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Caccia mortale
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E-book324 pagine4 ore

Caccia mortale

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ROMANZO (255 pagine) - FANTASY - Il primo romanzo delle Cronache dei Due Mondi, un nuovo, possente ciclo fantasy che vi porterà in un universo in cui per vivere e per ottenere piena dignità, gli uomini devono combattere. Anche contro creature che non provengono dal loro mondo...

Il cielo di Arkandia è avaro di nuvole quanto la sua terra lo è di giustizia. Delion di Rubra, primicerio del monastero di Urd il Profeta, è un senza cognome. Nel sistema corrotto della Confederazione uno come lui conta zero. Per questo ha deciso di unirsi a una società segreta che promette di rovesciare l'ordine costituito per sostituirlo con uno più equo, guidato da un uomo solo, come ai tempi dei re. Il suo sogno di cambiamento, però, vive il tempo di una notte. Un terremoto distruttore rade al suolo la città in cui vive, rimescolando le carte della sua partita con il destino. Un demone lo scruta dalle tenebre di una stanza gelida. Una fanciulla dai capelli immacolati trascrive tutto quello che dice e fa. La caccia è appena iniziata, e i mondi che sono stati separati presto saranno uniti di nuovo. Segui le avventure di Delion di Rubra nel ciclo delle Cronache dei Due Mondi!      

Stefano Marguccio (Milano, 1975). Dopo aver viaggiato il mondo tramite gli album di fotografie di famiglia, decide di fare del viaggio la sua professione. Laureato in Giurisprudenza, Master in Diplomacy dell'ISPI, Master in Management Pubblico della SDA Bocconi, fa le sue prime esperienze di lavoro sia nel settore privato che nel pubblico. Nel 2004 entra a far parte del corpo diplomatico della Repubblica Italiana. Da allora gli aerei lo hanno portato per lavoro in mezzo mondo. Appassionato di fantasy e di cavalli fin dalle elementari, nel 2010 inizia a scrivere le Cronache dei Due Mondi. Sua figlia, in un tema, ci ha tenuto a mettere su carta che è il membro più strano della sua famglia. Dal maggio 2014 è il Consigliere Diplomatico del Ministro dell'Ambiente della Tutela del Territorio e del Mare.
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2016
ISBN9788865306956
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    Anteprima del libro

    Caccia mortale - Stefano Marguccio

    Mare.

    Sii benedetta, lama di vento e di sole. Che il tuo filo non si perda mai in questo mondo e in quello nascosto. Possa tu essere strumento di pace e non di guerra. Possa il braccio di chi ti brandisce non stancarsi mai e il suo cuore rimanere saldo e fedele alle Sette Virtù. Armonia, Possanza, Coraggio, Compassione, Purezza, Fiducia e Gioia siano con te e con lui.

    Lucebrezza tu sarai, per spazzare via la cappa di tenebre che avvolge i nostri cuori e il mondo che possiamo vedere

    Fionnghall di Sanamasker, Memoria della Separazione dei Mondi, anno 1249

    Capitolo I

    Fang Qwa Jia

    Fang Qwa Jia, dell’ordine del Cigno di Neve, camminava eretta ed elegante per i corridoi infiniti dell’archivio degli annali, mentre fuori il sole si preparava a calare tra i picchi immacolati delle montagne dello Hunnan. Le ampie spalline a punta del suo chimono bianco, imbottito di pelliccia di ermellino, ne allargavano la figura di quattordicenne, ma al contempo la facevano sembrare più bassa. I piedi calzati di feltro, erano silenziosi come fiocchi di neve, mentre calpestava il pavimento di marmo. Le piccole lanterne appese all’inizio di ogni scaffalatura facevano uscire dall’oscurità il perfetto ovale del suo volto ogni tre braccia, gettando bagliori di fuoco sui capelli candidi e lisci che le arrivavano alle natiche. I suoi occhi a mandorla, di un viola ametista, non riuscivano a fare a meno di dardeggiare verso gli schiavi calvi che, immobili sotto le lanterne, attendevano pazientemente istruzioni. A ogni passo la mano destra strofinava il medaglione che portava appeso al collo, quasi fosse una fune a cui aggrapparsi in caso di pericolo. Cercava di sembrare solenne e sicura di sé, ma era nervosa come quando aveva varcato per la prima volta da bambina le porte del Tempio.

