivo a prospettare nulla di assennato e poco dispendioso, e l’unica parola che si fece avanti nella mia testa, con un suono piuttosto melodioso, fu un esplicito chissà. Ma ormai non potevo tirarmi indietro.

    «Fammi sapere qualcosa, mi raccomando, non farmi stare in pensiero.»

    «Certo amore. Appeno arrivo a destinazione ti chiamo.»

    «Due giorni?»

    «Due mesi.»

    «Dove?»

    «Non so, ma non devi per niente preoccuparti. Promesso?»

    Minuto dopo minuto, ormai fuori di casa, continuai a convincere me stessa che il periodo di stacco esistenziale sarebbe stato un bene sia per me che per lui, di sicuro per il nostro matrimonio, e fu evidente come il solo pensiero di quella fuga dal quotidiano mi avesse già reso più serafica.

    Misi piede in corriera con un medio mal di testa addosso, di quello che ti si appoggia sulle tempie per farti compagnia da vicino e non lasciarti sola.

    Poi successe l’imprevisto, come deve accadere in ogni storia degna del suo nome.

    L’idea di passare la prima notte all’alberghetto La sana felicità della zia di mia cugina l’abbandonai quando, ormai scesa dalla corriera, notai una freccia di legno giallo con su scritto a pennellate sottili, in una calligrafia perfetta, uova fresche di giornata, e sotto, più in piccolo, affitto camere con vista. Vista sul pollaio? La domanda, che mi venne istintiva, mi diede una sferzata di buonumore da non credere.

    Mi sembrò un ottimo auspicio.

    Fra due cespugli spinosi, una stradina sterrata si apriva sulla destra e appariva come un posto ideale per andarci a fare i bisogni. Dopo la strettoia iniziale, uno slargo di giusta misura avrebbe permesso a chiunque di accucciarsi comodo, facendo ovviamente di fretta per non rischiare il passaggio di altri amanti delle uova fresche.

    Che dire? Hanno un sapore unico le uova ancora calde di gallina.

    Ogni mattina mia nonna faceva scendere il tuorlo in un cucchiaio, lo condiva con una strizzata di limone e me lo infilava in bocca come ricostituente. Ci andavo pazza. Subito dopo ne avrei voluto un altro, perché mi rimaneva la voglia, ma lei diceva uno e basta. Allora piangevo e lei, irremovibile, confermava uno e basta. Se non la smettevo di frignare, era capace a chiudermi in cantina insieme ai topi, facendomi saltare pranzo, merenda e cena.

    Chiuso il ricordo d’infanzia, per abitudine guardai l’ora, poi riguardai la freccia.

    Che fosse uno scherzo?

    Sì, può capitare che frecce divelte da uragani, arrivate da chissà dove, vengano piazzate dritte da qualche furbone. C’è chi ci casca e le segue. Sembrano vere.

    Considerando che avevo già nel cuore un senso di sollievo difficile da descrivere, come se avessi per davvero imboccato la strada giusta verso il mio giusto destino, uno scherzo del genere mi avrebbe angosciata non poco, senza contare la fatica a ritornare indietro. Sessanta sono sessanta, anche a non volersi focalizzare sull’evidenza.

    Dopo una cinquantina di metri in salita, una scaletta di cemento che virava a sinistra fu il primo segno di civiltà

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