Il sesto senso
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Anteprima del libro
Il sesto senso - Gabriella Somenzi
Benni
SOLA ANDATA
Te ne sei andato silenziosamente. Io non c'ero. Quando sono arrivata, non ti ho trovato. Semplice da dire, tremendo pensarci.
Mi avevi detto che eri pronto, certo, avevi organizzato tutto; ma quando mi chiedevi nervoso se volevo venire con te, non pensavo sarebbe stato così presto. Dovevamo fare ancora un milione di cose, io almeno. Dovevo dirti che ti amo prima di tutto e sai quanto per me sia difficile dire queste cose. Poi dovevo salutare tutti, perché chissà quando li avrei rivisti, anche a te mancheranno, vedrai.
E invece no, alla fine non mi hai aspettato. Neanche un saluto e sei sparito. Sono sicura che avevi paura ti convincessi a restare qui; sono sempre stata brava, lo ammetto, a parlare, però stavolta eri talmente sicuro di te che sinceramente non sapevo che dirti, per trattenerti.
La tua stanza è vuota, c'è una nostra fotografia sulla scrivania. L'abbiamo fatta quest'inverno prima che tu la incontrassi. Sembriamo contenti...come hai fatto ad innamorarti di lei ancora non lo capisco. Ne eri affascinato, anche se dicevi che avevi sempre pensato di andartene, lontano da tutti, indipendentemente da lei. Io non ti credevo e i fatti mi hanno dato ragione. Non capisco, non ti capisco proprio.
Oltre il vuoto dei rumori della tua presenza, sento la tua voce adesso. Mi vengono alla mente tutti quegli strani discorsi. Cercavi qualcosa, dicevi, cercavi il senso. Mi guardavi, ti accorgevi che non ti seguivo e continuavi. Il senso di te, la strada da percorrere già tracciata, ogni dubbio sciolto. Cercavi di aggrapparti ai miei occhi, ma io che ne so di quello che mi chiedevi.
Volevi la calma, gridavi, buttando a terra le sedie, volare via e poi ti buttavi sul divano per fermarti, finalmente.
Ti guardavo sognare e ripercorrevo le tue parole. Ne avevo terrore, sai? Mi spaventava la paura che non mascheravi e temevo di ascoltarti, perché so che hai ragione. Non potevo impedirti di gridare ciò che nascondevo dietro il mio volto e non potevamo più ignorare.
La vita è incubo. Malvagia, ci priva di ogni riposo. Le cose, le persone che incontriamo passano, fuggono tutte prima o poi e non possono restare, perché un'altra stazione li aspetta, un altro posto deve accoglierli e non il tuo cuore o la mia casa.
Così, dicevi che tanto, anch'io me ne sarei andata, non per cattiveria, perché così funziona e non servivano a niente i miei baci mentre tentavo di rassicurarti. Solo lei ti è sembrata fedele, sicura e decisa a restare davvero con te per sempre e non è stato difficile per lei conquistarti. Praticamente ti sei tuffato tra le sue braccia. Grazie.
Come potevi pretendere che io fossi in grado di darti quelle risposte, io, che sono più convinta di te che non valga la pena, vivere. Eppure sono ancora qua, io.
Sei tranquillo ora? Hai raggiunto quello che cercavi? Cosa c'è di là?
Immagino che tu abbia preso un treno affollato, pieno di gente diversa, tanta gente. Immagino tu abbia timbrato il biglietto per salire, un biglietto di sola andata e penso che sarai stato contento di aver scelto tu quando partire, al contrario di altri, accanto a te, tristi di andarsene via per sempre perché non lo hanno deciso.
Dimmi la verità: non avresti voglia di tornare indietro, di stare con me, ancora un po', magari per raccontarmi quello che hai visto?
Non puoi, non hai il biglietto di ritorno! E poi comunque, non preoccuparti, tanto anch'io devo partire.
Per ora aspetto, non ho la tua stessa voglia di vedere in faccia la morte. Prima di queste ultime notti che passo sola a pensarti, non l'avevo mai incontrata; non è così bella come tu me la dipingevi. Non mi attira. Penso che non prenderò presto quel treno.