    Era il decimo giorno del quarto mese dell’anno 1249 dalla separazione dei mondi.

    Per prepararsi ad affrontare quello che la aspettava aveva pregato tutta la notte e dormito fino al primo pomeriggio. I suoi fratelli l’avevano aiutata a vestirsi con gli abiti sacri e avevano preparato per lei la bevanda che sostiene. Infine, il capo del suo ordine le aveva messo al collo uno dei medaglioni protettori.

    – Oggi la tua anima sarà vicina al demone, figlia mio. I due mondi che sono stati separati saranno nuovamente uniti. Attraverso di lui il mondo si aprirà ai tuoi occhi e alle tue orecchie nella sua interezza e, quello che vedrai e ascolterai, verrà trasformato dalla tua mano in un fiume di inchiostro che alimenterà le maree del tempo.

    – Sì, maestro Mo. Sono pronta – aveva risposto impaziente. Quella formula l’aveva sentita centinaia di volte, mentre i suoi confratelli venivano preparati per il primo contatto con i demoni veggenti, e ogni volta aveva immaginato di essere lei a indossare il medaglione. Le ultime parole del maestro risuonavano ancora nelle sue orecchie, mentre percorreva i gelidi corridoi dell’archivio.

    – Ricordati, Fang, ogni giorno potrai porre al demone una domanda, una sola. I demoni sono perversi e menzogneri, ma tu avrai la possibilità di acquisire una grande conoscenza. Le domande, figliola, possono accrescere il prestigio del nostro ordine o possono portare i suoi membri alla disperazione e alla follia. Questo non lo devi dimenticare mai.

    Quando giunse di fronte alla porta rotonda di lacca azzurra, il cuore le batteva furiosamente nel petto. Ogni singolo esercizio fisico e mentale degli ultimi dieci anni, ogni pagina degli annali ricopiata o memorizzata, ogni digiuno, ogni preghiera e ogni tecnica di concentrazione che aveva appreso, era stata pensata per prepararla a varcare una di quelle porte. La sua mano, dalle dita lunghe e affusolate, si fermò a mezz’aria, a pochi centimetri dalla placca di bronzo a forma di testa di demone con le fauci spalancate, che ornava il centro della porta. Fang chiuse gli occhi e recitò, nel silenzio del suo cuore, la preghiera dell’ordine per prendere coraggio.

    La mano toccò a quel punto la placca di metallo e spinse la porta verso l’interno. Una vampata di aria tiepida, profumata dall’incenso che i suoi confratelli usavano per tenersi svegli durante le visioni, la colpì al volto. Il tepore della stanza era benvenuto nel gelo della sera e le sue pupille si dilatarono per abituarsi alla semi oscurità che regnava all’interno.

    Con movimenti studiati nel minimo dettaglio, Fang Qwa Jia varcò la soglia. Era il suo ingresso in una nuova vita. Ogni passo e ogni mossa erano il frutto di centinaia di anni di tradizione dei Cigni di Neve, memorizzati da ogni adepto come la coreografia di una danza. Si andò a posizionare davanti al tavolino di lacca nera, dove ardeva la debole fiamma di una lampada a olio, e si inginocchiò davanti all’urna che conteneva il demone. Il vaso era più piccolo di quanto si fosse aspettata, ma perfettamente dipinto di un motivo di fiori blu e nuvole e sigillato da un coperchio a forma di cigno. Al centro campeggiava l’ideogramma che portava il nome dell’esterno. Era un nome molto noto tra i Cigni di Neve, il nome di uno dei demoni tentatori più antichi di Arn.

