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Le commedie
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Acarnesi - Cavalieri - Nuvole - Vespe - Pace - Uccelli - Tesmoforiazuse - Lisistrata - Rane - Ecclesiazuse - Pluto

Traduzione scenica e appendice critica di Benedetto Marzullo

Aristofane è un’onda fluida, generosa, invadente di riso: ma anche di attonita, sommessa pietà. Nelle sue commedie c’è malinconia, tanto più aguzza quanto sfrenato è lo sfogo: c’è un rifiuto del mondo, fragoroso, violento, offensivo. C’è la progressiva, struggente scoperta di una vitale radice, personale ma inalienabile: estremo rifugio e risorsa dell’uomo. Producendo esplosioni insaziabili di comicità, Aristofane spazia sovrano: dallo sberleffo all’ironia, dalla deformazione implacabile all’umorismo, aggressivo ma estroso, inventivo, più spesso infine autoconsolatorio. È un instancabile produttore di satira politica, sociale, personale. Malinconicamente, registra ogni contraddizione della commedia umana, la risarcisce con dolente, spesso lirico sorriso.

Aristofane

(445-388 a.C.?), sommo poeta della commedia greca, fu autore di quarantuno opere, undici a noi pervenute. Il testo qui ripubblicato fu insignito del «Premio Viareggio 1968» e coronato da lusinghiero successo: più volte ristampato e costantemente rivisto e migliorato, rende giustizia con “verbale” perizia all’originale greco, sconciato da una millenaria tradizione, e si avvale di una “traduzione” che ha sopperito all’assenza dello “spettacolo”, sua primaria identità.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854144040
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    Anteprima del libro

    Le commedie - Aristofane

    249

    Titoli originali: Αχαρνεις, Ιππεις, Νεφελαι, Σφηκες, Ειρηνη,

    Ορνιθες, Θεςμοφοριαζουσαι, Λυσιστρατη,

    Βατραχοι, Εκκλησιαζουσαι, Πλουτος

    Traduzioni di Benedetto Marzullo

    Consulenza redazionale di Enrico V. Maltese

    Prima edizione ebook: giugno 2012

    © 2003 Newton & Compton editori s.r.l.

    © 2008 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4404-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    ARISTOFANE

    Le Commedie

    Acarnesi, Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli, Tesmoforiazuse, Lisistrata, Rane, Ecclesiazuse, Pluto

    Traduzione scenica e Appendice critica di

    BENEDETTO MARZULLO

    Premessa*

    «Perché Aristofane?» mi chiedevo, introducendo la prima edizione di questa opera, oltre quarant’anni orsono. Ho continuato a domandarmelo nelle successive, ho perseverato nella inquieta esigenza di consapevolezza. Non si trattava, infatti, di confezionare una nuova traduzione dell’umoroso, spesso enigmatico Autore (meno corriva delle molte … correnti), ma di proporre un verosimile, se non azzardato copione per la scena, incalzato dalle istanze della performazione, adeguato ad un gusto della comicità, che i mass-media avevano sovvertito se non sconciato. Ma anche di insofferente rifiuto delle troppe incongruenze strutturali, che una sciatta, già antica tradizione testuale aveva (né sempre involontariamente) spacciate, la moderna verecondia conservate. Aspiravo, dunque, al recupero di una smarrita, non sbiadita identità.

    Soprattutto la interlocuzione esigeva energici rimedi, nessun segno o suggerimento forniva l’originale, sorvegliato dall’Autore sulla scena, semioticamente indicato dagli stessi attanti, in realtà attori. Per fare un macroscopico esempio, i due protagonisti degli Uccelli si erano scambiati le rispettive parti, malgrado portassero nomi significativi (parlanti), che si provvide ad alterare morfologicamente, a dispetto della perspicuità. Come sostituire, reciprocamente, i ruoli tra Don Chisciotte ed il correlato Sancho Panza, con irresponsabile nonchalance. Uno squallido scarto, cui la solidità (ideologica?) della commedia aveva sorprendentemente resistito. Da tempo abbiamo suggerito la restituzione dell’originaria struttura, assegnando l’arguta inventiva al Pessimista, l’ottimistica pinguedine al suo modesto compare. Un funzionale riassetto, le cui ragioni, non soltanto drammaturgiche ma stilistiche, comportamentali, risultano generalmente condivise, i più moderni (non di rado incongrui, nella seriale discontinuità del cinema, consumistico per sua natura) Stanlio e Ollio ricevono archetipica garanzia.

    Innumerevoli sono gli analoghi infortuni, molti restano controversi, altri ancora covano silenti, indisturbati. Ovviamente più folte sono le corruttele (all’apparenza minori), a dispetto del buon senso occhieggiano dovunque ambigue spaccature, prospettive schizoidi, intriganti inceppi. Spesso a danno dello stile e della stessa lingua, a tutto scapito del significare: irrimediabilmente travolgendo la istitutiva comicità. Verosimile è che l’ignobile tiranno (per convenzione, oltre che antica, ribadita nei nostri giorni) sia anche e fisicamente sudicio: puzza peggio di una foca, addirittura avrebbe il culo di un … cammello. L’innocente, anche se bizzarro animale non si offende, né spiazza nessuno, ieri come oggi: non si inquietano spettatori o lettori, tanto meno filologi compunti. Unico torto è la sghemba, per noi sgradevole esoticità già della specie, ma del medesimo nome, ovviamente orientale. Ma il semitico gámal si scontra per i Greci col più domestico καμινος, termine a sua volta estraneo (un tecnicismo mediterraneo?): sebbene di alto lignaggio, già nella Odissea ( XVIII 27) una topica vecchia, addetta al camino, viene infatti definita con palese disgusto καμινω: quanto dire «sudicia spazzacamino». Aristofane gioca con l’eccezionale qualificativo, conosceva, come i suoi spettatori, Omero a memoria. Ma non i suoi illetterati fruitori, lettori o esegeti che fossero: lo spregio viene frainteso, a spese dello sprovveduto cammello, verosimilmente (o innegabilmente?) però fetido nel postico bersaglio, promosso a simbolo della ignominia. A dispetto del motivato καμινου (immo καμινου), che i due codici maggiori (RV) sobriamente conservano.

    Il feroce scherno di Aristofane sarà piaciuto, condiviso dalla sconfinata platea di cittadini, sensibili, rancorosi (almeno 10.000!). Scoccata nelle Vespe (422 a.C.), la battuta viene inesorabilmente ripetuta nella Pace, l’anno successivo: in un blocco di 6-7 versi (1030-5 ~ Pax 752-8), persisterà la corruttibile bestia. Addirittura nel Nuovo Testamento essa è destinata a più assurdo infortunio, strutturalmente però identico a quello del recuperato Aristofane. In Matteo Gesù predica ai discepoli: «È molto più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di dio» ( XIX 23s.). Mai avrebbe pronunciato il santissimo Apostolo siffatta balordaggine, tantomeno attribuendola al Cristo. Avrà semplicemente trascritto il semitico gámal, che in italiano svilupperà il trasparente gómena, grossa fune, tipica della marineria fenicia. Già uno storico bizantino, Teofilatto Simocatta, aveva segnalata la corruzione, invitò ad emendarla, razionalmente (cf. ThGL V 919). Invano, se identico sconcio persiste negli analoghi Marc. X 25, Luc. XVIII 25, trionfa nella vulgata, inesorabilmente: come accadeva nell’autentico Aristofane, sconciato da un lurido cammello. Che, imperterrito, continua a pascolare nelle correnti edizioni, a dispetto di filologi, di supponenti biblisti.

