Il muro del rosmarino
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“Il muro del rosmarino” racconta di una vita, e riassumere una vita è quasi impossibile. L’autrice racchiude nello scritto il ricordo di una molteplicità di esperienze vissute nei luoghi più disparati, direttamente o attraverso la memoria di tante persone che ha incrociato sulla sua strada. Un giorno, tutte le storie ascoltate nel tempo sono diventate un’unica storia, la sua storia. Una vita o quasi, è l’abile riassunto di ciò che si legge nelle e tra le righe, nascondendo dietro queste il profumo costante del rosmarino, e ritrovandosi alla fine davanti a un muro che barriera, se mai sia stato, di certo ora non è più…
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Anteprima del libro
Il muro del rosmarino - Aida dell'Oglio
5
Introduzione
Nord e Sud
Quando vuol prendermi in giro la chiama Africa del Nord, mio marito. In questo modo indica la parte che più si protende verso il centro del Mediterraneo, quello che gli antichi Romani chiamavano mare nostrum
. Non mi offendo. Gli dimostro, documenti alla mano, che quando la civiltà di Roma, nel terzo secolo avanti Cristo, si scontrò con la civiltà di quella che allora veniva complessivamente chiamata Magna Graecia, l’insieme delle popolazioni che si espandevano lungo le coste dell’Adriatico, dello Ionio, del Tirreno meridionale, avevano alle spalle una storia già millenaria. Poco importa se la potenza guerriera dei Romani poté avere, nel tempo, la meglio su popolazioni che, dopo epiche emigrazioni da tutto il Mediterraneo orientale ed occidentale, ormai da secoli vivevano tranquille, in pace, dedite alle arti della ceramica, della scultura, della pittura, della musica, della matematica nonché della filosofia. Prima ancora era accaduto nell’isola di Creta, dove una splendida e assai evoluta civiltà era stata sopraffatta dalla rozzezza dei Dori. è gioco facile ricordargli che quando Ottaviano, novello Romolo, fece tracciare il solco quadrato della sua Augusta Taurinorum, la vasta pianura ai piedi delle Alpi era appunto lo spazio in cui molti tori e molti mandriani, rivestiti ancora soltanto di pelli sui fianchi, aggiungo io, pascolavano ritirandosi a sera nelle grotte. Da quel tempo molta acqua è scorsa sotto i ponti e non è questo il luogo in cui percorrere seriamente le lunghe vicissitudini della storia d’Italia, quelle che hanno fatto sì che dopo secoli di alterne vicende, i discendenti degli abitatori della Magna Graecia, vivessero altre dolorose diaspore, verso le Americhe, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, verso l’Europa e verso il Nord dell’Italia, nel secondo dopoguerra. Queste sono già state magnificamente illustrate non dai manuali di storia, (perché si sa che la storia la scrivono i vincitori), ma dalla poesia, dalla letteratura, dall’arte, che non soffrono, o ne soffrono molto meno, le barriere campanilistiche e la spocchia boriosa dei vincitori. Può succedere, succede di solito agli artisti, agli scrittori, di sentire profondamente le radici da cui hanno tratto alimento e vita, biologica e culturale, ma insieme, di sentirsi e di vivere come cittadini del mondo, perché dalla temperie del mondo hanno tratto alimento per la loro crescita di esseri umani. Ho pensato molte volte di analizzare la mia formazione come intellettuale e come persona e ogni volta ho trovato la stessa difficoltà di distinguere, di escludere o di inglobare esperienze fisiche o mentali che riconosco come fondamentali. Poi mi sono arresa. Lascio che le esperienze, le immagini, le persone, che in un modo o nell’altro sono entrate nella mia vita, per un tempo molto breve, o per lunghi percorsi spazio- temporali, fluiscano liberamente, attraversino la mia fantasia, si accampino per quanto è sufficiente a farle rivivere nella pienezza dell’arte, e poi si allontanino, finalmente placate, finalmente fissate in un tempo senza delimitazioni di tempo, in uno spazio senza confini eppure assai preciso, inciso nel modo più netto e definito attraverso il ricordo e fissato per sempre, eis aiei, avrebbero detto i Greci, dalla scrittura. è stato difficile, perciò, cercare di dare un ordine, di rendere intelligibile anche agli altri, momenti della vita, esperienze, che si affaccia no talvolta alla memoria in modi apparentemente confusi, illogici, se filtrati attraverso le semplici coordinate spazio -temporali ma che invece hanno tra di loro un nesso sottile, oscuro alla ragione, ma evidente all’intelligenza del cuore.
Capitolo 1
Reminiscenze daune: le radici
La vedova
Molte sono le figure che popolano le divagazioni solitarie della mia mente; fluiscono come in un confuso corteo di immagini appena delineate, sfuggenti perlopiù, fino a quando qualcuna di queste forme che rapide mi trascorrono, acquista contorni più netti, si impone, scaccia via le altre e mi obbliga a soffermarmi su di essa. Alcune sono forme che per molti anni sono rimaste seppellite in qualche angolo remoto della mente ma che da qualche tempo si ripresentano nelle intermittenze della memoria, sollecitate, talvolta, da un’immagine che improvvisa le richiama e le ridesta prepotentemente. Altre appartengono ad esperienze più recenti, anche se si riferiscono a vicende del passato, persino del passato storico, ma che a me sono pervenute solo da poco tempo. Di alcune di queste la suggestione è così profonda e duratura che è impossibile mettere a tacere le emozioni che suscitano e la serie infinita di connessioni che evocano.