    Con le mani gelate mise in ordine di fronte a sé i fogli di carta di riso finissima che avrebbe dovuto utilizzare per trascrivere la visione, poi controllò, come le avevano insegnato, lo stato dei pennelli. Quando fu soddisfatta, prese il blocco di inchiostro scarlatto e lo sfregò sulla grossa pietra nera alla sua sinistra con undici movimenti esperti, invocando la protezione del numero sacro. Intinse la punta del pennello più grosso in una ciotola di acqua di fonte e poi nell’inchiostro, liberando il polso dall’ingombro del chimono e lasciando nudo il braccio fino al gomito. Solo allora direzionò la mano libera verso il coperchio dell’urna. Il silenzio nella stanza poco illuminata era opprimente. Ogni muscolo del corpo le diceva che sarebbe dovuta scappare lontano, che era l’ultima possibilità che le veniva concessa per sfuggire al suo destino. Aveva lo stomaco chiuso, stretto in una morsa di timore e aspettativa. Le dita affusolate indugiarono sul manico a forma di cigno del coperchio. Chiuse gli occhi trattenendo il respiro. La sua mente si rivolse al padre che aveva venduto due delle sorelle per poter pagare il Tempio affinché accogliesse la primogenita tra le sue mura. Il suo destino e quello della sua famiglia si compivano in quell’istante: i sacrifici e il dolore degli ultimi dieci anni avrebbero acquisito un nuovo significato. Aprì di scatto il coperchio. Il cuore accelerò, carico di aspettativa. Non accadde nulla. Fang sentì i muscoli del collo rilassarsi. Poi la porta laccata, che aveva lasciato spalancata si chiuse con un tonfo e la piccola fiammella della lampada vacillò e si spense.

    Rimase al buio per pochi, interminabili istanti con il coperchio in mano e il braccio paralizzato, poi una luce verdastra illuminò l’urna e iniziò a pulsare. Un vento ultraterreno frustò i capelli immacolati di Fang Qwa Jia, mentre una nebbia iniziava a uscire dal vaso. La voce si fece sentire subito dopo. Una voce profonda, suadente, che rimbombava nella cassa toracica di Fang e sembrava provenire da ogni direzione, attorno a lei e dentro di lei.

    – Chi osa unire i mondi che devono stare separati?

    Il demone usò la formula che Fang aveva letto mille volte sui sacri testi dell’ordine e la risposta le affiorò alle labbra senza doverci neanche pensare:

    – La Porta ti invoca, demone. Io sono la sua ancella.

    Una risata folle sembrò scuotere il palazzo degli annali fino alle fondamenta. Fang chiuse gli occhi istintivamente, come se, chiudendo le palpebre, potesse tenerla fuori dalla testa.

    – Con quella vocetta sembri più una bambina che gioca col fuoco, mortale. La Porta mi manda un’infante ad assistere alla sua sconfitta. Che mancanza di rispetto!

    Mentre la voce tuonava, Fang Qwa Jia riaprì gli occhi viola e la nebbia prese forma davanti a lei. Un cranio mostruoso di corna e zanne, stava poggiato sul corpo enorme di un uomo coperto di squame, che la fissava a braccia conserte. Nel guardarlo da capo a piedi, Fang si sentì minuscola e indifesa. Era un colosso di muscoli d’acciaio e paura che sembrava pronto a banchettare con la sua anima. Trattenne il respiro mentre il suo sguardo veniva catturato da un dettaglio. Due cicatrici, come due pennellate d’artista, lo rendevano ancora più mostruoso. Una gli tagliava in due il petto e l’altra gli attraversava il viso grottesco di lato, rendendolo orbo da un occhio. Un alone verdastro lo circondava come una nebbia velenosa.

    Portando la mano al medaglione affrontò lo sguardo del demone e recitò la preghiera dell’ordine.

    – Io sono occhio che guarda, sono foglia che galleggia sull’acqua, mentre il fiume la porta via. Io sono orecchio che ascolta: la mia vita è lo specchio del mondo.

    Il demone scosse il capo contrariato.