    Non di rado lo stravolgimento è (per usare di un vezzo linguistico di necroforici economisti) tombale: malgrado coinvolga un più complesso contesto, risulta soavemente tramandato, lubricamente recepito. Nella Pace, il vecchio contadino (una proiezione coatta della gratuita, quanto inesorabile guerra) è assillato da ricordi dolcissimi, da momenti vissuti all’ombra della pace (vv. 536-8). Una nostalgia «di edera, di tini, di pecore belanti, di seni di donne che scorrazzano in campagna, di una schiava ubbriaca, di un orcio rovesciato». Troppa grazia: la improba (o reproba) traduzione era nostra! Un pasticciato groviglio, in realtà, compattamente condiviso: se ne entusiasmava il giovane Droysen, immaginando «ungeschürzte Weiber, eilig auf das Land hinaus, / festtrunken Dirnen, jubelnd umgestürzt der Krug». Invidiabili, liricizzanti versi, sebbene pretensiosamente ispirati. Il reverendo F.A. Paley non mancò di gustarne il pimento amatorio: raccomandava, del resto, ai giovani di privilegiare «mind and feelings», nei confronti di «language and idioms» nei classici da lui illustrati.

    Oltre un secolo fa, di quel palpitante «seno» femminile tentò di liberarci un giovane, ma illuminato filologo. In luogo del tramandato ballonzolio (κολπου), Theodor Bergk propose il corretto καλπη (immo καλπης): una eccezionale «gara» di corsa campestre, di cui lo stesso verbo (δια- τρεχουσων) sottolineava la dilettosa competitività. Il commosso flash-back di Aristofane (in realtà un precoce paesaggista, nella letteratura greca), seccamente suggerito da Bergk, non ha avuto seguito, ma neppure attenzione da parte dei successivi editori. Già lo ignora il Meineke, suo fortunato Mentore, nella pur accurata edizione (1860), lo ignora il van Leeuwen (1897), tuttavia annotando sette, ma incredibili emendamenti di anonimi studiosi, lo ignorano sistematicamente i filologi. Lo ignora lo stesso Bergk, che purtroppo nel testo aderisce alla vulgata, fulmineamente da lui violata. Egli temperava l’ardito ingegno con remissiva prudenza, sottovalutando però i fruitori, non solo immediati. Tradiva, sostanzialmente, la discoverta identità di Aristofane.

    Ma lo stesso finale, gioiosamente campestre, imbarazzava: la clausola (εις αγρον) risulta ossessiva (ricorre 8 volte), significativamente però esclusiva (et pour cause) della Pace. Essa ha travolto il peculiare e alternativo εις ιπνον, riemerso nella Aldina, già nella Suda. In un filone parallelo persisteva quella «cantina», cui è in genere obbligata la schiava nella commedia: per una topica ubbriacatura, non senza procurare più ridevole strame di un… orcio. Intimistica risulta la singolare carrellata, provoca immancabile riso: ma impagabili sono la malefatta servile qui recuperata, il fragoroso scempio, che il comico produce nell’ulteriore verso (538), assicurandole «tante e altre piacevolezze», di un antan perduto.

    Nessuno, neppure il geniale Bergk, ha seguito la coinvolgente filiera, che la inconsueta competizione femminile aveva innescata. Nessuno la segnala, tanto meno la adotta. Aristofane, come gran parte della commedia antica, continua a sopportare sconnesse balordaggini, a dilettare con le «fullbosomed matrons, hurrying to the farm», oppure con la esilarante «gorge des femmes, courant à l’envie aux champs» (quest’ultima invenzione è del van Daele, traduttore delegato del Coulon, nostro predecessore). La cincischiata critica delle varianti, tradizionali o razionalmente escogitate, viene con prudenza elusa, la comicità di Aristofane quanto meno invilita. Il recupero della sua identità fallisce, melanconicamente prevarica la manipolazione.

    Con tutta evidenza, la perdita del prezioso lessema (καλπη) provoca lo scompiglio della intera struttura. Il balenante ricordo della femminile gara difficilmente potrebbe avere come direzione e finale traguardo la stessa campagna, dovrà distinguersi dalla intrusiva ed agreste meta. Si esaurisce nella fattuale indicazione, cui seguirà l’altro scenario, quella recuperata cantina, topicamente destinata ad ulteriori quanto segrete imprese femminili. Sarà pertanto da interpungere dopo la rievocazione della corsa, sopprimendo l’attuale virgola dopo la cantina, teatro della servile bravata. È giusto la interpunzione a segnalare siffatta sequenza: una operazione essenziale, tanto lubrica, quanto soggettiva. Essa è legata alla scansione sintattica dell’enunciato, ma non meno ad una consuetudine storica, geografica, stilistica. L’originario testo di Aristofane ovviamente ignorava la punteggiatura, ancor più un articolato sistema diacritico, provvidenzialmente costituitosi con il successivo progresso della scrittura, soggetto a perenne evoluzione, di carattere squisitamente esegetico. Le moderne edizioni, non soltanto di Aristofane, largamente divergono in proposito, quella del Coulon è troppo spesso arbitraria, fuorviante quando non inintellegibile.

    Particolarmente significativo, a tal proposito, si dimostra un ulteriore luogo delle Vespe (v. 1217). Secondo il canonico Coulon (ma non diversamente, per i suoi predecessori), si susseguirebbero in questo verso tre operazioni conviviali, in realtà riferibili unicamente al conclusivo simposio. Il traduttore a lui soggetto, cosí le descrive: «nous dînons; bien essuyés [sic], nous passons aux libations». La iniziale constatazione significa in realtà l’invito conseguente al montaggio delle tavole, di cui immediatamente prima (lo precederà, pertanto, una semplice virgola, non dicolon). Il successivo lavacro risulta significativamente al perfetto, però marcato dal completivo ηδη, trasforma il finale «brindare» in un secco iussivo, a dispetto degli editori. Chi abbia consuetudine con siffatti rituali, consentirà che la virgola va posta dopo il rassicurante avverbio. La normale sequenza è, del resto, testimoniata da Platone Comico (fr. 71 K.-A.): qualcuno chiede se il pranzo è finito (v. 1, un perfetto rinforzato dal medesimo ηδη), altri (v. 2) ingiunge pertanto di «levare le tavole», il primo garantisce il rituale lavaggio, cui farà seguire il brindisi, che presto si confermerà compiuto (v. 10 σπονδη μεν γεγονε). Di questa sequenza, eventualmente trascurata, si sdegna Aristofane (l’omonimo Grammatico, fr. 251 N.), ribadendo che la iniziale operazione si effettua prima del pranzo, la seconda soltanto dopo: la mancanza dei moderni utensili (risalgono al XVI secolo) la rende indispensabile. La distorta sequenza viene disinvoltamente tollerata, complice la falsa interpunzione dei moderni, dal sagace Droysen al MacDowell, pur interprete eccellente di Aristofane: un giovanotto, è da sospettare, se nell’apparato al nostro luogo ad esempio registra fatuità come ξυνποτικος (v. 1209), απονενιμεθ’ vel απονενεμμεθ’ (v. 1217), σπενδοκεν vel σπενσοκε (ibid.).

    Non meno significativi sono altri ed innumerevoli casi. Nei Cavalieri (v. 358), il Salsicciaio, insospettabile aspirante alla suprema eversione dello stato, ribatte all’avversario Paflàgone, collaudato stupratore degli strateghi arenatisi a Pilo, abbandonandosi a parallele minacce. Ultima promessa del gaglioffo, un enigmatico verso: «strizzo [sic] gli oratori e metto in agitazione Nicia». Cosí un traduttore di corta lena. Io avevo in precedenza tradotto: «strozzo [!] gli oratori, stravolgo Nicia», fortunosamente frainteso. Non mi ero tuttavia allarmato del coinvolgimento di Nicia, prudente uomo d’ordine, tutt’altro che volgare mestatore, un pavido "cunctator" insomma: negli Uccelli (v. 640) Aristofane conierà lo sprezzante μελλονικιαν, con rancorosa antonomasia. Il grande Bentley («tremendous», lo aveva definito Gibbon) protestò, in margine al suo Aristofane: «cur hoc, cum Nicias et Demosthenes hic ab eius partibus stent?». Suggeriva, tentativamente, σφηκιαν in luogo dell’incongruo Νικιαν, intendendo l’odioso «vespaio», innegabilmente riferito ai cosiddetti «oratori». La metafora è nello stesso Aristofane, che nelle Vespe (v. 224) ad un irritato «vespaio» assomiglia la razza dei vecchi, riconfermerà questo parallelo nella Lisistrata (v. 475). Che il «vespaio» qualifichi invece lo sciame impietoso dei «retori», è dimostrato nel Pluto (v. 556), dove questi artigiani della parola costituiscono una genía di profittatori, spregiudicati voltagabbana. Una aggressiva marmaglia di «mozzorecchi», insomma, elettivamente supporters di Nicia.

