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Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacchides
Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacchides
Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacchides
E-book585 pagine4 ore

Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacchides

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Info su questo ebook

Cura e traduzione di Ettore Paratore
Edizioni integrali con testo latino a fronte

Plauto è il simbolo stesso del teatro romano antico: testimone di un periodo storico estremamente complesso e articolato, riflette con straordinaria varietà e perizia linguistica e con sorprendente slancio inventivo la delicata congiuntura che si era venuta a creare al suo tempo tra la cultura latina popolare di derivazione etrusca e quella raffinata proveniente dalla nuova intellettualità greca. La sua molteplice attività di autore, attore e organizzatore di spettacoli, nonché l’inesauribile ricchezza di spunti e di intrecci tematici tipici della sua spigliata comicità, contribuiranno, con il ricorrere di figure e stereotipi caratteristici, alla nascita del teatro rinascimentale e della commedia dell’arte. «Il vero Plauto», scrive Ettore Paratore, «si coglie nelle sbrigliate variazioni dei suoi dialoghi, in cui il termine plebeo scelto apposta, il gioco di parole, il lazzo, la battuta buffonesca, le facezie a botta e risposta crepitano incessantemente, per provocare con ogni mezzo la risata clamorosa e gioconda».

«Io sono quell’Anfitrione che ha per servo quello stesso Sosia che ridiventa Mercurio, quand’è opportuno: abito lassù, al piano superiore [accenna al cielo], e ogni tanto, quando mi garba, ridivento Giove.»


Plauto

Tito Maccio Plauto nacque tra il 259 e il 251 a.C. Le notizie relative alla sua vita sono poche e incerte, ma pare che la sua dedizione alla professione teatrale in tutte le sue forme fosse totale e assoluta. Particolare fortuna ebbero le sue commedie durante l’Umanesimo: lette, rappresentate in latino e tradotte, furono un punto di riferimento essenziale anche per autori come Ariosto e Machiavelli.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854129061
Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacchides

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    Anteprima del libro

    Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacchides - Plauto

    283

    © 1978, 1992 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 9788854129061

    www.newtoncompton.com

    Prima edizione digitale: gennaio 2011


    Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl


    Tito Maccio Plauto

    Amphitruo • Asinaria

    Aulularia • Bacchides

    Cura e traduzione di Ettore Paratore

    Edizioni integrali con testo latino a fronte

    Introduzione

    Alla memoria di Luigi Almirante, Annibale Ninchi, Giulio Pacuvio e Camillo Pilotto, che collaborarono felicemente alla prima rappresentazione di commedie plautine da me tradotte.

    Plauto è il gigante che torreggia ai primordi della letteratura latina in una posizione di isolamento, di distacco da tutta quella che sarà la tradizione più tipica della civiltà spirituale e letteraria espressa in quella lingua. Fra i commediografi del mondo classico uno solo gli può stare alla pari per veemenza di effetti comici e farseschi, per voluttà ed ebbrezza di abbandono alle seduzioni di uno sbrigliatissimo estro ridanciano e fallico, per sapiente irruenza e varietà di ritmi, per gransignoriale, multiforme, spericolatissimo dominio del mezzo espressivo: l’ateniese Aristofane. Ma Aristofane s’inquadra alla perfezione nei modi più tipici della civiltà attica giunta all’apogeo; Plauto invece ci appare come un prodotto abnorme della civiltà latina, come il frutto più sugoso e più caratteristico del cosiddetto arcaismo nella più essenziale accezione del termine, cioè come la voce indubbiamente più autentica della latinità del suo tempo, ma che, appunto per essere così inconfondibilmente profondata nel suo tempo, non ha nulla che vedere con la successiva conformazione aristocratica, elitaria della cultura latina, col suo ideale di un severo e pacato dominio degl’impulsi, del riflessivo rispetto per l’esemplarità delle gesta e delle figure più eccelse, e – sul piano più squisitamente letterario – del labor limae, della tendenza a un linguaggio che, con una sapiente esperienza di certe ben delimitate e catalogate volute espressive, sapesse assicurare alla resa formale di un ben calibrato contenuto di virile interiorità una prestigiosa duttilità di chiaroscurali movenze, fatta soprattutto di calcolata sprezzatura.