Tanto il mio posto ce l'ho. Il mio titolo di viaggio è già stato prenotato e non da me, col numero già stampato; certo, viaggiare con te, seduta al tuo fianco sarebbe stato più bello, e però già tante volte ho viaggiato sola.
Un ultimo viaggio, d'accordo, proprio l'ultimo. No, non mi spaventa ma non ora.
"La notte li aveva raccolti nel languore del suo grembo,
e pareva non abbandonarli più."
DIAMANTE, E. Siciliano
IL GIOCO DELLA DAMA
Nel lungo corridoio echeggiava il suono dei suoi passi leggeri, veloci sulle mattonelle di marmo lucide, levigate come sassi lambiti dall'acqua, dal passaggio di tutti i suoi ascendenti che prima di lui avevano attraversato, scanditi dal susseguirsi dei secoli l'ala est del castello per entrare nel salone delle cerimonie, un tempo teatro di feste galanti e di piccanti incontri, ora solo ricordi sbiaditi come il rosso velluto dei pesanti tendaggi alle finestre.
Fuori, il giardino da lui personalmente curato già illuminato dalla luna, circondava l'originale castello, partorito dalla mente di un avo scampato ad una feroce epidemia proprio a celebrarne quella vittoria sulla morte, ancora inspiegabile frutto di stregonesche capacità, si mormorava negli annuari del paese.
I candelabri ricavati da teschi di forme viventi poco riconoscibili, che tanto aveva temuto da bambino, erano lì a tenergli compagnia, vesti preziose passate che avevano rasentato il pavimento inclinato, appesantito dalla sua storia e stridori di catene dalle cantine, respirava ogni sera mentre la luce delle candele illuminava i volti degli antichi proprietari della solitaria rocca, intrappolati nei loro imponenti ritratti e nascondeva il paesotto sul mare da essa dominato.
Ultimo discendente di una fiorente generazione di speculatori e usurai arricchitisi nella pratica furfantesca e nobilitatisi con costumi delle classi superiori era rimasto solo.
Ogni sera, da mesi ormai, passeggiava lungo il perimetro interno della dimora per fermarsi, ogni tanto, alle numerose vetrate a osservare il mare in lontananza, laggiù, superbo sfondo di colonne e pietre antiche; nella notte blu, sereno come un bimbo addormentato vegliato dalla mamma nel respiro regolare, esso rispecchiava i suoi tratti distesi e il suo regolare incedere e, scuro si celava in profondità, come il suo animo che, da quando l'adorata sposa era scomparsa non trovava requie neppure nella pacatezza della brezza marina.
Il vociare vacanziero dei turisti che affollavano come ogni estate il borgo medioevale, così irritanti nei loro pantaloncini colorati e i sandali da frate era lontano in quelle ore ma la sola vista delle luci sulla costa glieli ricordava. Sebbene si incupisse al solo pensiero, come un cielo affollato di nuvole, si costringeva a sopportare perché, grazie a loro il sindaco poteva passargli un assegno mensile, unico sostentamento per un presente lontano dai fasti remoti. Quando suo padre e i suoi fratelli furono condannati per uno tra i pochi puliti affari della famiglia venuto alla luce, tutto ciò che era rimasto dopo aver pagato avvocati e notevoli spese giudiziarie, fu confiscato. Allora, per non subire l'ulteriore condanna dall'opinione pubblica che sceglie sempre, tra i comportamenti umani, essenza e modalità delle condotte punibili, indipendentemente dalla giustizia, aveva deciso di dissociarsi dal suo passato di comoda omertà.