    Bentley era onestamente perplesso, il nostro verso risulta infatti saldamente nella tradizione indiretta. Plutarco (Nicias 4), significativamente però assegnandolo a Cleone, lo motiva con la accreditata vigliaccheria del generalissimo. Ateneo, a sua volta ( III 94c), riporta i nostri versi (351-8), ma ribadisce l’inquietante Nicia. Siffatti autori testimoniano di una vulgata da tempo inquinata, per loro insospettabile. Non appare azzardato ipotizzare, che il nome di Nicia sia omofonico glossema, escogitato per spiegare quale «sciame» di mistificatori si affiancasse a Nicia. In questo caso le due minacce qui pronunciate, più che da una generica congiunzione saranno collegate da un consequenziale «quindi»: invece che il banale και; a nostro giudizio si scriverà l’incisivo καυ, frequentemente soggetto a corrompersi.

    Particolare attenzione merita altro e più disperante caso. Si va a pranzo da un amico, il padrone di casa ordina al servo di predisporre cibo e quanto sarà necessario per ubbriacarsi (Vesp. 1251s.). Il domestico risulta invocato con un vezzeggiativo insolito, Χρυσε (immo Χρυσου): neanche fosse un «gioiello d’oro», metaforico. A dispetto del duplicato «servo, servo», che già lo precede (in Ran. 483 ricorre un lucidissimo ω χρυσοι θεοι). Senza dire che, morfologicamente, siffatto uso dell’aggettivo è solo del greco imperiale (cf. Schwyzer, I 183).Wilamowitz si affrettò a sostituirgli Κροισε, favoleggiato sovrano della Lidia, qui palesemente a pigione. Non meno plausibilmente, qualcuno lo spiega «quale nome di regola affibbiato ad un servo dai capelli biondi»: un miserevole autoschediasmo. Si tratta, invece, del semplice οισε, quanto dire «porta», anche se (altri ricordava) lo schiavo invocato si chiama Santia, in verità «rossiccio». L’ingiuntivo è già omerico, ricorre quattro volte in Aristofane (in tre casi, congiunto a παι), in contesto perfettamente analogo, formulare. Traducendo, a suo tempo avevo soppresso l’enigmatico lessema: ignoravo che la proposta soluzione era già del van Leeuwen (1893), mediocre filologo, compattamente qui ignorato.

    Siffatte vicende sono tutt’altro che paradossali, tanto meno occasionali: i loro meccanismi si dimostrano lapsus (di lettura, fonologici o psicologici), quali affliggono la trasmissione di qualsiasi enunciato, nei testi greci e latini, frequentemente nella (frettolosa) confezione dei nostri quotidiani, indipendentemente dal corrivo medium linguistico, dalla eventuale eccellenza redazionale. Chi analizzi gli oltre quindicimila versi di Aristofane (esattamente 15.291, la Divina Commedia ne conta poco più di 14.000), li scoprirà costellati di scarti, non sempre eclatanti, sapientemente tollerati, il più delle volte neppure sospettati. La identità del nostro Aristofane è irrimediabilmente convenzionale, fortunosamente però convenuta dai filologi alessandrini, qualche decennio dopo la sua scomparsa. Sequestrata dalla inerte tradizione medievale, occasionalmente affidata a due rilevanti, per fortuna discordi codici, il Ravennate ( X secolo) ed il Veneto ( XII secolo: complessivamente restano 86 mss.), consegnata alla senza dubbio pregevole editio princeps (1498), quell’Aldina (ad Aldo Manuzio si devono, oltre all’Aristofane, in collaborazione con Marco Musuro, ben 27 edizioni a stampa dei nostri classici), le cui molteplici fonti manoscritte restano ignote, alla Giuntina (1512), che integrava il testo veneziano, ristretto a solo nove commedie.

    Ma, occasionalmente, essa traspare da testimoni eruditi, attraverso citazioni o parafrasi, soprattutto da una esorbitante polla di annotazioni scol(i)astiche, da una lessicografia incalzante, casuale quanto difforme, attenta alle peculiarità linguistiche e connessi realia, in sostanza alle asperità glossografiche, al reticolo concettuale epperò culturale della civiltà greca. Paradigmatico per una ricerca di identità perduta, o infortunata, manipolata dagli stessi studiosi: sulla cui verifica è fondata ogni indagine motivatamente critica. Essa costituisce una tradizione supplementare, che diremmo diagonale: integra sia quella diretta che la indiretta, sorprendentemente fornisce più luminosa testimonianza del nostro testo, scavalcando i coercitivi tramiti che travolgevano, non di rado oscuravano la originaria redazione. La identità di Aristofane, come di ogni altro autore, molto spesso riacquista perspicuità insperata, fornisce il sapore classico della autenticità. Si tratta di un percorso palesemente induttivo, di una più mordente messa a fuoco, di integrazioni e correzioni insospettate.

    Innumerevoli sono le moderne edizioni di Aristofane, o di isolate commedie, fondate in genere sulla autorità di uno o più codici (spesso smarriti, dopo il primo sfruttamento tipografico), elaborate dall’impegno e dalla dottrina stupefacente di una miriade di studiosi, tipicamente umanistici: per l’acutissimo ingegno, ma soprattutto per la sensibilità linguistica e stilistica, la pragmatica inventiva, ancora non mortificata da grammatiche coercitive, formalistiche. Esse condividono, nella fase iniziale, il rinascimentale impulso alla discoverta di un continente non solo letterario, per la massima parte disperso o mutilato. Una conquista in prevalenza stilistica, classicheggiante, precocemente però illuministica. Ma anche il costituirsi di una scienza nuova, munita di aggressiva curiosità, provvista di raffinati armamentari, di autentici Tesori, non esclusivamente linguistici, ma risentitamente rettorici, solidamente antiquariali. Spicca, nella fervida seconda metà del sedicesimo secolo, la monumentale opera (5 voll., 1572) confezionata da Henri Estienne: Rudolf Pfeiffer sottolinea la unicità dello studioso, tutt’altro che un comune grammatico o critico di stampo accademico (ma chi, in quel secolo, poteva classificarsi tale?), «ma un grande adventurer nell’ambito della filologia greca». Due edizioni della opera (ristrutturata) vennero pubblicate, a Londra negli anni 1816-28, a Parigi nei successivi 1831-65 (a cura di K.B. Haase e dei fratelli Dindorf). Pervasivo è il repertorio dei materiali, sorprendente il dominio formale, anche se di frequente risulta inaffidabile il sontuoso regesto delle nozioni. Ogni nostra ricerca non può tuttavia non giovarsi dell’imponente repertorio, lo stesso testo di Aristofane ne riceve informata, ma soprattutto generosa attenzione critica.