Non sempre ho voglia di dar loro corpo e allora cerco di volgere la mente verso altre occupazioni: un libro da leggere, un piatto da preparare, ma all'improvviso una forma, impalpabile, eppure vivida, si accampa dinanzi agli occhi, la vedo quasi fosse presenza corporea davanti a me, mi accenna, mi invita, mi lusinga con la trama fitta dei ricordi che riaffiorano da chissà quale ignota sorgiva, e allora non posso più rivolgermi a nessun'altra occupazione finché non mi sono piegata a dare spazio e forma e vita ai fantasmi del passato.
E lei é lì, la vedova.
Passava tutti i giorni da via Pietro Micca, alta, sottile, vestita di nero; camminava con passo eguale, quasi solenne ma con qualche cosa di eccessivamente serio nella misuratezza dell'andatura.
Due volte: la mattina verso le otto e il pomeriggio, dopo le sei.
Attraversava via Zingari e procedeva fino in fondo, verso Via Occidentale, dove i suoi passi si perdevano, tenendo visibilmente chiusa dentro di sé una pena più grave dei suoi ventisei anni vestiti a lutto.
Era stata una sorridente e gaia ragazza, commessa di un negozio di abbigliamento al centro del paese, molti anni prima, quando aveva poco più di quindici anni.
Un giorno nel negozio era entrato un signore sulla cinquantina, già alquanto brizzolato; un tipo levantino, dalla pelle molto colorita, volgente al bronzo, gli occhi scuri e penetranti e un'espressione seria e assorta.
La padrona aveva immediatamente percepito lo stupore dell'uomo quando la ragazza gli si era rivolta per chiedere di che cosa avesse bisogno.
L'uomo era rimasto muto per un istante, solo un istante di più di quello che l'educazione e il rispetto, a quelle latitudini del mondo, in quegli anni, prevedevano.
Era bastato perché la padrona, gelosa custode della serietà delle sue commesse, intervenisse personalmente, mandando altrove la ragazza e si disponesse a servire lei stessa il cliente.
Tre camicie, voleva tre camicie quel signore e non perse molto tempo a scegliere tra quelle che gli furono presentate.
Pagò e uscì dal negozio.
Un cliente come un altro, forse solo un po’ più garbato e distinto nei modi, ma nelle ore che seguirono, lei, la ragazza, non poté più liberare la mente dall' immagine di quegli occhi, di quello sguardo, di quell'attimo in cui aveva visto sovrapporsi all'espressione di un'intima pena lo stupore affascinato di fronte a qualche cosa che non ci si attendeva di vedere.
Tornando a casa, verso sera, attraversò la piazza con il suo solito passo sostenuto e poi si diresse per via Daunia verso il giresterno
per imboccare infine via Pietro Micca. Aveva la sensazione che qualcuno la stesse osservando ma non osava voltarsi indietro per paura di scoprire chi fosse.
Preferì immaginare che ci fossero le solite pettegole che osservano i passanti, e soprattutto le ragazze, da dietro le tendine tirate.
Affrettò il passo e giunse a casa un po’ trafelata.
Alla madre, che le chiedeva ragione del respiro lievemente affannato, rispose che aveva corso un po' perché la padrona l'aveva trattenuta oltre l'orario a rimettere in ordine il negozio e lei voleva arrivare subito a casa.
Trascorsero alcuni giorni durante i quali le sembrava, a tratti, di vivere nell'attesa imminente di un evento.
D'altra parte la vita nel negozio era sempre la stessa: sorridere, convincere, spiegare, misurare metri di stoffa, consigliare colori di pullover e camicette, rispondere evasiva mente agli approcci dei maschi del paese, sorvolare sulla spocchiosa villania di certe signore.
Tutto come ogni giorno da quando, due anni prima, aveva messo piede lì dentro.
Lei però era brava; per questo la padrona, dopo qualche settimana di prova, l'aveva assunta, e, benché fosse così giovane, le affidava ogni tipo di mansione.
Del resto, pur avendo solo quindici anni, lei non si sentiva così giovane da quando, tre anni prima, aveva perso il padre.
Suo fratello maggiore aveva venti anni, ma era stato a lei che il padre aveva raccomandato di aiutare a mandare avanti la famiglia quando lui non ci fosse più stato. Per questo aveva cominciato a occuparsi del fratellino più piccolo proprio come se fosse lei la madre e per questo, alla fine dell'anno, quando era entrata nei tredici, aveva insistito con la madre perché la mandasse a lavorare.
Fu la domenica successiva che la madre le confidò quanto era accaduto il giorno prima.
Sabato, verso le sei del pomeriggio, un signore molto elegante, si era presentato a casa loro, assieme a una signora, anche lei di aspetto assai dignitoso.
Le aveva chiesto di poter parlare, assieme alla sorella, di una questione che riguardava la figlia.
In poche ma assai corrette e rispettose parole, quel signore chiedeva la mano della ragazza. Dava le più ampie garanzie sulla propria condizione economica e sulla serietà dei propri sentimenti.
La povera madre non era solo sorpresa, era addirittura sconvolta, benché, avvezza a contenere i propri sentimenti, tacesse a lungo, cercando di trovare dentro di sé le parole giuste e la sintassi appropriata per esprimere il proprio stupore e il gran numero di riserve che aveva rispetto a tale proposta.
Gli occhi indagatori di quel signore, però, lessero, prima ancora che fosse espressa a parole, la rapida successione dei pensieri che si accavallò nella mente della madre.
-"è troppo giovane... beh, forse no, io avevo la sua età quando mi sono maritata... é lui che è troppo vecchio... avrà almeno cinquant'anni... però é un bell'uomo, distinto... deve stare anche bene economicamente... ma che cosa dirà mia figlia... e... lo conosce? Non me ne