    – Avrò bisogno di tutta la pazienza che non ho con te, mortale. La Porta ti ha detto cosa dovrai vedere e ascoltare per Lei?

    Fang abbassò lo sguardo. Nessuno le aveva voluto dire niente di cosa avrebbe dovuto vedere e registrare e lei non aveva osato chiedere. Il demone continuò a parlare senza aspettare una risposta.

    – Come immaginavo. Non ti hanno neppure considerato degna di sapere. Conosci qualcosa della Confederazione di Arkandia, bambina?

    Fang scosse il capo senza alzare lo sguardo. Per anni aveva ricopiato pagine e pagine degli annali che riguardavano le vicende del Sindh e del Dush, le terre più vicine ai Monti di Cristallo. Di Arkandia conosceva il nome e poco più. Il demone proseguì e Fang avvertì tutto il suo biasimo mentre parlava.

    – Pietoso. Ora alza quello sguardo obliquo e prendi nota di ogni singolo dettaglio, perché quello che vedrai e ascolterai potrebbe essere molto importante per gli annali di Arn, bambina.

    Fang risollevò il capo per guardare il demone, ma al posto dell’urna e dell’essere mostruoso, di fronte a lei si era materializzata l’immagine perfetta di due giovani uomini che chiacchieravano seduti a cavalcioni del ramo di un albero enorme. La bocca le si spalancò per lo stupore. Non si aspettava una scena così nitida. Le forme e i colori dei giovani uomini erano molto differenti rispetto a quelle delle genti dei Monti di Cristallo. Uno aveva i capelli gialli come l’oro, l’altro era tarchiato come un nomade di Azara, ma aveva la pelle pallida e una barba rada e nera. Lei poteva ascoltare quello che dicevano come se fosse lì con loro. La luce del tramonto che tingeva le vesti dei due giovani uomini a cavalcioni del ramo, gettava i suoi raggi obliqui fino al tavolino laccato di fronte a lei, come se fosse inginocchiata davanti a una grande finestra che dava su un mondo a migliaia di leghe da lì.

    La voce del demone echeggiò di nuovo nella sua testa e questa volta Fang si spaventò, perché non se lo aspettava.

    – Chiudi quella bocca da idiota e inizia a scrivere, serva!

    Fang si avvide che il pennello che teneva in mano aveva già colato parecchie gocce scarlatte sul foglio di carta di riso. Colta dal panico, gettò a terra il foglio sporco e iniziò a trascrivere su quello immacolato sottostante la conversazione che stava ascoltando, con tratti decisi ed eleganti del pennello.

    Capitolo II

    Delion di Rubra

    – Non puoi dirmi che la preoccupazione principale della Corte ad Arkanda, in questo momento, è la rinegoziazione dei contratti di affitto delle terre Aram e restare lì tranquillo a incidere il legno.

    – Se vuoi te lo ripeto.

    – È come se un gruppo di taglialegna Strent si fermasse a discutere su quale albero di faggio tagliare, mentre attorno sta divampando un incendio.

    Delion di Rubra era indignato. La sua testa di capelli biondi si agitava, presa dalla foga delle sue argomentazioni. Ancora una volta i soldi venivano messi davanti ai problemi della gente. Venivano prima delle vittime del terremoto, prima delle voci di guerra che giungevano dal sud. L’amico Ramiro, seduto sul ramo di fronte a lui, continuò l’intaglio, mentre gli rispondeva con la solita flemma.

    – E adesso mi dirai che dobbiamo cambiare il mondo.

    – Vorrei solo meno taglialegna idioti al potere e più senso di responsabilità.

    – Senso di responsabilità? Lo sai a quante sepolture ho dovuto sovraintendere in questi giorni? Mille settecento sette. E non abbiamo ancora finito. Domani…

    – Non mi sto lamentando di te, Ramiro. Dico solo che forse questi morti, questo maledetto terremoto che ci ha portato via la città, sono uno scossone all’ordine disordinato che domina la nostra terra. Un messaggio.