    Si impone in seguito una folta, infaticabile comunità di studiosi, di ogni lingua e cultura, impegnata nel personale (non di rado astioso) confronto, munita di professionalità consapevole ed ostinata, destinata ad un fervido progresso. È sbalorditivo, che anche di Aristofane Aldo Manuzio stampò almeno mille copie, velocemente esaurite, sorprendente è il contestuale germinare di competitive edizioni, inaudito evento. La Giuntina pubblica a Firenze tre incalzanti impressioni (1515, 1525, 1540), Basilea produce nel 1532 un testo già canonico, nel 1710 l’olandese Küster (in realtà «sagrestano», da Klosterer) coordinerà una monumentale editio variorum (prezioso in folio, di cui posseggo dal 1955 una copia), affidata al Casaubonus, allo Spanheim, al sommo Bentley (di cui era fortunato protetto): fornendola di una traduzione latina, di scolii ed annotazioni critiche, ben quattro Indici, verosimilmente dovuti al medesimo curatore, della cui sagacia l’opera è costellata. Più moderno autore (anche di Aristofane) deve considerarsi Richard Brunck (1781-3), un alsaziano che fu tra l’altro Kriegskommissar nella Guerra dei sette anni, appaltatore delle imposte in seguito. Uno studioso infaticabile quanto imprevedibile, rispettoso della tradizione ma incline alla innovazione, non di rado spregiudicata. Alsaziano sarà lo stesso Coulon, dalla cui eclettica edizione (1923-30) muove, con motivabile imbarazzo, il nostro recupero di Aristofane.

    Domina gran parte dell’Ottocento la pragmatica edizione di K.W. Dindorf (1825-1877), allievo di G. Hermann, a compimento dell’opera iniziata da Filippo Invernizi (1794), appassionato avvocato romano, proficuamente riscattando il codice Ravennate. Alla straordinaria imprenditorialità, non corrisponde pari ingegno: nel 1871 egli divenne Direttore delle Ferrovie di Lipsia e Dresda, dopo la morte fu dimenticato e fin ripudiato dagli amici. Spiccano invece le innovative edizioni del Bergk (1852/1892) e del Meineke (1860). I loro testi hanno personali dimensioni, la consuetudine di regimi per cosí dire istitutivi nitidamente si afferma. Bergk suggerisce un profluvio di emendamenti al testo di Aristofane, caratterizzati da straordinario acume, gestiti con malcelata prudenza: pochissimi sono infatti accolti nella sua spedita redazione, anche lui scolaro di G. Hermann, assistente in seguito dello stesso Meineke, di cui sposò la figlia.

    Nella sua monumentale raccolta dei Frammenti comici ( I - V , 1839- 57), Bergk ordinò giovanissimo quelli di Aristofane ( II 2, 1840), avendo già prodotte (1838) le Commentationes de reliquiis Comoediae Atticae antiquae. Il Meineke aveva disdegnato «falcem in alienas messes immittere» (CGF I , p. VII ): un invidiabile riconoscimento, temperato tuttavia da sorprendenti rifiuti nella Adnotatio critica della propria edizione (1860). Che, a nostro avviso, si dimostra la più attendibile di quante finora prodotte. Scorrendone la capillare Premessa, colpisce l’ampiezza della dottrina e della esperienza, la riflessiva sensibilità, attenta alle incongruenze del testo, rispettosa in genere degli altrui contributi. Che indulgesse al sospetto di interpolazioni (un positivistico eccesso), non disturba: quanto, al contrario, ignorarle, o protervamente rifiutarle.

    Perplessità, fino imbarazzo, tuttavia suscitano dissimulati atteggiamenti del Meineke, nei confronti del giovane studioso: significativi (oltre che sul piano personale) per intendere la falsa riga, su cui di frequente muovono i pareri dei filologi, degli studiosi di ogni specie. Rivalità nascosta, invidia se non malizia, traspaiono dispettosamente, senza riguardo per la comune disciplina. Chi usi la accuratissima Adnotatio critica della edizione, incontrerà numerosi, quanto malcelati rabbuffi. Meineke mostra di ignorare felici emendamenti del Bergk (cf. Thesm. 782: «nescio quis etc.»), di frequente gli oppone Hermann, suo venerabile Maestro (cf. ad Vesp. 1227: «ουδε volebat praeter Bergkium Hermannus»). In Eccl. 141, alla paternità del Bergk sostituisce Hermann, ad Av. 192 addirittura tollera l’improbabile «Beckius», stupisce che in Lys. 144 l’ottimo εκπιειν del Bentley venga accreditato al Bergk. Non migliore propensione egli nutre per Cobet, quasi coetaneo del Bergk (nato nel 1812, Cobet l’anno successivo), cf. ad Lys. 843: «σοι addidit Porsonus, plus dimidio saeculo ante Cobetum, NL p. 61, qui neque hic neque multis aliis locis criticorum commentarios inspexit; alioqui vidisset v. cl. etiam sequentia verba in omnibus libris sic ut ipse haec correxisset sibi videtur scripta esse». Nell’incipit di Lys. 865 egli adotta la lezione di Hermann, non riesce tuttavia a tacere un alternativo (!) emendamento: «ut ego olim et nuper Cobetus», ma dichiara in conclusione «at praestat illud», tradendo una futile rivalità, almeno generazionale (egli restò, suo malgrado supponiamo, perenne Schulmeister).

    Eccessivo deve dirsi il giudizio di K. Dover (Aristoph. Frogs, 1993, XII n. 1) sulle stesse Rane, commentate da F.H.M. Blaydes (Halle 1889). Esso conduce alla esasperazione, già espressa da C. Holzinger un secolo prima: «Highly unreliable» sarebbero le informazioni sulle lezioni dei codici, insufficiente risulterebbe del resto la valutazione dei medesimi. Gli emendamenti cui indulge Blaydes sono giudicati «often frivolous and reckless», biasimevole l’entusiasmo con cui egli adotta consimile paccottiglia altrui, intollerabili le ripetizioni: suscitano il sospetto, che i materiali siano finiti in tipografia senza ulteriore revisione. L’esuberanza dei paralleli linguistici e stilistici (ma anche esegetici e topici!), da lui forniti, risparmierà tuttavia molte fatiche agli studiosi, che egli incita a darne riconoscente atto. In realtà Blaydes, a dispetto della erculea fatica, si muove su un piano prevalentemente fenomenologico, di rado creativo.

    Nelle successive edizioni di Aristofane non emergono personalità di rilievo, malgrado gli innegabili meriti, che sovvengono all’emergente (o compulsivo?) culto: in cui razionalità, diligenza, esibizioni dottrinali prevalgono sulla intuizione, sulla impazienza metodica e funzionale, su quella reattività culturale che privilegiava gli immensi introiti sulla autenticità del prodotto. La edizione Oxoniense (1900, 1906, ristampe reiterate) risponde a pragmatici criteri, alla globale disponibilità del mercato, che pretendeva agevoli, in sostanza manualistici strumenti. Strutturalmente condannati alla sommarietà delle scelte, privi di indicazioni quanto meno fattuali. Speciosa è la allegata fruizione da parte di generici letterati, storici, archeologi, sedicenti antichisti: ogni e qualsiasi testo è per definizione critico, se riesce a colloquiare con vocazionali utenti, piuttosto che mirare ad una essenzialità, che sarebbe arrogante predeterminare, funzionalmente attivare. Qualcuno ha spiritosamente asserito, che «il mezzo è il messaggio»: sarebbe azzardato sostituire al medium fisico la modalità finalisticamente prescelta, si rischia di subordinare il circuito comunicativo alla pertinenza della fruizione. Il recupero filologico ha dimensione tutt’altro che rudemente predeterminata, aspira (con esigua probabilità di successo) al restauro di una identità quanto meno sostenibile, suggerirebbero pragmatici economisti, interessati al massimo, anche se dequalificato profitto.