    L’epitafio che la nascente cultura grammaticale romana seppe costituire per il grande commediografo e che ne additava a buon diritto il più alto valore nella miracolosa ricchezza e versatilità dei ritmi e del linguaggio, fu il portato di un’epoca in cui egli era ritenuto ancora l’autore di maggior successo. Il prologo della Casina, nella parte rimontante a una ripresa postuma, lo rivendica e lo esalta come l’unico autore capace di sedurre i gusti del pubblico e di richiamare folla in teatro, a dispetto dei nuovi commediografi, dei banditori di quello che con moderna terminologia potremmo definire «il teatro dell’avvenire». Vi si avverte un atteggiamento che potrebbe essere ricondotto a quello, p. es., dei fanatici di Verdi nel periodo in cui il diffondersi della musica wagneriana poneva in discussione tutta la più recente nostra tradizione melodrammatica. Successivamente, se le sue commedie continuavano a esser recitate nell’ultimo secolo della Repubblica (come del resto anche le tragedie di Nevio, di Pacuvio e di Accio), l’opera sua trovava echi solo negli ambienti più caratteristicamente tradizionalisti e conservatori: Varrone gli dedicava il meglio delle sue capacità di filologo, fissando il canone delle ventuno commedie sicuramente autentiche, accanto al quale tracciò un elenco di altre diciannove commedie di autenticità probabile ma ancora discutibile¹, e nutrendo le sue Menippee di vocaboli, movenze, situazioni e nomi di Plauto. Ma anche lui, nel passo di una Menippea dedicato specificamente ad un profilo critico della commedia latina nei secoli precedenti, il fr. 15 B. del Parmeno, lodò al solito di Plauto il magistero linguistico, ma riconobbe la superiorità di Cecilio Stazio nella struttura delle commedie e di Terenzio nella caratterizzazione dei personaggi. E Terenzio, come dimostrano i versi a lui dedicati da Cicerone e da Cesare, cominciava a conquistare le simpatie della nuova cultura di tipo raffinatamente aristocratico. Cicerone citava nella Pisoniana la fine di un verso del Trinummus, faceva avvertire una generica simpatia per Plauto, coerentemente alla sua gelosa rivendicazione di tutti i poeti dell’età arcaica, ma non manifestava in fondo quella predilezione che ci si sarebbe potuti attendere da un così ombroso tutore dei valori autonomi della civiltà latina per un poeta che sembrava profondere di quella tutta la più antica e intima forza. Poi, in età augustea, sopraggiunse l’aspra, perentoria condanna di Orazio, dell’arbitro del gusto: Plauto era un mestierante preoccupato solo di ottenere successi di cassetta, disposto a sacrificare il buon gusto pur di piaggiare i peggiori istinti del pubblico grosso e assicurarsi così il favore della platea. Fu un giudizio che non compromise la sopravvivenza del teatro plautino (tant’è vero che esso è riuscito a giungere fino a noi), ma che ad ogni modo lo bandì dall’Olimpo degli autori che ogni uomo d’alta cultura doveva sentire a sé congeniali e formativi del gusto e della coscienza letteraria e morale. E Quintiliano, nei §§ 99-100 del c. 1 del L. X dell’Institutio, arrivava a condannare, a paragone della tragedia, tutta quanta la commedia latina: «zoppichiamo soprattutto nella commedia, … arriviamo a raggiungere appena una pallida ombra». Ricorda il favorevole giudizio di Varrone sulla lingua e lo stile di Plauto, ma gli contrappone la grazia, le veneri concesse solo ai commediografi attici.

    In realtà, a ben guardare, il giudizio di Orazio contiene una buona dose di verità: anche la più spregiudicata critica dei più recenti decenni non ha potuto esimersi dal riconoscere che molte delle gags, delle trovate comiche, delle rielaborazioni e contraffazioni introdotte da Plauto rispetto agli originali erano calcolate per suscitare il riso del pubblico più rozzo, di quella maggioranza di illetterati, di sprovveduti che costituivano normalmente l’uditorio. Del resto a quei tempi, anche nelle classi socialmente ed economicamente predominanti, dove si potevano scoprire ambienti effettivamente permeati di cultura, educati a un gusto superiore? Tutto consiste nell’angolazione da cui queste constatazioni vanno prospettate. Il periodo storico in cui Plauto operò dominando le scene romane era appunto un periodo per il quale non si può ancora parlare di una consapevole e ben organizzata cultura letteraria. Egli ereditava, indipendentemente dai modelli greci (e sulla questione naturalmente torneremo), un tipo di teatro che, secondo le notizie di Livio e di Valerio Massimo, s’era organizzato a Roma un secolo prima di lui, sfruttando le capacità dei ballerini etruschi, trasformando lentamente un tipo di azione danzata in un tipo di farsa musicale, in cui la struttura portante era costituita da monologhi o dialoghi scanditi su ritmi muniti di accompagnamento musicale, varianti per assecondarne le movenze: i cantica. La commedia attica nuova, che aveva abolito il coro, e quando lo introduceva eccezionalmente come intermezzo lo segnava solo con una sigla, e poi procedeva con metri normali da dialogo, era quindi sottoposta a un rifacimento radicale per cui, pur rimanendo escluso il coro, i personaggi però erano introdotti a monologare o dialogare nella forma del canticum, cioè nei modi tradizionali della farsa etrusco-latina comportante la musica e il canto, che poi per la sua tematica si alimentava soprattutto del mondo buffonesco dell’atellana, con le sue maschere, i suoi frizzi, la sua condotta scenica convergente verso la più rutilante pagliacceria. In Livio Andronico, Nevio e nel Plauto meno maturo la tecnica del canticum corrispondeva a modi più semplici ed elementari, quali dovevano essersi fissati nella farsa d’origine etrusca; successivamente Plauto cominciò molto presto ad arricchire le forme del canticum, sfruttando in primo luogo le sue capacità personali di cui non sarà mai sufficiente valutare la sbrigliata originalità, testimoniataci anche dagli epigrammi a lui relativi e da notizie di grammatici, e poi la sempre più diffusa conoscenza dei metri della Grecia classica ed ellenistica, per non parlare di quelli sempre meglio assimilati della grecità italiota, a partire da Epicarmo, sì che c’è stato tutto un prevalente indirizzo filologico che ha voluto individuare arbitrariamente nel canticum plautino uno dei maggiori apporti della Graecia capta nell’opera di asservimento culturale del ruvido vincitore². La palliata romana, cioè la commedia che riprendeva i copioni della commedia attica nuova sceneggiando l’azione in Grecia, vestendo gli attori col pallium, finiva, specie con i frenetici, estesissimi cantica del Plauto maturo, per costituirsi in una forma radicalmente diversa da quella originaria dei modelli greci; commedie della vecchiaia di Plauto, come la Casina (in cui per giunta il finale era integralmente trasformato con toni caratteristici dell’atellana), lo Pseudolus, il Truculentus assumevano la forma che oggi noi potremmo definire dell’opera buffa. Purtroppo nella versione, se siamo riusciti a conservare e addirittura a potenziare la sbrigliatezza dell’eloquio, non abbiamo potuto, salvo in rari casi, rendere il fascino, la trascinante musicalità dei numeri innumeri (del resto ci manca ogni nozione della musica che accompagnava i cantica e spesso doveva determinarne la compagine ritmica), sì che il lettore ignaro di latino e di metrica non potrà mai farsi, attraverso la versione, un’idea precisa di questo carattere fondamentale del teatro plautino.

