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Quarantatré secondi
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E-book163 pagine2 ore

Quarantatré secondi

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Info su questo ebook

Quarantatré secondi è un’avventura psicologica che inizia e si sviluppa in uno dei posti più improbabili: una casa di riposo per anziani. L’incontro tra il giovane Enrico, che fa visita alla zia Costanza alloggiata presso la struttura, e l’eccentrico anziano professore Libero, dà il via a un viaggio mentale ed emotivo. Enrico viene spinto alla ricerca della comprensione dell’enigma che pare celarsi dietro le parole dell’anziano. Inizia così un percorso che porterà il protagonista tra i meandri della fisica teorizzata da Albert Einstein e alla scoperta della sorprendente e poco nota storia del matematico italiano Gregorio Ricci Curbastro. Il tutto per comprendere il misterioso messaggio di Libero, che è invece intimamente connesso con uno dei ‘mostri’ più spaventosi del ventunesimo secolo: il morbo di Alzheimer. Un morbo che ‘ruba’ pian piano la vita, partendo dai ricordi più recenti, fino a far disimparare l’atto più naturale e primordiale, il respiro. Un mostro che fa compiere a ritroso il percorso di crescita e sviluppo di una vita intera, fino a far pensare, persino alle persone più vicine al malato, che quella vita non abbia ormai più senso. Ma sarà proprio così? La risposta è nel ‘Codice Libero’ ed Enrico dovrà scoprirla.
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2020
ISBN9788835355007
Quarantatré secondi

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    Anteprima del libro

    Quarantatré secondi - Enzo Venturini

    io

    Il Mostro

    L’interesse per la malattia è sempre e soltanto un’altra espressione di interesse per la vita

    Thomas Mann

    Afferrai la maniglia d’alluminio e aprii la porta a vetri. Mi assalì una vampata d’aria calda, carica di un odore acre e pungente, mentre un senso di angoscia iniziava ad attanagliarmi lo stomaco.

    Stavo entrando per la prima volta nella casa di riposo dove, ormai da qualche giorno, alloggiava mia zia. Prima di entrare già sospettavo che quel luogo mi avrebbe trasmesso questa sensazione di disagio e sconforto, ma quello che mai avrei immaginato era che, proprio lì, avrei vissuto l’avventura che sto per narrare.

    «Si sbagliava» pensai.

    Mi balenò nella mente una frase pronunciata qualche giorno prima da un mio collega di lavoro: «la campagna romagnola assomiglia alla pianura russa, è triste e insignificante». Certamente il confronto con la bellezza del paesaggio ligure, terra d’origine del mio collega, era impari. La pianura russa, inoltre, la potevo solo immaginare; non mi ero mai spinto fin là, come invece aveva fatto lui.

    Ma si sbagliava.

    Da qualche minuto stavo percorrendo viuzze di campagna per raggiungere la mia destinazione. Attorno a me un paesaggio dove il tempo pareva si fosse fermato, o meglio, fosse trascorso molto lentamente. Strade bianche di ghiaia, alberi secolari, una villa cinta da mura, case coloniche e ruderi si inframmezzavano al verde dei campi. Poco più in là, appena intuibile, il fiume avvolto e costretto dall’alta riva.

    Qua e là il guizzare di ghiandaie e gazze ladre in cerca di cibo, mentre su un traliccio un rapace scrutava la scena. C’era qualcosa di oggettivamente bello, di favoloso in tutto questo e non poteva essere così solo per me, indigeno di questa terra.

    Esulai dai miei pensieri quando lessi il nome della via in cui dovevo svoltare, Via Roncadello. Ero quasi arrivato. Poco più avanti sulla sinistra si trovava la casa di riposo ‘Il Noce che sorride’.

    Percorsi un breve sentiero ghiaiato e parcheggiai vicino a un vecchio capanno. Era ormai sera e nonostante l’inverno avesse fatto spazio all’incipiente primavera l’aria era fresca. Percorsi la breve distanza che mi separava dalla casa sotto lo sguardo curioso di un gatto nero.

    Afferrai la maniglia d’alluminio e aprii la porta a vetri. Entrai in una piccola anticamera, dove l’aria era calda e viziata. La stanza era deserta, così proseguii varcando un piccolo arco e mi trovai al cospetto di un plotone di anziani.