    Con sommaria speditezza, l’Aristofane oxoniense ha consentita una diffusione planetaria (connessa con la economicità, per produttori ed utenti), ha privilegiata una dimensione programmaticamente ristretta, ma tuttavia aggiornata, ha realizzata una capacità sinottica non spregevole per chi cerchi istantaneo orientamento nei meandri di una complessa ed eteronoma tradizione. L’Index Aristophaneus del Todd (1932) è funzionalmente condotto su questa edizione, innegabilmente standard, che ci auguriamo persista sulla collaudata linea anche nella nuova (e competente) sostituzione, che si annuncia imminente. La riedizione della vecchia (1883) Concordance del Dunbar, da me riveduta nel 1973, fu aggiornata sul consolidato testo di Hall e Geldart, perché generalmente disponibile, soprattutto per quanto riguarda i frammenti intollerabilmente legati al preistorico Dindorf. Alla seconda edizione (apparsa l’anno successivo, rapidamente esaurita) farò seguire una ulteriore revisione dei medesimi, condotta sulla imponente fatica di Kassel ed Austin (Poetae Comici Graeci, III 2, Berlin-New York 1984, ove raggiungono il migliaio, erano 740 nel Dindorf, 781 nella Oxoniense).

    L’abbandono delle rigorose prospettive lachmanniane verrà severamente ingiunto, nella geometrizzante Textkritik di Paul Maas (1927). Rudolf Pfeiffer conclude la sua luminosa History of Classical Scholarship (1300-1850), Oxford 1976, p. 190 n. 1, sottolineando, in una malinconica nota, che «Paul Maas nella Textkritik non ricorda neppure il nome di Lachmann». Le procedure degli anomali studiosi inglesi appaiono dettate da schietto empirismo, che tempera l’estremismo di un Cobet, il quale giudicava i due preminenti codici di Aristofane (Rav., Ven.) «inter deterrimos corruptissimosque libros esse» (Novae Lectiones, 1858, pp. 253s.). Si adagiano, prudentemente, su posizioni in sostanza conservatrici, in genere tuttavia aggiornate.

    Ha espropriata in verità la scena (si fa per dire) la edizione curata da Victor Coulon, ormai ottant’anni fa, con traduzione e note di Hilaire van Daele, nella disuguale collezione «Les Belles Lettres». È attualmente in corso una sua ristampa, promossa da Jean Irigoin, che fornisce «des corrections mineures au texte», qualche aggiornamento papiraceo, cenni di recente bibliografia: in realtà una tredicesima ristampa, «revue et corrigée», anche se sfuggono modalità, indicazione dei luoghi interessati. Della medesima indulgentemente si rimarca, che «fu salutata da ampie lodi al suo apparire, attualmente divenuta oggetto di ingenerose critiche». Altri ribadisce, che l’accoglienza sia stata largamente positiva: in verità risultano convenzionali gli elogi, nella maggiore parte tessuti dai connazionali. La decantata fortuna appare dovuta alla ambigua segnalazione del Wilamowitz, che nella bimensile «Deutsche Literaturzeitung» (1924, pp. 37s.) gli dedicava qualche decina di righe, proclamandola «senza dubbio il più utile testo di Aristofane», sebbene «tutt’altro che affidabile, salvo che nei cantica delle Nuvole» (sic). In questa imbarazzante scia si pose Giorgio Pasquali, suo scolaro (e mio Maestro). Si trattava, in realtà, di una persistente quanto sommaria convinzione, formalizzata nella Storia della tradizione e critica del testo (1934, p. 194). Dichiarate di «grande valore» le due memorie preliminari del Coulon, si annuncia che l’autore ha «di recente coronato la sua opera con una buona edizione, nella quale i papiri sono adoperati diligentemente e valutati assennatamente». Sarebbe ulteriore merito averne confrontato «i codici bizantini tra loro, con l’archetipo, con la tradizione indiretta»: in realtà a scapito della medesima, disinvoltamente ignorata, o confusamente manipolata (cf. W. Kraus, Testimonia Aristophanea, Akad. d. Wiss. in Wien, LXX , 1931, 4s.).

    Non tardarono, tuttavia, critiche severe e diffidenti: viene taciuta (in verità rimossa) la recensione di Peter von der Mühll, in «Gnomon» I (1925) 318-23, ricca di paradigmatici ammonimenti. Dopo aver richiamato le edizioni del Bergk e del Meineke, affermato che la edizione di Hall e Geldart costituisce uno sconcio (Unzierde) nella collana oxoniense (l’ingiuria era del Wilamowitz, nella citata recensione), nonché biasimata la «inutilità» di Blaydes e di van Leeuwen, lo studioso giudicò l’opera del Coulon «un effettivo progresso»: malgrado fondata unicamente sui due codici maggiori (R,V), trascurando i pur disponibili Parisini, la rimarchevole Aldina. Lamentava il numero eccessivo dei refusi, incongruenze varie, interpunzioni spesso arbitrarie, sebbene tradizionali. Biasimava la ignoranza delle nuove edizioni (Frinico, curato dal de Borries già nel 1911, per non dire del Liddell-Scott stesso, su cui torneremo), la frequente confusione tra materiali scoliastici e varianti. Inefficaci e dispersive risultano le ostinate rimostranze dell’Autore, nella unica «Revue des Études Grecques» (salvo in «Philologus», XCV 1943, 31-54).

    Stucchevolmente, siffatte repliche confermano la coazione del solitario Coulon, ma anche le ristrette competenze, le divaganti ed approssimative informazioni, i limiti provinciali e fin asfittici, la abituale negligenza di ogni e costruttivo precedente. Dichiarano l’assenza di una prospettiva storica, essenziale, a dispetto della filologica presunzione. Ricorrono di rado non pochi nomi degli studiosi sopra ricordati: il già citato Wilamowitz ammoniva, che «uomini come Elmsley e Dobree conoscevano la lingua effettivamente meglio degli odierni devoti della tradizione», tra questi credenti spicca il Coulon. Latitanti sono del resto i moderni (ed irrinunciabili) Hilfsmittel, con lucida competenza elaborati nell’antecedente secolo. È ignoto il poderoso armamentario, soprattutto linguistico e stilistico, da tempo disponibile, la cui assenza minaccia ogni attendibilità critica. Raramente si indica il Liddell-Scott (ma talvolta lo scolastico Bailly), con una approssimazione che sconcerta: quale sarà la «nouvelle édition» di questa opera, se non quella del 1897, considerato che la «New (ninth) completed» apparirà nel 1940? Lo Schwyzer, almeno nelle ultime repliche del Coulon, era già fruibile (1938), ignorato è il precedente Brugmann. Del Kühner-Gerth, del Kühner Blass, dello Stahl scarse tracce. Ma nessuna dell’Index Aristophaneus, tanto meno della insostituibile Concordance pubblicata da Henry Dunbar nel 1883, largamente a suo tempo diffusa (da me aggiornata successivamente). Nessun risarcimento avrà fornito «l’excellent refont du Manuel de E. Ragon, la Grammaire complète de la langue grecque à l’usage de l’enseignement secondaire et supérieur, par E. Renault» (1929): elettivo condomino del Coulon, che ottenne la «venia docendi» soltanto nel 1933, fu quindi inamovibile «Professeur au Lycée Kléber», a Mulhouse (Strasburgo). Si sottolinea, per altro, che fu allievo di Bruno Keil, un classicista, di cui non c’è traccia nei correnti repertori. La edizione del Coulon risulta inizialmente progettata per la Teubner, in sostituzione di quella canonica, del Bergk! La esclusione dal mondo accademico sorprende, è significativa: il commercio (spesso il contrasto) con i Colleghi garantisce provocazione e controllo, impedisce graziosi solipsismi.