    Proprio un teatro che piegava in questa maniera il nuovo repertorio ai gusti e agli schemi del teatro autoctono poteva apparire «cosa nostra» al pubblico romano. E Plauto infatti segna l’unica breve stagione di diffusa popolarità della letteratura latina; proprio questo fenomeno, che origina dall’arcaica adattabilità alla mentalità delle folle, spiega perché il Sarsinate costituisca un’eccezione nella cultura letteraria latina che sarà sempre più appannaggio di élites, sì che solo un poema come l’Eneide, secondo quanto dimostrano i graffiti pompeiani e di altri siti, trova una larga popolarità, ma p. es. ben presto quanto a spettacolo, mentre si scrivevano o si rappresentavano (e per Seneca lo si pone in dubbio) le tragedie di Pomponio Secondo e di Seneca, il grosso pubblico si appassionava solo al pantomimo ed ai giochi del circo. Ottimati e plebe, che la cultura non aveva ancora distanziati gli uni dall’altra, si appassionavano egualmente, nei tempi del maggiore slancio energetico della cittadinanza romana, nei tempi in cui si concludeva la seconda guerra punica e si vincevano le guerre contro Filippo V diMacedonia e Antioco III di Siria, a un teatro che camuffava giocondamente e sbrigliatamente in forma di atellana e di farsa musicale l’equilibrata commedia attica nuova in cui la cura dell’ethos era uno dei fondamenti originari. Plauto, che sembra aver esercitato, almeno a principio, il mestiere dell’attore, si presenta nell’Asinaria ancora col nome d’arte di Maccus, che non si sa come si sia conciliato col suo nomen, con quel Maccius che secondo alcuni fu addirittura un’arbitraria nobilitazione del soprannome iniziale; non gli sembrava cioè arbitrario assumere il nome di una maschera dell’atellana per porre in iscena e recitare la rielaborazione di una commedia attica obbediente a ben altro processo genetico di quello che costituiva la farsa rurale italica. E il pubblico andava pazzo per uno spettacolo in cui si faceva sempre più strada la recitazione a sfondo musicale, il canto tramato su ritmi mutevoli, e di conserto si dava largo spazio ai dialoghi più surrealisticamente assurdi, in cui l’insistenza sugli errori, sugli equivoci, il gusto della prolungata reticenza o quello di una serqua di vocaboli omofoni e omosemantici o quello delle ingiurie reciproche moltiplicate con sfrenata voluttà icastica erano spinti al diapason, e s’accordavano con l’esaltazione delle più sfrontate trappolerie o con l’esibizione delle condizioni sociali più equivoche e più losche, colte in tutta la travolgente aggressività del loro inserimento nel tessuto sociale. Quattro commedie plautine – Epidicus, Pseudolus, Stichus, Truculentus – s’intitolano dal nome di un servo, una – la Casina – dal nome di una schiava, una – il Curculio – dal nome di un parassita, categoria equiparabile a quella dei servi, e una – le Bacchides – dal nome di una coppia di cortigiane. E ad eccezione dell’Amphitruo, che è una tragicommedia, e dei Menaechmi, che sono basati proprio sull’equivoco nascente dal nome comune ai due gemelli simili come due gocce d’acqua, non ci sono altre commedie plautine che s’intitolino al nome di un personaggio. Questo demi-monde di faccendieri astuti e cinici, caroleggianti a un ritmo di birbanteria rigirantesi su se stessa, sì da non farci mai riuscire a distinguere commedia stataria da commedia motoria, riscuoteva le simpatie più vive di un pubblico ch’era ancora gonfio di una forza vitale primigenia, non ancora edulcorata e parzialmente attutita da una spessa coltre d’interessi culturali. I prologhi plautini, per i quali sta cessando la frenesia di molti filologi di volerli giudicare ad ogni costo non autentici, ci danno spesso interessanti spiragli per cogliere com’era fatto il pubblico che affollava i teatri posticci in cui erano rappresentate le commedie: i primi posti erano riserbati ai pezzi grossi, che spedivano in tempo gli schiavi o i clienti ad occuparli. Nelle frequenti rotture dell’illusione scenica che sono costituite dalle improvvise apostrofi agli spettatori (e che formano una caratteristica del teatro plautino al pari degli strabilianti e innumerevoli riferimenti a cose romane sovvertenti la canonica sceneggiatura dell’azione in Grecia) l’autore si rivolge di preferenza a questi spettatori più altolocati proprio perché più vicini, e talvolta fa loro complimenti, si mostra sollecito del loro giudizio, talvolta invece li svillaneggia (e altrettanto avviene con gli spettatori dei posti più popolari), sì che c’è stato chi ha voluto vedere anche in questo una prova dello spirito populistico della mentalità di Plauto. Ma il poeta ci fa avvertire spesso anche la molto più significativa e più vivace presenza della folla dei nullatenenti, dei proletari che gremiva le gradinate più lontane della cavea. Anzi il prologo del Poenulus ci fa intendere che spesso nel pubblico indugiavano e si frammischiavano anche gli schiavi; il poeta consiglia loro di sgombrare, di tornare subito a casa perché i padroni non li ripaghino a suon di staffile se non li trovano dediti ai loro compiti abituali, e a un certo punto dimentica questo consiglio e ne sostituisce un altro, quello di correre alla vicina osteria ove nel frattempo è già pronta una pizza la cui bontà fa faville. Sentiamo palpitare in complesso un cordiale mondo in cui le differenze sociali sembrano abolite, nella comune velleità di rinfrancarsi lo spirito con le buffonesche piacevolezze che il poeta ammannisce al pubblico. E che quel teatro fosse proprio lo specchio della mentalità di quel pubblico alla buona, affacciantesi appena alle finezze di una superiore civiltà, lo comprovano le ironie e le contumelie dedicate ai Greci, ai loro costumi, alla loro mentalità, alle loro usanze e culminanti in una celebre scena del Curculio. Persino le tracce di maggiore rilassatezza del costume, le sceneggiature in cui il libero amore, il postribolo, la febbre del piacere che formano il centro sono spiegate col fatto che ci troviamo in Grecia, che si tratta di quel popolo di scioperati, di perdigiorno, di damerini svirilizzati come appariva la Grecia d’allora (che pure era ancora la Grecia di Agide, di Cleomene, di Arato, di Sicione, di Filopemene, per non parlare di Agatocle) ai legionari del Metauro, di Zama, di Cinoscefale e di Magnesia. Quello che era il nascosto intendimento della commedia attica nuova – studiare la problematica dei rapporti sociali nella polis in evoluzione dell’età dei Diadochi – è completamente svisato da questo sguardo sdegnoso con cui l’ancor rozza e compatta romanità trionfante, sicura e soddisfatta di sé, irride alla allora decadente e declassata grecità.