    – O forse si è solo smossa la terra e ci ha fatto crollare le case in testa. Forse se avessimo usato più legno e meno pietra per le costruzioni o se avessimo vietato di edificare palazzi addossati l’uno all’altro, ora avremmo meno morti. Le fosse comuni sono piene di forse. La Siccità non accenna a finire. Gli unici campi coltivabili sono al nord e dobbiamo mangiare. Per quel che mi riguarda evviva i taglialegna.

    Delion si appoggiò al tronco usando lo zaino che portava sulle spalle come cuscino e tirò fuori un mazzo di carte, che prese a mischiare distrattamente.

    – Di’ quello che vuoi, ma sugli affitti dei terreni ci mangeranno soprattutto i prestatori di denaro Sindh e tutti quelli con un cognome, come te. Per gli altri sarà la fame. Le zucchine raggiungeranno il prezzo dei diamanti e quel poco che la gente ha risparmiato, gli verrà portato via in tasse. Se ad Arkanda ci fosse ancora un re…

    – Smettila di tirare fuori il re tutte le volte. Neanche a me piace come la Corte gestisce le cose, ma è lì che si prendono le decisioni, ormai. E non saranno i tuoi amici cospiratori della Taverna dello Zallero d’Oro che sapranno proporre un alternativa, ammesso che siano ancora vivi. Vuoi fare la differenza? Vuoi cambiare il mondo, come dici sempre? Allora segui il consiglio di mio padre: presta il giuramento, prendi il cognome del mio casato e vai a lavorare al Pinnacolo.

    Il riferimento alla Taverna gli paralizzò le mani che smisero di mischiare il mazzo. Non ne aveva mai parlato con Ramiro. Un brivido gelido gli percorse la schiena, ma decise di buttarla sul ridere.

    – Mi sembra di sentirlo – la voce di Delion cambiò tonalità in quella che voleva essere un’imitazione di Hector Libona, il padre di Ramiro – è facile criticare da fuori, figliolo. Smettila di sprecare la tua gioventù come galoppino dei monaci, presta il giuramento e trovati un lavoro serio. E magari è la volta buona che ti fidanzi, metti la testa a posto e inizi a fare figli, come una persona rispettabile! La testa non ti manca, anche se ti chiamano Delion lo Strano.

    Ramiro scoppiò a ridere.

    – Lui di figli ne ha fatti sette e alla nostra età era già in attesa del quarto. Non mi stupisce che si preoccupi. Ti vuole bene, sa che sei in gamba e gli dispiace che ti sia rimasta la fama dello squilibrato.

    – A proposito di mogli e figli. Cosa hai deciso di fare con Teresa e le ragazze?

    Ramiro ripulì i trucioli dall’incisione che aveva fatto sul ramo, una lettera R e una T, poi aggiustò meglio la borsa di cuoio che portava a tracolla e vi ripose il coltello.

    – Le ho fatte scortare a Valenia, ieri. Era diventato troppo difficile trovare del cibo e non mi fidavo a farle dormire in casa. Soprattutto Matilde ha bisogno di tornare a una vita regolare. La notte non faceva che urlare nel sonno e non ha più detto una parola dalla Grande Scossa. Mio fratello le ospiterà per un po’. Almeno fino a quando la situazione non sarà tornata normale e la terra non avrà smesso definitivamente di tremare.

    Delion annuì alle parole dell’amico, poi si sporse a guardare il mare di tende e coperte stese a terra che occupavano tutto il Parco dei Monumenti che si estendeva sotto di loro. Normale. La situazione ci avrebbe messo un bel po’ a tornare normale. Soprattutto se in capitale nessuno si fosse preso carico dell’emergenza. Frotte di bambini sporchi e sudati si concedevano gli ultimi giochi di gruppo, prima che le madri li chiamassero per la cena. Le donne erano indaffarate a preparare da mangiare, mentre gli uomini chiacchieravano in piccoli capannelli. Il fumo dei fuochi da campo si alzava verso il cielo terso e il profumo della cucina speziata delle terre Libona saliva fino alle fronde rinsecchite dell’enorme albero su cui erano seduti. La brezza della sera aveva iniziato da poco a soffiare dalle montagne che circondavano la città, sollevando la cappa di caldo che l’aveva oppressa durante il giorno.