    Mi scrutavano, alcuni con aria interrogativa altri completamente assente. Erano disposti tutt’attorno al perimetro della stanza: mi accorsi che ero letteralmente circondato.

    Scorsi rapidamente quegli sguardi inquisitori fino a incrociare quello di mia zia che, al contrario, era vispo e sorridente. Il suo viso s’illuminò vedendomi arrivare.

    «Costanza, come stai?» esclamai.

    «Come vuoi che stia… si va avanti come si può. Tu? Tutto bene?».

    «Sì, tutto bene. Qua come ti trovi?».

    «Bene dai… Son con dei vecchi come me, anche se qui dentro sono la più giovane» ribatté sorridendo.

    Continuammo a conversare del più e del meno per qualche minuto. Sembrava serena e sorprendentemente, se non contenta, almeno soddisfatta della sua nuova ‘casa’.

    La sua serenità strideva con l’afflizione che mi pervadeva e che mi sforzavo di celare. Come si può accettare di stabilirsi in maniera definitiva in un posto pieno di sconosciuti anziani, abbandonando la propria casa e la vicinanza con i parenti più cari? Eppure la scelta di andare in quel luogo era stata della zia, senza alcuna forzatura da parte dei famigliari.

    Sapevo che la risposta risiedeva nell’accentuarsi degli acciacchi fisici e psicologici che affliggevano la zia e quindi nella necessità di una vigilanza continua sul suo stato di salute da parte di qualcuno. Cosa che non era possibile rimanendo nella sua vecchia casa, se non con la presenza a tempo pieno di una badante, soluzione che alla zia non era andata a genio. Da qui la sua scelta di stabilirsi in questa nuova ma, ai mei occhi, triste e deprimente dimora. Decisi però di non dare troppo peso alla mia sensazione di oppressione: la zia, in fin dei conti, pareva stare bene.

    Dopo una chiacchierata di una mezz’oretta decisi che era ora di andare, poiché, nonostante fosse decisamente presto, da lì a poco il drappello di anziani avrebbe iniziato le manovre per spostarsi nelle camere da letto al piano di sopra e con loro anche mia zia.

    Uscendo, giunto al centro della sala, salutai tutti cordialmente e mi girai verso la porta ad arco. Fu in quel momento che i miei occhi furono calamitati dallo sguardo fisso su di me di uno degli anziani in sala.

    Quegli occhi parevano vivi, carichi di interrogativi e al contempo lontani, persi e alieni alla situazione presente. Ebbi la sensazione che l’anziano signore volesse dirmi qualcosa e bloccare così la mia partenza. Ma non lo fece o non gli diedi il tempo sufficiente per far evadere le parole dall’intrico dei suoi pensieri e farle giungere alle corde vocali. Richiusi la porta a vetri, raggiunsi la mia auto, sempre scortato dallo sguardo vigile del gatto nero, e me ne andai.

    Da qualche mese avevo deciso di abbandonare la casa dei miei genitori per trasferirmi a un chilometro di distanza. Vivevo a casa di mia nonna, Maria, al primo piano, dove mio fratello e la sua ragazza avevano ricavato un piccolo ma accogliente appartamento. Qualche mese prima si erano trasferiti nella loro nuova casa e avevano lasciato libero il precedente alloggio.

    Ebbene sì, avevo fatto la mossa del cuculo che, come è noto, non costruisce nidi ma si impossessa di quelli realizzati dagli altri uccelli. Avevo abbandonato il nido materno per uno tutto mio. Ammetto che la mossa a trent’anni suonati era ormai doverosa e convengo con voi che non fosse nemmeno molto azzardata. Di fatto vivevo vicino a casa dei miei, in un alloggio comunque di proprietà della famiglia. Che dire… cadevo sul morbido.

    La scelta era stata dettata da pavidità e scarsa intraprendenza? Può darsi, ma non solo. In un mondo dove il lavoro e il futuro è quanto mai incerto, l’acquisto di una casa appariva una mossa azzardata e prematura. Questa situazione mi permetteva di prendere tempo e scrutare quel che mi riservava il domani con più tranquillità.

    Con questa decisione, inoltre, la famiglia otteneva un altro piccolo vantaggio: la nonna non sarebbe rimasta sola nella grande casa e la mia presenza avrebbe potuto rivelarsi un aiuto prezioso.