    Notizie biografiche ci han parlato di un Plauto che, dopo aver acquistato un buon peculio in una compagnia di comici, avrebbe perduto tutto in speculazioni avventate. Gellio (III, 3, 14) ci narra ch’egli sarebbe stato costretto a girare la macina d’un mulino per campare la vita e che negl’intervalli di questo duro lavoro avrebbe composto tre commedie, di cui due, comprese nelle diciannove cosiddette pseudovarroniane, coi loro titoli Saturio («L’uomo satollo»)³ e Addictus («Lo schiavo per debiti») sembrano escogitate apposta in rapporto con le sue dolorose condizioni. Il fatto stesso, rimproveratogli da Orazio, che in seguito, giunto al successo e all’agiatezza, egli abbia avuto di mira soprattutto il guadagno a qualsiasi prezzo sembra giustificare la veridicità di quelle notizie. E indipendentemente dalla loro maggiore o minore attendibilità, sta di fatto che il suo teatro, come abbiamo già accennato, è tutto concentrato nella considerazione divertita, vivacissima, profondamente congeniale e simpatica, della condizione servile. Gli schiavi sono al centro delle sue commedie, le movimentano e le sostengono con inesauribile verve, con scatenata versatilità di trovate e di malizie. Basta già confrontare per questo motivo il teatro di Plauto con quello di Terenzio per cominciar a misurare l’abissale distanza che li separa: fra le opere del commediografo africano possiamo trovare al massimo solo nel Phormio una situazione e un carattere in cui riecheggi la centralità che la spericolata scaltrezza servile ha nel teatro di Plauto. Non ci si può sottrarre all’impressione che un che di autobiografico si annidi in questa sorprendente preminenza della mentalità, dell’operosità più irregolare e capricciosa, dell’importanza sociale del servo nelle commedie di Plauto. E ciò tanto più in quanto uno dei Leitmotiven con cui questa tematica si dipana è l’ossessiva considerazione dei castighi, delle catene, delle sferzate cui il servo è sottoposto. Non c’è occasione in cui il servo s’incontra con un collega o con un altro personaggio e comincia a esercitarsi nello sport degli scambi ingiuriosi (e si badi che a questo punto entriamo nel più vivo delle originali aggiunte plautine), che non spuntino subito fuori termini alludenti al logorio che i ceppi producono agli stinchi o alla gragnuola di staffilate che piovono sulle spalle e di cui lo schiavo vanta l’eroica sopportazione. Si ha più volte l’impressione che il poeta voglia far quasi masochisticamente emergere l’imponenza di queste crudeli esperienze: nei Captivi l’immagine delle catene domina la commedia sin dall’inizio e pesa ossessivamente su tutto lo svolgimento; nelle Bacchides e nell’Epidicus il servo trappolone ha quasi una maliziosa civetteria a farsi incatenare dal vecchio padrone per mortificarlo poi nel fargli constatare l’assurdità del suo gesto; nel finale del Miles gloriosus gli autori della beffa manifestano un gusto particolare nel caricare di frustate Pirgopolinice, che pure è un uomo libero; nel Truculentus Bellacchione, con sadismo sornione, celebra il proprio carattere mite e pacioso proprio nel tenere agganciate entro duri legami due giovani schiave, dopo averle fatte lungamente staffilare appese a un trave.