    – Sai che ti dico? La giustizia non esiste. Se l’è portata via il terremoto. Esiste solo la fortuna.

    Delion allungò una mano verso l’amico e con un movimento sapiente delle dita aprì il mazzo a ventaglio.

    – Pesca una carta.

    – Sono vecchio per queste cose.

    – Coraggio, la vita è una partita.

    – Un primicerio non dovrebbe essere superstizioso.

    – Mica ti sto leggendo la mano. Voglio vedere cosa ha in serbo per te la fortuna.

    Ramiro prese una carta dalla metà del mazzo e la girò lentamente.

    – Cinque Legni.

    – Un bello schifo.

    Ramiro sorrise e si pettinò la barba con una mano, mentre si tirava in piedi, poi restituì la carta.

    – A furia di giocare a Forca sei diventato più pazzo di prima. Ti lascio ai tuoi impegni. Ma perché il priore Moghens ha voluto che li incontrassi qui invece che al monastero?

    – Non lo so. Mi ha dato una cosa che vuole che gli consegni, ma mi sembra di aver capito che non gli vada di farsi vedere con loro. Evito di discutere i suoi ordini, ormai.

    – Ordini? Parli di Moghens come se fosse il feroce capitano di una compagnia di mercenari Thera.

    – Moghens sa essere molto più feroce di un capitano Thera, dovresti saperlo anche tu. Ti ricordi le sue urla durante le lezioni di grammatica e retorica?

    Ramiro scosse la testa, con la faccia più seria che mai.

    – Per le corna del Thiago, come potrei dimenticarlo? Ringrazio tutti i giorni il Signore dell’Alba di non essere più seduto tra quei banchetti. Non riuscivo mai a dormire la notte prima delle prove di traduzione dall’arkandiano antico.

    Ramiro rimase in silenzio per qualche istante, evidentemente immerso nei ricordi degli anni passati a scuola, quando, dalla borsa di cuoio che portava a tracolla, fece capolino il musetto di un cane minuscolo con le orecchie enormi. Delion, che stava riponendo il suo mazzo di carte, inorridì. Odiava i cani. Ramiro sorrise e avvicinò un dito al naso dell’animaletto, che subito lo leccò affettuosamente.

    – Ciao piccola! Ben svegliata.

    – Cos’è quella cosa?

    – Pensavo ti fosse passato il terrore dei cani, Delion. Si chiama Lilly. Con il terremoto si era andata a nascondere chissà dove. È rispuntata solo ieri, sporca e affamata e ho deciso di non perderla d’occhio. Con quello che mi è costata.

    Mentre parlava, Ramiro estrasse Lilly dalla sacca e allungò il braccio verso Delion, per mostragli l’animale.

    – È un cane farfalla. Una piccola principessina pelosa. Vittoria la adora.

    La cosetta fulva e bianca con due orecchie buffe, che sembravano in effetti ali di farfalla, si mise a fissarlo con occhi brillanti e la lingua rosa a penzoloni. Il cuore di Delion iniziò a pompare più velocemente, reagendo istintivamente alla paura che provava. Odiava i cani. Lo avevano morso quando era piccolo. Istintivamente si appiattì contro l’albero, cercando di mettere più distanza possibile tra lui e quel musetto aguzzo. I cani capivano subito se qualcuno aveva paura di loro. E se ne approfittavano. Anche quelli grandi come una mano.

    – Rimetti dentro quella cosa. Non la voglio neanche vedere.

    – Mi sembra che con l’età peggiori invece che migliorare.

    Delion scosse il capo. Un leggerissimo strato di sudore freddo gli copriva la fronte, mentre cercava di dirsi che Lilly era pericolosa quanto un pezzo di pane sul tavolo.