    Tuttavia, in una delle sesquipedali repliche del Coulon («REG» LXI [1953] 38,2) si legge, a proposito del controverso Plut. 1011: «Bentley a corrigé avec bonheur [?] βατ(τ)ιον en φαττιον. Mais les mots νητταριον et βατ(τ)ιον ont fait faire au grand philologue une petite faute d’accentuation: accentuons plutôt φαττιον». Non si tratta di un errore, tutt’altro che minimo: il nome proprio (amoroso vezzeggiativo, appioppato ad una vecchia insaziata), nella fattispecie si distingue oppositivamente dal generico sostantivo ritraendo l’accento, non diversamente da Γλαυκος vs γλαυκος (la baritonesi in realtà è dovuta al sostanziale vocativo, in cui consiste l’adnominatio, cf. Schwyzer, I 380 d). Malgrado la tardiva presunzione, Coulon scrive nel suo testo φάβιον (con la minuscola), imputa siffatta correzione al Meineke, che a dispetto del Bentley dichiarava vulgato il risolutivo emendamento. Ignoto allo stesso Bergk, che proponeva un fantasioso βαβιον, ispirandosi a Phot. Bibl. 341 b 14, ove l’improbabile lessema viene assimilato a μειρακιον (in realtà, è un teonimo siriano).

    Rari sono i casi, in cui il guardingo Coulon modifica il testo suo Marte. Significativo è, tuttavia, quello di Ran. 790, dove Eschilo cede il trono di sommo poeta a Sofocle, appena giunto all’Ade. Nominatolo espressamente, nel v. 788 immediatamente successivo viene ribadito con εκεινος, dimostrativo che nel v. 790 ritorna irrefutabilmente riferito a Eschilo, detentore del trono (cf. 769, ove εκεινος è generico anaforico). La ripetizione è sembrata, non solo al Coulon, rozza se non ambigua, molti tentano di attribuirla a Eschilo, eroicamente altri espunge il verso. Il nostro editore non si perita di emendarlo, sostituendogli un… anagrammatico κανεικος, col presunto supporto di ανευ μαχης ricorrente in Vesp. 471, rimandando al νεικη del v. 818, al νεικος del v. 1099. Verosimilmente però memore del v. 82 (ο δ’ ευκολος μεν ενθαδ, ευκολος δ’ εκει), cf. l’antonimo in Aristotele (Rhet. II 1381a 31) ευκολοι και μη φιλονικοι (immo -ονεικοι, coll. Hesych. f 516, una patente coppia contigua: φιλονεικος …, φιλερις = Menand. fr. 758 K.-Th.) και δυσεριδες. Se tuttavia φιλονεικος è disponibile, senza documento o ragione risulta il mostruoso κανεικος. Generosamente F.W. Hall, editore dello sbrigativo Aristofane oxoniense, lo dichiara un semplice «misprint», di cui l’opera a suo dire sovrabbonda («ClPh» XLIII [1929] 66-8).

    È sfuggito, che l’ambiguo κακεινος persiste ossessivamente nella narrazione del servo, il cui registro è istitutivamente basso, la cui penuria linguistica fa ricorso, in minori o minorati, al primordiale deittico: provvederanno gestualità, collocazione spaziale, a localizzare univocamente la indifferenza di un siffatto indicatore. Si tratta, insomma, di un segnale puro, non di un segno, dotato di razionale senso: costituisce dimostrativo, tipicamente scenico, però non decifrabile sul piano verbale. Il tràdito κακεινος ha questa indifferente funzione: fraintenderlo, storpiarlo è sciatta iniziativa. Nel v. 769, il medesimo Eschilo, cosí come nel verso precedente, viene indicato dal perentorio εκεινος, espressivo anaforico. Del resto, che υπεχωρησεν indichi lo «spostarsi» (per accogliere qualcun’altro sul trono), è generalmente sfuggito. Senofonte offre un esempio (Mem. II 3, 16), per cui il più giovane userà dovunque cedere il posto all’anziano. Se per Eschilo si adopera υπεχωρησεν, in luogo del completivo παραχωρησεν, si intende l’imbarazzata circospezione con cui il vecchio poeta agisce. Sofocle torna in dativo, per indicare, come in Tucidide ( I 77), il riguardo dovuto al «vincitore»: χρεων τον ησσω τω κρατουντι υποχωρειν.

    A dispetto di ogni (e costitutiva) prudenza, il difetto di prospettica intuizione costringe il Coulon ad altre imprevedibili imprese, degne di banali crittogrammi. Nelle Tesmoforiazuse (724s. ταχα δε μεταβαλουσα τυχη), egli rifiuta il tradizionale (R) ταχα: lo sostituisce con un precipitoso ταχυ, richiamando un incondito ταχυμεταβολος (per quanto attestato nel matematico Tolemeo, secoli più tardi). Che la fortuna si associi a fulminei (e non eventuali) mutamenti, era proverbiale convinzione, già ricorrente in Euripide (HF 885 ταχυ τον ευτυχη μετεβαλεν δαιμων, sia ταχυβουλους sia μεταβουλους ricorrono già in Ach. 630 et 632, nonché in Nub. 811 ταχεως φιλει γαρ πως τα τοιαυθ’ ετερα τρεπεσθαι. La correzione sarebbe impeccabile, solo per chi trascurasse che ταχα (per altro equivalente a ταχυ) è stilema aulico (Omero, Pindaro, tragici, raramente la prosa, altrimenti ricorre soltanto se marcato dal futuro). Esattamente come nel nostro caso, a conferma della tradizione, a dispetto di insipide improvvisazioni: si tratta, dunque, di alta caratura stilistica. L’incongruo uso comico obbliga a considerarlo paratragico, canzonatorio. Come in Ran. 527, ove ου ταχ’ αλλ’ ηδη ποιω costituisce una irridente assicurazione di Dioniso, diretta allo sventurato Santia. La rarità di siffatte occorrenze comiche di ταχα è più frequente di quanto Liddell-Scott (p. 1762) azzardino: basti rimandare ad Ach. 332 ταχ’ εισομαι, Nub. 1144 ταχα δ’ εισομαι, Pax 1315 ταχα μεταμελησειν, nonché Av. 1390, Thesm. 853, Lys. 1114, Plut. 647.

    Al di là delle incertezze, dei persistenti sospetti, dei frequenti dispetti, il mio testo di riferimento è rimasto quello del Coulon, una frequentazione di almeno cinquant’anni. Non lo era invece per Giorgio Pasquali. All’inizio degli anni Quaranta, rivedo nelle sue mani (esultanti, come la voce, la postura, per la provocatoria arguzia di Aristofane) i due scarni volumetti della Teubneriana, sagacemente curati da Bergk (1852): agevoli strumenti di eccentriche lezioni (in realtà coinvolgenti performances), tra i banchi disastrati del vecchio Ateneo fiorentino. Per un caso, non soltanto fortunato, mi sforzavo di seguirlo su una identica copia della medesima edizione, con la sigla di mio Padre, e l’infausta data del 1916 (giovanissimo studente, egli era al fronte, in una allucinante trincea). Sui pregi del Coulon, Pasquali non ci aveva mai intrattenuti, per quanto del suo cordiale fastidio verso i colleghi francesi non facesse mistero. Una eccezione, in particolare per le pretensiose «Belles Lettres», egli riservava giusto al Coulon, sebbene preceduto dal suo Maestro Wilamowitz. Dubitavo, mio malgrado, che egli possedesse l’opera: per giunta onerosa, costosa, afflitta da traduzioni, annotazioni di rado esaltanti. Tra i suoi libri (oggi presso la Normale di Pisa) se ne trovano in realtà due copie.

    La mia generazione si è nutrita tuttavia del Coulon, la mia copia fu prestissimo interfogliata (sull’esempio di Vitelli, nel cui Gabinetto fiorentino eravamo accolti in pochi), è oggi gualcita e consunta, onusta di rimandi e annotazioni, ormai non tutte decifrabili, che instancabilmente le ho consegnati. I primi materiali, che (confusamente) le affidavo, confluirono in un articolo («Maia» VI [1953] 99-124), dedicato allo Strepsiade delle Nuvole: al significato emblematico del suo nome, non di vecchio avaro e bizzoso, ma precocemente innamorato di novità scientifiche e culturali, in verità di esperienze logiche, dialettiche, irridentemente sofistiche, che lo coinvolgevano sulla piazza di Atene, lo dichiaravano destinato alla «truffa» (στρεφειν). Contestualmente pubblicavo una traduzione delle Nuvole, in vista di quella «Commedia Classica», apparsa due anni dopo. Non intendevo in realtà tradurre, ma elaborare un blueprint dell’intrigante oggetto: uno strumento interpretativo prima che consumistico, o dilettosamente compiacente.