    Ne è venuta di conseguenza (e di questi tempi era inevitabile) l’inclinazione a scorgere nel teatro di Plauto una velleità di rivendicazione sociale, un colorito politico di aperta adesione agl’ideali e al programma della plebe. Non ci nascondiamo che spunti del genere si possono spigolare nel teatro plautino: sembra che il commediografo in gioventù abbia collaborato con Nevio, e nel Miles gloriosus sembra indiscutibile una protesta contro la prigionia inflitta al poeta maestro e amico per volontà degli Scipioni e dei Metelli; nella medesima commedia e altrove sembrano reperibili allusioni maliziose alle scappatelle giovanili di Scipione Africano e contro il nascente culto della personalità verso cui s’andava indirizzando la classe aristocratica, all’inizio del Poenulus si può ravvisare un’allusione parodistica a Ennio, il cantore delle gesta degli ottimati; echi della polemica catoniana contro i «signori della guerra» si possono rinvenire frequentemente, come nel Truculentus in cui un’allusione al discorso del Censore de falsis pugnis è servita addirittura a far datare la commedia. Perciò p. es. Enrico Floresha ravvisato in Plauto, come in Nevio, una tipica corrente di rivendicazione dei valori nazionali, del tradizionalismo autoctono ingranato nelle classi popolari di fronte al filellenismo delle classi elevate, e quindi anche delle aspirazioni della plebe. La triste vicenda della sua giovinezza avrebbe legato stabilmente Plauto ai destini, all’anima delle classi diseredate; e anche in questo egli costituirebbe una clamorosa eccezione nella cultura letteraria latina, sempre infeudata agl’interessi degli alti ceti sociali. Ma a parte il fatto che nell’età di Cesare l’opposizione alla dittatura ha sempre assunto nelle lettere toni di libertarismo integrale, e che durante l’Impero la letteratura – anche se rispecchiando le ragioni dell’opposizione senatoria – ha nutrito di sé la condanna dell’autocrazia dei principes, tornando a Plauto va notato anzitutto che non si spiegherebbe il suo successo, la sua instancabile operosità se i suoi atteggiamenti politici avessero irritato le potentissime famiglie degli ottimati; e poi va sorpreso ogni tanto in lui qualche atteggiamento che contraddice a quelli in cui si è voluto ravvisare un preciso atteggiamento politico: p. es. nello Stichus è facilmente individuabile una coperta esaltazione di quel Fulvio Nobiliore, contro le cui imprese si è creduto di poter scoprire altrove in lui alcune frecciate, di quel Fulvio Nobiliore di cui Plauto sembra fosse cliens non meno di Ennio. In realtà quindi nel teatro plautino, in un momento in cui l’union sacrée delle classi saldatasi dopo Canne non s’era ancora definitivamente incrinata e le competizioni si profilavano se mai fra opposti gruppi di ottimati, sembra trionfare piuttosto l’ombroso senso d’orgoglio nazionale che portava a valorizzare tutto quanto incontrasse il gusto già costituito della cittadinanza. A ciò s’accordano le frequenti orgogliose allusioni alle vittorie, all’ascesa della patria quali s’incontrano dall’Amphitruo alla Casina, dalla Cistellaria al Truculentus. In fondo anche l’attaccamento ai valori morali e sociali tradizionali, che non manca di essere espresso sempre e che è l’unica eredità della commedia nuova passata in forma piuttosto rilevante nel teatro plautino, era fatto apposta per conciliare tutti i ceti cittadini in un momento in cui Roma aveva pienamente fiducia in se stessa.