    La nonna, purtroppo, da qualche anno mostrava sintomi sempre più evidenti del morbo di Alzheimer e la presenza in casa di un’altra persona era ormai necessaria. Così, mentre lei guadagnava la mia compagnia, io ottenevo uno scampolo di privacy e un assaggio di indipendenza: una parziale simbiosi.

    La sveglia del cellulare squarciò il silenzio della stanza, era la terza volta nell’ultima ora.

    Come al solito tendevo a riprogrammare la suoneria di quarto d’ora in quarto d’ora per concedere alla mia pigrizia l’ennesima piccola vittoria. La voglia di crogiolarmi tra il caldo delle coperte era più forte della mia necessità di alzarmi. Ma alla terza volta dovetti cedere.

    Mi alzai, feci una rapida doccia, mi vestii e raggiunsi la piccola cucina-salotto ricavata nel sottotetto della casa. Mentre gustavo una frugale colazione con un occhio ai messaggi sul telefonino e l’altro alle notizie in TV su Rai News 24, mi accorsi che la nonna al piano di sotto si era già svegliata. Potevo chiaramente sentirla frugare in cucina, probabilmente intenta ad aprire l’asse da stiro.

    Stirare era una delle cose che le riuscivano ancora in completa autonomia. Bastava lasciarle un biglietto adagiato sopra il mucchio di vestiti stropicciati, con la scritta ‘stirare, grazie’, per azionare la sua istintiva smania di rendersi utile. Stirare non le piaceva affatto, ma anche nei giorni in cui si proclamava del tutto contraria a compiere un’attività così poco amata, di lì a poco, si sarebbe scordata di quella presa di posizione.

    L’istinto avrebbe preso il sopravvento vincendo la sua reticenza. Così, io e mia madre riuscivamo ad evitare di stirare. In fondo, era anche un modo per tenere la nonna attiva, occupata e farla sentire utile. Insomma, non era solamente ‘sfruttamento di lavoro senile’.

    Scesi le scale ed entrai nella cucina della nonna. Non mi ero sbagliato, stava stirando. Vestita con un comodo maglione di pile bordeaux e un paio di calzoni neri e consunti di una vecchia tuta, probabilmente le cose che le aveva lasciato mia mamma sul bordo del letto, si accorse della mia presenza e mi guardò confusa con i suoi occhi scuri.

    Nonna aveva i capelli bianchi con riflessi azzurri quasi impercettibili dovuti alle tinte che le faceva mia mamma. Con la sua corporatura robusta, come si addice ad una ‘azdora’ romagnola, la nonna era una delle donne più forti che avessi mai conosciuto. Non l’avevo mai sentita lamentarsi per il freddo, anzi, la potevi trovare nell’orto in pieno inverno vestita quasi come fosse estate. Non ricordo di averla mai vista influenzata, raffreddata o affetta da qualche malanno di stagione.

    Aveva una soglia del dolore molto alta. Un giorno l’avevo trovata con una ferita profonda alla gamba, lamentandosi appena: pretendeva che le ricucissimo la ferita senza nemmeno la visita da parte di un medico. D’altronde la nonna aveva sempre avuto un avversione profonda verso qualsiasi ambulatorio o ospedale: qualunque cosa le accadesse la sua prima preoccupazione era quella di evitare la visita da parte di un dottore.

    Eppure, questa donna forte e caparbia era stata colpita subdolamente in una parte del corpo che non si poteva curare con punti o cerotti, il cervello. Per di più, ironia della sorte, al momento, nemmeno i tanto vituperati medici erano in grado di curare il suo male. Un morbo che non si interessa di quanto tu sia forte fisicamente perché ti logora la mente e giorno dopo giorno cancella le tue abilità.

    «Buongiorno nonna!» esclamai.

    «Buongiorno… Cosa devo fare oggi?».

    «Ah, intanto devi prendere le medicine, poi ci sono da stirare quei vestiti lì. Come stai?» chiesi, mentre estraevo le pastiglie dalla scatola portapillole che mia mamma aveva accuratamente nascosto sopra l’armadio.

    «Bene grazie. Chi mi prende in consegna oggi?».

    Era sempre la sua prima preoccupazione, sapere chi l’avrebbe guidata ed eventualmente accompagnata da qualche parte durante la

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