    Mi sorprese l’immediato invito di Einaudi a tradurre l’intero Aristofane: un saggio ed esperto amico (era Antonino Pagliaro, umanissimo linguista) mi suggeriva di accettare, soltanto se ritenevo che l’operazione potesse costituire un Lebenswerk. Si è sempre più rivelata occasione di epistemica sperimentazione, piuttosto che di specifica ricerca, di tecnico esercizio. Mi impegnai, abbandonai la rielaborazione (teubneriana) dei frammenti di Cratino, mi dedicai con impazienza al suo giovane rivale, di sicuro meno austero, ma incandescente, imprevedibile. Impiegai quindici anni, per produrre il mio Aristofane, perennemente contrastato (e licenziato) da intolleranti editori. Devo a Vito Laterza, già contubernale nell’Università fiorentina, se, nei perentori sei mesi da lui concessi, nel 1968 la distocica opera finalmente apparve: a dispetto non solo dei santi, fu insignita del Premio Viareggio, giudicata autonoma e gioconda opera letteraria.

    Gli usuali parametri del tradurre in realtà deludevano (né solo in questa occasione), mancavano pertinenti strumenti di indagine, di verifica testuale, più spesso di suggestione, linguistica, ma non meno topica. Mancava una Concordanza, repertorio sinottico, dal punto di vista stilistico e strutturale indispensabile. Günther Jachmann, con affettuosa generosità, mi cedette la sua copia della medesima, pubblicata ad Oxford nel 1883, da Henry Dunbar. Costui era semplicemente un medico, intrepidamente appassionato di greco, tre anni prima aveva pubblicato una analoga Concordanza alla Odissea, istigato dal Prendergast, altro aficionado del greco, autore dell’analogo repertorio, dedicato alla Iliade (1875). Di ambedue, ma sicuramente del Dunbar, appaiono dubbie le conoscenze linguistiche, le competenze critiche. In realtà, non si ponevano altro scopo che fornire ai versificatori in greco, di moda nella Inghilterra vittoriana, dei compiacenti Gradus ad Parnassum. La copia regalatami da Jachmann era incredibilmente gualcita, ridotta a brandelli (da precedenti fruitori?). La veneranda reliquia l’ho in seguito affidata alla migliore dei miei scolari: a giudicare dalla corrente bibliografia, la ristampa non mi risulta recepita ed utilizzata a dovere (per quanto esaurita anche la nuova edizione). Rimango certo del profitto, assicurato a chiunque abbia la curiosità, più ancora l’istinto, per questi supporti sinottici. L’elaborazione, oggi allegramente elettronica, di consimili sussidii non garantisce né della loro affidabilità, tanto meno della proficuità. Smisurata è la manovalanza di pretesi specialisti, che instancabilmente compicciano una congerie di tecnologici (!) strumenti, in realtà prodotti di vile mercato (anche accademico).

    La mia traduzione di Aristofane muoveva, pragmaticamente, dall’invadente Coulon, obbligata a confrontarsi col medesimo studioso, anche nelle successive edizioni e ristampe. Dei molti dissensi ho dato in genere pubblico conto: nella mia apposita Rivista («Museum Criticum», giunta alla XXXV annata, chi ha detto che l’ho chiusa?), sono apparsi decine di miei articoli ed annotazioni aristofanee, innumerevoli sono i contributi di scolari e sodali, in gran parte stranieri. Affidai a «Philologus» (del cui Beirat faccio parte dal 1970) la più impegnativa delle mie indagini: la inversione dei due ruoli protagonistici, nei già paradossali Uccelli ( CXIV [1970] 181-94). Malgrado le rispettive e contrastanti parti fossero drammaturgicamente obbligate, perché funzionali (ne abbiamo accennato all’inizio), la tradizione le aveva colposamente invertite. Si tratta della convenzionale coppia di servi (gagliardamente contrastanti nell’esordio dei Cavalieri), non di imponderabili personaggi. Essi costituiscono dei tipici attanti, per cui indicarne nominativamente la pertinenza risultava secondario, se non ridondante compito editoriale: il tremebondo Evelpide, esaurita la strabiliante impresa, scomparirà precocemente, definitivamente (vv. 845s.). Il più razionale socio lo spedisce a quel paese (in via di costruzione), l’attore resterà disponibile per altro ruolo, non impiegando il teatro attico più di tre interpreti. Soprattutto quando non esistevano, né occorrevano copioni (l’Autore dirigeva di persona, sulla scena), tantomeno usuali erano testi di lettura, la cui invenzione sarà vanto di Euripide, nelle Rane (v. 1114), sottolineandone la proficua, se non rivoluzionaria utilità. Non solo ogni postumo fruitore, ma già (letterati) redattori, prima Alessandrini quindi Bizantini, gli stessi Umanisti saranno condannati a strologare su questa come su ogni interlocuzione del teatro antico, di quello greco e non meno del succedaneo latino.

    Siffatto enigma strutturale è largamente diffuso, oltre che negli allucinati Uccelli, nella problematica Pace, nella centrifugata Lisistrata, nel trionfante finale, e tuttavia negato (con un ukase di Wilamowitz) alla stessa eroina, ma anche nelle Ecclesiazuse, che sostanzialmente ricalcano il medesimo schema conclusivo. La modalità, significativamente corale (e rituale) dell’esodo, rischia confusioni difficilmente rimediabili, se non commisurate ad un modello funzionale: ma anche ed estrosamente inventivo, trattandosi in sostanza di un rumoroso baccanale, tipicamente, sacralmente dionisiaco. Ma in specie Lisistrata, addirittura nella scena finale, dovrebbe sopportare l’esclusione, cedere il protagonistico ruolo al Coro, cui verrebbero trasferite funzioni tutt’altro che coreografiche.

    Del tutto sfuggito, ancora una volta in questo Esodo, è un malizioso se non maligno espediente comico. Ricorre in un munifico invito a cena, indirizzato a tutto il pubblico, agli stessi giudici di gara: ironicamente però messo in forse, quindi e irridentemente negato, dal Corifeo in persona: «Venite, ma non vi assicuro che il portone non sia chiuso» (v. 1071), «attenti al cane» egli avvertirà successivamente (v. 1215), improvvisando lepidezze più che insipide, triviali. L’ammiccante celia, ovviamente malintesa nel contesto divenuto letterario, si imperniava con finezza in un dubitativo avverbio, ισως, banalmente trasformato in ως (da «forse» in «affinché»), a spese della comicità tuttavia patetica.