    I moti graccani sarebbero esplosi a mezzo secolo dalla morte di Plauto; e già prima nel teatro di Terenzio era cominciata quella chiaroscurale, problematica, ansiosa discesa dell’anima romana nelle sue intime pieghe, quell’inquisitoriale bilancio delle proprie capacità di esercitare le nuove sgomentanti funzioni di centro del mondo civile di cui la romanità trionfante si sentì presto investita. Erano cominciati quel crollo del ceto medio italico che la guerra annibalica aveva reso irrimediabile e quel drammatico processo di autocoscienza che, come determinò il cozzo insanabile degli opposti programmi politici e quindi l’irrimediabile deterioramento di quello stesso ordine costituzionale che aveva pure assicurato il miracolo del passaggio di Roma da modesto centro del Lazio a città egemone del mondo civile, come rese irresolubile il complesso dei gravi problemi economici e sociali nati dalle stesse conquiste, dall’abnorme prevalere degl’interessi militari su quelli agricoli e dall’istituzione di nuovi rapporti commerciali con le terre conquistate, così moltiplicò l’insoddisfazione nell’ambito della maturazione spirituale, favorì il sorgere del più riottoso e problematico individualismo e quindi portò la cultura ad assorbire e far proprie le combattive filosofie dell’ellenismo, a racchiudersi progressivamente in cerchie di raffinati intenditori del tutto distaccati dall’anima popolare con la quale s’era smarrito il contatto, e che del resto era destinata a perdere ben presto la fresca ingenuità originaria dei bei tempi di Plauto, per l’anormale elefantiasi cui la plebe della metropoli si trovò presto condannata avendo inglobato masse di senza patria, di avventurieri d’ogni provenienza, essendo discesa al livello di un Lumpenproletariat avido, secondo Giovenale, di pane e circenses. Terenzio comincia già a farci intravvedere una nuova concezione del teatro, quel «teatro dell’avvenire» cui abbiamo già accennato, che si presenta subito agli antipodi del fresco, spregiudicato, aproblematico, spensieratamente farsesco teatro di Plauto. Viene ripresa integralmente e integralmente riproposta in termini attuali la problematica etica della commedia nuova coi suoi nascosti intenti sociali; il problema dell’educazione dei figli, della diversità di reazione degl’individui ai metodi pedagogici domina gli Adelphoe e l’Heautontimorumenos, mentre Plauto nelle Bacchides lo aveva accantonato con fastidio e con ironia nel più volte irriso e subsannato personaggio di Lido; la Taide dell’Eunuchus, nonostante il giudizio che direttamente o indirettamente ne derivò padre Dante, appare col profilo autentico di birichina e in fondo innocente amoralità in cui il modello del Truculentus doveva raffigurare quella Sagaciona che nella commedia plautina appare invece come il pauroso modello del cinismo postribolare; e accanto a lei grandeggia la Bacchide dell’Hecyra, tipica rivendicazione dell’intima bontà della natura umana, che nel colloquio con Lachete sembra precorrere la dame aux camélias dumasiana, mentre in Plauto solo nella Cistellaria e nella Mostellaria avvertiamo, forse per influsso dei modelli, qualche leggero accenno di umana autocoscienza della donna perduta, e le effusioni sentimentali partono solo dalle ragazze accesamente incapricciate dei loro giovanotti. Formalmente ne discende in Terenzio che il canticum si riduce al minimo e quasi scompare, che la commedia si configura esattamente com’era nell’Atene del quarto secolo, fuori da tutte le prestigiose e imprevedibili trasformazioni cui l’aveva assoggettata l’estro che potremmo chiamare operettistico o rivistaiolo di Plauto, appunto perché il suo impianto ideale era tornato ad essere quello delle origini; Terenzio finisce per apparire più menandreo di Menandro. Non ci potrebbe essere maggiore diversità ideale e tecnica di quella che divide Plauto da Terenzio, facendo due cose essenzialmente opposte e contrastanti delle loro produzioni teatrali. E lo strano è che già nella cultura latina portata a fare il bilancio completo della propria letteratura comica, e più che mai a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento Plauto e Terenzio finirono per costituire nella cultura un tutto unico, un modello unitario per la commedia moderna, come se fossero rappresentanti di un’attività uniforme, e non già portatori di due concezioni del teatro diametralmente opposte. In realtà, per il suo incomparabilmente maggiore dinamismo comico, Plauto fra gli amatori di teatro aveva conservato maggiore autorevolezza e capacità di stimolo. Sul finire del mondo antico la sua Aulularia aveva suggerito la composizione di quello strano camuffamento in termini moralistici che fu il Querolus sive Aulularia. E sulle sue orme Mathieu de Vendôme e altri autori della rinascente ispirazione delle lettere pagane nella Francia dei secc. XII e XIII mutuarono titoli di commedie plautine forse note loro solo indirettamente, mentre nel sec. X la monacella Rosvita di Gandersheim, appunto perché mirante a creare un teatro mosso da intenti morali e religiosi, profilò l’opera sua in concorrenza con quella di Terenzio. In età umanistica, a partire dal Petrarca, la figura di Plauto conservò una decisa preminenza. Già s’erano cominciate a scrivere commedie in latino nutrite di influssi plautini quando nel 1429 il trasporto a Roma da parte di Nicola Cusano di un codice (lo Ursinianus della Vaticana ora rubricato D) contenente 16 commedie di Plauto, di cui 12 assolutamente sconosciute fino allora, determinò una vera e propria fiammata d’interesse per Plauto. Le rappresentazioni di commedie antiche nelle corti dei principi furono soprattutto di commedie plautine, Plauto fu il modello anche delle prime commedie regolari in volgare, a partire dalla Cassaria dell’Ariosto, e forse anche la sua eccezionale vivezza verbale fu il segreto della predilezione dei nostri comici per il suo teatro, sì cbe p. es. un autore toscano come il Cecchi, notevole soprattutto per vivezza espressiva, non si stancò mai di sceglierlo a modello e di proclamarlo come maestro. Ma p. es. quel Terenzio che sostanzialmente gli era sempre affiancato come esempio classico ed era per tradizione trasmesso con la divisione delle commedie in cinque atti, appunto perché più legato alla commedia attica nuova ove gl’intermezzi determinavano questa divisione, determinò l’applicazione anche a Plauto della five-act-law⁵, mentre il poeta in sostanza aveva impiantato ben diversamente la condotta scenica. E a poco a poco, nel sempre maggiore schematizzarsi della commedia in forme regolari e secondo spiriti di prevalente interesse morale, Terenzio finì per soppiantare Plauto come effettivo modello di commedia classica, sì che p. es. agl’inizi del sec. XIX il commediogralo piemontese Alberto Nota fu definito «il Terenzio italiano», e altrettanto praticamente fu considerato il commediografo spagnolo Moratín. Il tipo di comicità plautina non poteva più trovare un autentico corrispettivo; e solo oggi, in seguito a così radicali trasformazioni del gusto e della tecnica, l’eredità di Plauto comincia a risorgere più o meno consapevolmente nel campo dell’avanspettacolo, della rivista, del teatro musicale, del fllm comico, che ha ripreso anche temi plautini, specie quello dell’Amphitruo. Non per niente oggi sono di nuovo frequenti – spesso in arbitrarie revisioni – le rappresentazioni di commedie plautine.