Vista la sua onestà di studioso e di musicista, aveva ottenuto di poter restare a vivere nel castello confiscato dal governo insieme a tutti gli altri beni. In cambio della possibilità di rimanere nelle stanze che l'avevano visto crescere, l'onere di custodire le ricchezze della nuova proprietà del comune. Del resto, chi meglio di lui conosceva i segreti di quell'affascinante dimora e poteva guidare arrossati e scoperti villeggianti tra gli arredi immobili e i quadri preziosi? Inoltre, incapace veramente di lavorare per mantenere il suo tenore di vita, era sceso a un limitatamente dannoso compromesso con la sua mentalità proiettata verso il passato e tramite un computer, oggetto che mai avrebbe immaginato di vedere tra quelle pareti, otteneva una modesta fonte di guadagno producendo elenchi e documenti per la burocrazia amministrativa. I turisti si mostravano soddisfatti delle sue prestazioni e lo vedevano tranquillo e potente nel suo aspetto altero, ignorando la recente scandalosa storia della sua famiglia. Non appena poteva, assolti i penosi impegni di lavoro, si ritirava nella sua camera insonorizzata per leggere in solitudine, accompagnato da arpe celtiche che suonavano per lui e lasciava spazio ai suoi cari ricordi.
Rivedeva una giovinezza spensierata tra donne e denaro richiamati da affari che fingeva leciti e se stesso aperto a tutte le esperienze gli avesse offerto il suo status; era libero dal capestro che ora lo cingeva e lo costringeva a fare i conti con un sentimento che non voleva andarsene con colei che l'aveva creato e che lo tormentava ancor più, provocandogli continue emicranie che cercava di curare con un'infinità di farmaci, utili solo a stordirlo per qualche ora prima di ricondurlo al pensiero di lei che la sera avrebbe rivisto.
E anche ora si stava avvicinando impaziente all'appuntamento con la splendida dama. Gli era stato permesso ancora di incontrarla: allora si era vestito con cura, ci teneva a farle sempre una buona impressione, come se volesse mostrarle la sua eleganza e la sua salute per catturarne l'attenzione. Pur consapevole che non si trattasse di una vera conquista, attendeva con trepidazione la concessione di una Volontà insondabile, indipendente da qualsiasi suo atteggiamento.
Erano ormai due anni che si intratteneva con lui nel castello. All'inizio non ne comprendeva la sua straordinaria presenza, anche se non fu mai turbato tanto che presto si era abituato alla convivenza e ora voleva che continuasse anche se, negli ultimi giorni, la vedeva nervosa, come fosse prossima ad andarsene, per sempre. Era ciò che temeva.
Lei. Già lo aspettava, seduta sulla poltrona di pelle, in un angolo della vasta sala. Le gambe accavallate, coperte come il resto del corpo da un vestito largo, nero; le spalle nude, riflettevano il pallore della Luna che dietro il suo capo, nel riquadro offerto dall'opaca vetrata, brillava piena dal suo antico trono. I lunghi capelli corvini, lisci, incorniciavano l'ovale del volto in cui si distinguevano nel buio gli occhi grandi, scuri e la bocca socchiusa di un colore acceso, come un fuoco caldo.
Quando lui entrò non si mosse, si limitò a fissarlo tranquilla e congiunse le mani prima mollemente abbandonate sui freddi braccioli. La raggiunse per baciarle la mano sottile, con le unghie laccate di lucido argento e mentre l'aiutava ad alzarsi, la campana della torre scandiva l'inizio della loro serata.
Sfiorandole le braccia la fece accomodare davanti alla tastiera e accese il terminale. La luce del computer illuminò la stanza e il profilo di lei, che era tanto bella quanto lo era la loro vita prima che morisse, quel maledetto giorno.