    – Ti sbagli, riesco persino a camminare per le strade di Rubra, che in questi giorni pullulano di cani randagi. Solo preferisco tenerli a distanza.

    Ramiro fece uno sguardo scettico e si portò Lilly alle labbra per darle un bacio.

    – Lo zio Delion il Cospiratore, è un fifone, ma ti vuole bene lo stesso Lillina.

    La cucciola abbaiò due volte allegra si mise a scodinzolare, mentre Ramiro la rimetteva nella sacca.

    – Ti lascio ai tuoi impegni. Se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi.

    Vedere la cagnolina sparire nella borsa e provare sollievo fu un tutt’uno. Delion salutò l’amico con un cenno e lo seguì con lo sguardo mentre scendeva dall’enorme pianta dove si erano dati appuntamento. I movimenti di Ramiro erano quelli fluidi di un atleta. In un attimo fu a terra e attraversò il parco. La gente si apriva davanti a lui come i flutti davanti alla prora di una nave. Molti si inchinavano, qualcuno cercava di toccarlo o lo fermava per ricevere un sorriso e una buona parola.

    Delion il Cospiratore. La Taverna dello Zallero d’oro. Accidenti a lui. Se non fossero stati così amici avrebbe trovato i suoi commenti come un macabro avvertimento. La Setta del Tiranno giocava col fuoco. Istintivamente portò la mano al medaglione che portava nascosto sotto la camicia e tirò fino a spezzare la catenina che lo reggeva. Aveva fatto un’idiozia.

    Capitolo III

    Spari al tramonto

    Delion rimase qualche istante a fissare il medaglione della setta. Era un oggetto grezzo e pesante. Un pezzo di ferro nero che raffigurava un pugno chiuso. La sua bruttezza sembrava accusarlo di qualche crimine che non aveva ancora commesso. Era stato un illuso a pensare che un gruppo di artisti–cospiratori e giocatori d’azzardo potessero fare qualcosa contro il governo. Anche se Pablo gli aveva assicurato che la setta aveva appoggi molto in alto. Si era fatto prendere dal brivido della segretezza, dai simboli, dai gesti, dai riti. E gli era rimasto solo un inutile pezzo di ferro.

    Con un sospiro si alzò e si mise a scrutare la folla sotto di lui, cercando i tre monaci con cui si doveva incontrare. Avevano appuntamento ai piedi del gruppo di rovine che si trovava al centro del parco: i monumenti che gli davano il nome. L’ammasso decrepito, ma ancora elegante di colonne, capitelli e archi mezzi crollati, rifletteva le tonalità calde del tramonto. Non sembravano esserci tonache in vista. Mentre stava per rimettersi di nuovo seduto a cavalcioni di uno dei rami del Faggio Antico, Delion socchiuse gli occhi per la sorpresa. Un gruppo di armigeri vestiti di viola si aggiravano poco distante dai monumenti. Il suo naso si arricciò in una istintiva espressione di disgusto. Tuniche Viola, il braccio armato della Confederazione. Dove c’erano loro c’erano guai, pensò, citando una frase di suo padre. Erano almeno una ventina e stavano setacciando il parco a pattuglie di cinque, provenendo da direzioni diverse. Al loro passaggio, la gente nascondeva i bambini nelle tende ed evitava di incrociarne lo sguardo. Le micce degli archibugi rilasciavano una sottile linea di fumo che si alzava al cielo, mostrando che erano pronti a fare fuoco.

    Delion si stava chiedendo che cosa facessero lì, quando un corvo nero dal piumaggio lucido si andò a posare sulle lettere incise da Ramiro poco prima. Era grasso e Delion pensò che doveva aver banchettato lautamente con i resti delle vittime del terremoto. La bestiola si mise a zampettare e lo fissò di sbieco con gli occhi di ossidiana. Il grosso becco sembrava sorridergli beffardo e Delion lo guardò torvo. Se quel pennuto avesse saputo quanti suoi fratelli piumati aveva preso a

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