    Proprio questa vicenda dell’influsso plautino contribuisce a spiegare il grosso problema dei modi con cui la critica moderna ha successivamente considerato in vario modo il teatro di Plauto. Per intenderlo dobbiamo parlare più direttamente della questione dei rapporti fra Plauto e i modelli. Plauto – come anche Terenzio e tutti gli altri commediografi latini di cui non ci sono pervenuti che frammenti – costituisce nella storia della letteratura mondiale un caso particolare, perché non si presenta come autore di opere originali, ma come un più o meno abile riduttore di commedie greche trasposte in lingua latina. Nella storia del teatro, specie quando si tratta di opere che riprendono temi, soprattutto mitologici, ispirati al mondo classico, l’originalità di un autore si misura particolarmente in base al modo con cui egli rielabora il volgatissimo argomento. Ma in fondo il caso di Plauto (e di Terenzio) non è riducibile neanche a questo tipo di rapporto coi precedenti. Tutta la letteratura latina è ancora gravata dal giudizio d’essere una produzione di riporto sugli stimoli e i modelli forniti dalla letteratura greca, l’unica veramente originale del mondo antico. Tuttavia nessuno si sogna di contestare che Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio sian riusciti ad affermare la loro personalità, pur tenendo d’occhio le suggestioni della poesia greca. Invece per Plauto e gli altri autori di palliatae ha un peso raggelante il fatto ch’essi hanno trasportato più o meno di peso in veste latina copioni di autori greci. Nei prologhi Plauto è spesso il primo ad affermarlo chiaramente: egli vortit barbare, «ha tradotto in latino» una commedia greca di cui ci dà o il titolo o il nome dell’autore o talvolta entrambi. E per quanto si sia lungamente cercato d’illustrare l’elasticità, la libertà di quell’azione di vortere, resta il fatto che per ciò ch’è ritenuta la sostanza dell’originalità di un’opera, specie teatrale, la sua struttura, la sua trama, Plauto e i suoi colleghi siano debitori integralmente agli autori dei copioni ch’essi hanno tradotti o rielaborati. Perciò il problema del rapporto coi modelli ha costituito per lungo tempo il fondamento di tutta la critica plautina e terenziana. E ha dominato a lungo, specie in Germania, il pregiudizio che Plauto, proprio per la sua incapacità di penetrare il complicato impianto etico delle commedie da lui elaborate e di essere portato alla superficiale comicità farsesca (queste sue caratteristiche sono state subito individuate dalla critica), sia stato un riduttore grossolanamente inabile, atto solo a guastare, a storpiare, a sconciare la calibrata grazia dei modelli. A lungo si è agognato di scoprire un testo greco di commedia sicuramente ripresa da Plauto; e solo oggi un lungo frammento del Dìs exapatón («Il due volte ingannatore»), la fonte menandrea delle Bacchides, pubblicato la prima volta da E. Handley⁶, ci ha permesso di misurare con precisa conoscenza di causa l’estensione delle libertà presesi da Plauto di fronte ai modelli, e naturalmente col risultato di profilare questo dato, già universalmente previsto e atteso, non come prova di una rozza incapacità dell’imitatore latino, ma come conferma delle sue personali capacità di libero e avveduto rielaboratore. Ma prima di questa così normativa scoperta aveva dominato gli spiriti la persuasione che Plauto avesse solo mal ridotto la struttura dei modelli, e quando ci avesse messo le mani sopra lo avesse fatto solo inzeppando nella struttura del modello scene o brani desunti da altri copioni greci, praticando cioè quell’operazione che, sulla base di come se ne parla nei prologhi di Terenzio che l’ha praticata molto più spesso di Plauto, è stata definita contaminatio. E come Günther Jachmann per Terenzio, sulla base delle indicazioni dei prologhi, ha sostenuto che in Terenzio non v’è un solo rigo che non rimonti a testi greci, con buona pace di Elio Donato che nel suo commento indica specifici luoghi in cui Terenzio avrebbe fatto da sé⁷, così per Plauto la Kontaminationsphilologie ridusse tutta la libertà di Plauto all’introduzione di qualche battuta o relativa a cose romane o contenente qualche elemento di più aggressiva comicità farsesca, e quanto al resto, quando la struttura della commedia denunciava evidenti scompensi e contraddizioni, si rifugiò nell’ipotesi di arbitrarie inserzioni di scene desunte da altri copioni da parte di un Plauto voglioso d’indisciplinati ritocchi.