L'aveva convinto ad uscire dal castello per fare una gita in barca, in occasione del primo anniversario di nozze, preludio di un'intera esistenza insieme, credevano. Avevano in comune la passione per il mare: erano entrambi nati con l'odore salmastro nelle narici e quando l'abbracciava, ritrovava in lei sapori che gli appartenevano, sensazioni che l'avevano accompagnato nell'infanzia e gli rallegravano le giornate passate in solitudine a giocare con la sabbia, sulla riva spalleggiata dalla grande casa in cui viveva. E proprio il mare, fratello che conosceva di lui persino i pensieri più profondi, l'aveva tradito come solo un amico fidato può fare. Prima quieto, quasi stregato dalla voce di lei che raccontava il loro futuro, tra sorrisi e lunghi silenzi, improvviso si era ribellato agitandosi e ingrigendosi; impietoso aveva inghiottito la barca e lei era sparita dalla sua vista senza grida, ingurgitata dalla corrente. Per giorni era ritornato come un pazzo, a gettarsi tra le onde ghiacciate per cercarla; forte invocava il suo nome, impotente voce contro le urla del mare che tempestava incurante del suo dolore e torbido gli impediva di trovarla per piangere sul suo adorato corpo. Poi con l'arrivo dell'autunno e il primo freddo, quando ormai disperato si era rassegnato a non più rivederla, il nemico rinvigoritosi nel sonno estivo gliela restituiva in un nuovo aspetto. Muta, irriconoscibile, quell'essere ricoperto di alghe e gonfio come un pallone pieno d'aria, non era più sua moglie. Nessuna traccia della sua delicatezza, della sua dolcezza, un corpo distrutto, su cui si era abbattuto uno scempio. Mai, mai avrebbe voluto vederla così, eppure l'aveva sollevata tra le sue braccia, prima che altri vedessero cosa le aveva fatto il mare e l'aveva seppellita. Non si seppe mai del suo ritrovamento e della sua tomba, scavata nella notte in un punto della spiaggia poco frequentato; e così indisturbato aveva vegliato il suo riposo per tutto l'inverno, protetto dal suo silenzio e dalla pericolosità che si riconosceva a quel posto, pieno di rocce spigolose. Di giorno lavorava e la sera, protetto dall'oscurità e incurante del freddo, la raggiungeva nel suo nuovo letto e in silenzio non faceva che ripensare alla rovina che aveva subito il corpo della sua amata chiedendosi come fosse possibile che lui, così innamorato non riuscisse a sopportare ciò che era diventata. Di questo incolpava la natura, che l'aveva resa orribile di fronte ai suoi occhi adoranti.
Finché lei era riapparsa una notte, splendente come in vita, non nei suoi sogni, lì nella sua camera, davanti al suo computer, come se la morte non le avesse fatto nulla ed evento ancora più incredibile, gli aveva chiesto di riprenderla. Continuava a stropicciarsi gli occhi per svegliarsi ma lei era davvero accanto a lui che poteva ammirarne il volto e la sinuosità del corpo, fasciato nell'abito da sposa. Era meravigliosa e avrebbe fatto qualsiasi cosa per riaverla al suo fianco. C'era solo un modo per tenerla, per farla tornare, lei gli aveva detto. Doveva elaborare un videogioco che rappresentasse l'aldilà così come lei lo aveva conosciuto, in non più di mille giorni e se ci fosse riuscito lei sarebbe ritornata a vivere altrimenti lui l'avrebbe dimenticata, anche nei sogni e nei ricordi: sua sola immagine sarebbe restata il suo corpo distrutto. Questo era il patto ch'ella aveva concluso coi Mani, facendo leva sull'amore sincero che il marito le portava e sulla sua fine miserabile, ch'essi biasimavano.
E da quella volta, ogni sera a mezzanotte lei appariva, bellissima ma incapace di parlare e lui doveva guardare nei suoi occhi per capire cosa fare e cliccare per costruire il tetro mondo che aveva visto e che aveva la possibilità di lasciare, per vivere con lui, immortale. Colpevole della sua morte che avrebbe dovuto evitare, forse poteva essere artefice della sua rinascita e lo voleva a tutti i costi.
Non era affatto facile il suo compito perché in parte lei aveva dimenticato. Gli antri oscuri, le acque infestate da insetti che aveva attraversato erano troppo spaventosi e piangendo lacrime dure come parole, guidava la mano dello sposo che la guardava assorto nel suo amore. Terrorizzato dall'idea di poterla perdere ancora, correva col mouse cliccando veloce sullo schermo per realizzare al più presto l'impresa più seria e dolorosa della sua intera esistenza.
Durante il giorno, senza la sua presenza cercava di riposare, per poter essere più attivo di notte ma il suo era un sonno angosciato. Incubi risalivano dall'inconscio, terribili visioni della moglie che cadeva in una fossa profonda per poi trasformarsi in una creatura mostruosa, lo tormentavano. Allora si svegliava, straziato dal dolore per aspettare di rivederla e carpirle i segreti di una realtà che i suoi begli occhi avevano dovuto vedere per disgrazia e che volevano cancellare ma non potevano per