    Abbiamo recuperato esempi numerosi dello smagato comodema: un modulo comico, formalizzato da Platone (Leg. 816d), addirittura Plauto lo eredita dalla tradizione comica, perpetuata nei suoi latenti modelli greci (cf., in particolare, Amph. 328 quia domi daturus nemost prandium advenientibus, gli ulteriori passi sono indicati nella Appendix critica, infra p. 1118: l’indagine andrebbe sistematicamente approfondita, la matrice è già in Aristofane (Vespe 60), ove il vorace Eracle viene truffato del pranzo. Ma se alla fine delle Ecclesiazuse (vv. 1147s.) burlescamente si consiglia ai famelici invitati di ripiegare tuttavia sul proprio desco, nella Lisistrata apertamente si diffida dal varcare l’uscio del protervo anfitrione, per via di un mordace cane (vv. 1212-5). Nella medesima commedia (vv. 1057-71) analogamente si avvertivano gli ingordi invitati, che troveranno l’uscio… sbarrato. Con più fulminante scherno, Plauto ingiungerà, nel verso conclusivo dello Stichus (775): vos, spectatores, plaudite atque ite ad vos comissatum, quanto dire «andate ad abboffarvi a casa vostra!». Significativo è che la tradizione candidamente recava ad nos (ci attenderemmo tuttavia venite), il sarcastico vos è del Palmerius, conterraneo e coetaneo di Molière! Sarà pertanto inevitabile, nel penultimo verso della Pace (1356), trasformare il tradito καν ξυνεπησθε μοι πλακουντας εδεσθε, nel dubitativo, in realtà irridente, καν ξυνεπησθ’ <ισως> πλακουντας υδεσθε: trasformare il bugiardo «Seguitemi, mangerete pasticciotti», in un beffardo «seguitemi, forse vi abbofferete», come accadeva nel cit. Lisistrata 1082. Il rituale invito è per gli spettatori, non per i Coreuti, a dispetto di candidi interpreti. Questa era convinzione di molti, l’imprevedibile Coulon (sulle tracce del Dindorf) appioppa l’invito a Trigeo, in realtà il festeggiato.

    Nel tradurre, ho pragmaticamente seguito il tracciato, non la traccia del Coulon, o del suo delegato interprete, un certo van Daele: le cui contorsioni sono palmari. Ho proceduto con inquietudine crescente, divorzi radicali, né unicamente strutturali. L’attuale Editore del mio Aristofane, con lo straordinario senso del prodotto che ne distingue il Catalogo, propose (ed ultimativamente ha sostenuta) la necessità di affiancare il testo greco alla disinibita traduzione. Sapeva bene che, salvo eccezioni sparute e parziali, non disponiamo di una più moderna partitura di Aristofane, integrale nel fatto, ma soprattutto negli intenti, quanto meno culturali, incongruamente divenuti letterari. Gli appariva, generosamente, sufficiente estrarre dalla mia petulante rielaborazione l’originale ordito, come rovesciassimo un guanto. Una operazione, se non assurda, illusoria: di sicuro impraticabile, immetodica già nel principio. La edizione di testi classici, di ogni prodotto umanistico, non può prescindere dalla sua tradizione materiale, induttivamente attraversandola dovrà risalire allo stadio originale: per mezzo dell’intelletto, secondariamente della intelligenza, perseguire uno spartito non più che virtuale, provvisoriamente sostenibile.

    Portava il nome di Karl Lachmann siffatto procedere (il ridanciano Berni reintrodusse l’emblematico archetipo, all’inizio del Cinquecento), positivisticamente privilegiando la forma sulla sostanza, la identità dell’opera sulla entità: faceva perno sugli errori comuni dei codici per ricostruirne la genealogia, addirittura l’ingegnoso archetipo, un denominatore geometricamente prossimo all’originale. Pretendeva un rigoristico azzeramento dell’oggetto, per difenderlo dagli arbitrii della interpretazione, da presupposti e preconcetti estranei ad una orgogliosa scienza del testo. Questo approccio impregiudicato si definiva höhere Kritik (superiore!), non ricordo di essere mai inciampato in una mortificante niedere Kritik: nessuno l’avrebbe elettivamente praticata, nessun vanto si poteva riconoscerle. La impositiva dicotomia ha condotto a edizioni più promulgate che dimostrate. Ove ingigantisce il sospetto, che il moderno studioso abusi di una estorta franchigia, in nome del metodo e del rigore si assolverà dall’obbligo (nonché primario, essenziale) di capire, intendere, dimostrare: solo espungendo, tuttavia, il sistematico controllo tra significanti e significati, bandito quel sinergismo che è basilare per la costituzione di un testo, per ottenere il recupero di un messaggio, non esclusivamente in ambito classico, assunto a sommario paradigma. Gli Stoici (Crisippo, fr. 166 von Arnim) avevano identificato la reciproca interazione fra i due fattori linguistici e la realtà enunciata, Saussure l’ha modernamente formalizzata: ridursi al grado zero della espressione è delirante.

    In apparenza, il mio impegno consisteva nel trasporre una entità rozzamente ontologizzata da un codice linguistico ad un altro. La convinzione è ingenua e disastrosa, se ogni testo nasce in virtù di un codice linguistico rigoroso ed esclusivo, di conseguenza non ripetibile, tanto meno imitabile. Tradurre costituisce una rottura inconsapevole (né sempre autentica o generosa) di una identità, che declinata, trasposta, ultroneamente interpretata, si contraddice nei termini. Offende la genuinità, la originalità e connessa novità di ogni comunicare, che si astenga da trivialità. La traduzione, per dozzinale aforisma, si ritiene destinata al tradimento: confligge, nega se stessa, soprattutto se fortunata. Viene infatti consegnata alle virtù (si fa per dire) di un mediatore, a scapito dell’Autore. L’esempio del Monti, suggestivo ritraduttore della Iliade, costituisce significativa quanto disattesa ammonizione.

    La tentazione del testo greco, cui mi sono lasciato indurre, non era né poteva essere mio dissennato scopo. Essa ha valore non più che strumentale: marginalmente formalizza, infatti, soltanto i luoghi e i punti in cui abbandono il testo di riferimento, dichiaro ineludibile dissenso, fornisco proposte più adeguate per la intelligenza di un accidentato monumento, tentandone la ricostruzione verbale, strutturale, ma non meno intenzionale. È sfida occasionale, quindi discontinua, consapevolmente provvisoria, di un testo maliziosamente anomalo, perché comico: il cui irripetibile privilegio è nella sistematica doppiezza, la biplanarità spesso latente tra il concepire e il dire, nutrito di una ambiguità provocatoria, irridentemente però inesplicabile, a distanza di millenni. Si tratta di un gioioso, ammaliante messaggio, la sua erudita (in realtà storica) renitenza vieta di spregiarlo come oscuro, quando non banale o inconsistente.

    Paradossalmente, ho dovuto accollarmi una ulteriore, impreveduta traduzione: non più verso la nostra (riottosa, anchilosata) lingua, ma da questa alla sua baluginante, in realtà virtuale scaturigine. Usando nella duplice operazione dei medesimi strumenti, tecnici e concettuali, obbligandomi ad escursioni ed elucubrazioni incessanti, ma appassionanti, a soluzioni talvolta inattese, ma remunerative. Ho dovuto convincermi, che Aristofane, come ogni Autore (non solo antico), è irrecuperabile: si alimenta di tentativi e molteplici errori, di gusto più che dottrina, sostanzialmente di common sense (che è sagacia, diversa dal senso comune), esige talento scientifico, sensibilità letteraria. L’Aristofane che ho perseguito non costituisce un target, per la sua mobile, suppositicia natura consiste soltanto negli sforzi, nel vigile rilevamento degli ostacoli (in genere silenti), nei rimedi volenterosamente escogitati da generazioni di studiosi: in realtà di instancabili, né sempre risarciti sospiti. Si identifica, per dissimulati impulsi, col wishful thinking di ogni e non mediocre studioso.

    La revisione critica messa in atto non ha nulla di autonomo, o di contingente. Ansiosamente ho scrutinato (e più volte compulsate) numerose edizioni, e premesse, note critiche del passato, dagli umanisti ai più giovani e compunti esercenti: ivi compresi scoliografi e glossografi, antichi e bizantini. Ne ho sempre tratto vantaggio, ammaestramento, più di rado fastidio: restandone anche materialmente risarcito. Le illuminazioni del grande Bentley, il felice acume di Bergk, la sagacia di Meineke, non soltanto arricchiscono, ma convincono che il vero Aristofane è nella felicità del pensiero critico, nell’arruffato intrico delle postume vicende, di quella che si immagina la sua

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