    Le cose erano a questo punto quando Eduard Fraenkel pubblicò nel 1922 a Berlino la celebre opera Plautinisches im Plautus⁸, un libro meritamente fortunato e ricco di pregi decisivi, pur partendo da una base critica illusoria e sfociante in una metodica fatta più per confondere le idee che per chiarirle. Egli ebbe, p. es., il merito di togliere alla Kontaminationsphilologie la sua funzione predominante, arrivando anzi all’eccesso opposto di negare la grande contaminatio nel Miles gloriosus, dove è invece evidente, e restringendola a una sola scena, mentre la asseriva fermamente nel Poenulus, sia pure anche lì per una sola scena, dove invece non è il caso di postularla, e non ne scorgeva troppo chiaramente la presenza nello Pseudolus, l’opera della vecchiaia dove, per ragioni inerenti ai nuovi criteri strutturali del Plauto più tardo, essa si ripresenta. Ma il suo merito maggiore fu quello di profilare l’unità di condotta, la costanza d’ispirazione dei giochi con cui Plauto svisava i modelli, di rapportare la natura della rielaborazione a una tipica plautinità, ad esigenze puntualmente affioranti di temperamento. Si comincia a delineare la possibilità di scorgere un’originale natura d’artista, anche se limitata a un’opera di capricciosa contraffazione di modelli preesistenti. Ma il punto di partenza restava sempre quello di scorgere quasi con rammarico nei modelli greci un esempio di equilibrata, classica felicità strutturale, in bilico fra una sorvegliata ispirazione morale e una ferma, nitida condotta scenica, che le sbrigliate velleità plautine di esuberanza verbale fine a se stessa avrebbero finito sostanzialmente per sconciare. Ecco perché la stessa versione del titolo compiuta dal Munari – quello Elementi plautini in Plauto, al cui posto noi ci saremmo attesi Ciò ch’è plautino in Plauto – trova piena giustificazione, in quanto l’analisi del Fraenkel, pur rivendicando la costanza d’intenti e di toni delle superfetazioni plautine, le riduceva pur sempre a casuali sovrapposizioni sopra un telaio che sarebbe stato molto più logico e attraente se non avesse dovuto subire quelle operazioni di svisamento. L’esempio più eloquente di questo atteggiamento si manifestò nel fatto che, considerando finalmente i cantica come elemento fondamentale della rielaborazione plautina riguardo ai modelli, il Fraenkel ne fece rimontare tuttavia il merito principale e l’intima natura alla progressiva diffusione della conoscenza della metrica greca, additata come loro unica matrice. Ce n’era abbastanza perché in connessione all’opera del Fraenkel e per reazione Günther Jachmann facesse seguire nove anni più tardi il suo Plautinisches und Attisches⁹, in cui riprendeva con esemplare rigore tutta la metodica della vecchia Kontaminationsphilologie per rovesciare sulle spalle di Plauto la condanna per la sua opera di sacrilego contraffattore dei modelli greci.

    Da allora in poi il lavorio critico su Plauto si trasferì in gran parte dalla Germania ai paesi anglosassoni, in cui gli studiosi ebbero il merito di gettarsi dietro le spalle la problematica consueta, considerando le varie componenti dell’arte plautina nella loro specifica contingenza come strutture portanti. Di qui i loro fondamentali contributi alla fissazione della cronologia delle commedie principalmente in base ai criteri stilometrici¹⁰, e in genere lo studio dell’attività di Plauto come responsabile fornitore di temi teatrali, come organizzatore di una tecnica di spettacolo indipendentemente dagli specifici problemi posti dalla struttura delle singole commedie. Per questa via ci si poté avviare a una più precisa configurazione della coerente personalità di Plauto come uomo di teatro nella costante manifestazione delle sue esigenze. E più che mai venne in chiaro – in un senso che le indagini del Fraenkel avevano già additato, ma che solo ora acquistava valore sistematico – che Plauto sottoponeva ogni compagine scenica a un procedimento tendente a sacrificare la logica e la dinamica della trama (coi connessi scopi di natura etica o psicologica) al potenziamento dei valori in cui trovasse sfogo il gusto ritmico e linguistico meglio connaturato alla personalità del rielaboratore latino. Infatti delle commedie plautine solo una delle prime, il Miles gloriosus, e tre della vecchiaia, le Bacchides, la Casina e lo Pseudolus, puntano sullo sviluppo della vicenda. In generale, a non parlare della progressiva parte del leone fatta ai cantica, ciò in cui si concentra e sprizza la comicità dell’insieme sono la lunghezza festiva e sbrigliata dei dialoghi, in cui l’ansia della sempre ritardata conclusione o il gusto delle digressioni descrittive o scommatiche o polemiche raggiunge spesso il vertice della suspense, la tendenza scapigliata alla figurazione caricaturale, l’insistenza ossessiva sullo sfogo delle debolezze o delle manie dei singoli caratteri; di ciò che riguarda la trama l’elemento che calamita la fantasia dell’autore è sempre la beffa, il tiro birbone, di cui il frizzo, la battuta pungente è spesso il surrogato occasionale. Così si è giunti ai felicissimi saggi del compianto Marino Barchiesi¹¹, fissante ciò ch’egli ha definito «il metateatro» come angolazione visuale creata da Plauto con la sua tecnica in seno alla coscienza teatrale del tempo suo. Potremmo sollazzarci a documentare almeno un particolare per ogni commedia in cui questa tendenza si afferma: nell’Amphitruo il centro ideale consiste nelle ripercussioni che l’imbrogliatissima situazione provoca nel personaggio integralmente e ingenuamente comico, nel servo Sosia; nell’Asinaria l’interesse, la vita della commedia si concentrano nella minuta preparazione, nella voluttà con cui i due servi dirigono la trappola e godono delle risonanze ch’essa produce nello spirito dei giovani nel cui interesse essa è stata architettata; nell’Aulularia il Leitmotiv è la frenesia con cui Tienichiuso si precipita ad ogni istante a controllare se la pentola è stata scoperta; nelle Bacchides esso è costituito invece dall’orgogliosa coscienza con cui Rubaloro pone

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