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I Custodi di Ariah: Libro I - ll Custode delle Cinque Pergamene
I Custodi di Ariah: Libro I - ll Custode delle Cinque Pergamene
I Custodi di Ariah: Libro I - ll Custode delle Cinque Pergamene
E-book1.038 pagine15 ore

I Custodi di Ariah: Libro I - ll Custode delle Cinque Pergamene

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Info su questo ebook

Di genere fantasy-epico, il Custode delle Cinque Pergamene è il primo di 4 libri appartenenti al ciclo “I Custodi di Ariah”. La storia si sviluppa nel mondo di Ariah dai luoghi meravigliosi e carichi di storie, creature incantate e terribili.
La trama è fitta e nulla succede a caso. I protagonisti affronteranno avversità e intrighi, mentre la storia si sviluppa in un crescendo di sentimenti, azione e tensione, scorrendo in modo fluido fino alla conclusione, in cui un epilogo dolce amaro, da sorriso e occhi lucidi, aspetta il lettore dopo il lungo viaggio insieme ai personaggi di questa storia.

LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2018
ISBN9781370205455
I Custodi di Ariah: Libro I - ll Custode delle Cinque Pergamene
Autore

Dario Nicosia

Nato in America nel 1974, ha vissuto un po’ovunque in Italia, abitando e studiando in città diverse.Dopo un diploma da perito elettronico ha ben deciso di prendere una laurea in Medicina Veterinaria.L’incontro con Tolkien (con le sue opere, ovviamente: non è così vecchio) ha cambiato il suo modo di vedere le cose. Scrive di fantasy chiedendosi, ogni tanto, come sarebbe curare un Drago. Per adesso si limita a guardarli da lontano.

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    Anteprima del libro

    I Custodi di Ariah - Dario Nicosia

    Romanzo fantasy

    Dario Nicosia

    Smashwords Edition

    Copyright Dario Nicosia, 2018

    Tutti i diritti riservati

    Illustrazione di copertina e mappa:

    Dario Nicosia

    Consulenza grafica copertina:

    Alice Ravanetti - alix.rava@gmail.com

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Dario Nicosia

    Copertina

    Il Custode delle Cinque Pergamene

    Ringraziamenti

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, siete pregati di acquistare la vostra copia.

    Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.

    Nella formattazione di questo ebook è stata messa la massima cura, tuttavia la conversione nei diversi formati avviene in modo automatico, per cui potreste trovare refusi/imprecisioni non dipendenti dalla nostra volontà. In caso quest’opera si comporti in modo anomalo sul Vostro dispositivo, non esitate a contattare l’Autore, spiegando il problema.

    Sarà fatto il possibile per porvi rimedio.

    Dario Nicosia

    Nato in America nel 1974, ha vissuto un po’ ovunque in Italia, abitando e studiando in città diverse.

    Dopo un diploma da perito elettronico ha ben deciso di prendere una laurea in Medicina Veterinaria.

    L’incontro con Tolkien (con le sue opere, ovviamente: non è così vecchio) ha cambiato il suo modo di vedere le cose. Scrive di fantasy chiedendosi, ogni tanto, come sarebbe curare un Drago. Per adesso si limita a guardarli da lontano.

    Contattalo:

    sdnicosia@libero.it

    Seguilo su:

    www.sdnicosia.wordpress.com

    Facebook: S.D. Nicosia

    Instagram @s.d.nicosia

    Il Custode delle Cinque Pergamene

    Mappa di Ariah

    Per te

    Prologo

    I - Il ritorno di Ashan e lezioni all’aperto

    II - Namil ed il Cavaliere Thèrasan

    III - Un accordo e la curiosità del Cavaliere

    IV - Separazioni ed incontri nella notte

    V - L’attesa ed un piccolo dono

    VI - La notte del traditore ed il rito della Rosa

    VII - Giovinezza e domande ai due capi del mondo

    VIII - Un uomo fortunato e la maschera d’argento

    IX - Presentazioni ed una strana richiesta

    X - Ghiaccio Nero e la sabbia dei Goblin

    XI - Il cambiare del vento ed il compito del padre

    XII - Un vecchio diario ed il buon figlio

    XIII - Riunione ed un racconto d’altri tempi

    XIV - Riposo ed attesa nel Lai-Nihèn

    XV - Partenza e le voci dalle pietre

    XVI - Thurt ed il cuore della montagna

    XVII - Ospiti inattesi e l’ultimo saluto

    XVIII - Il nome nella leggenda e la forza di Rowen

    XIX - Bivio e cavalli al galoppo

    XX - Casa! E la Fortezza dei Ghiacci

    XXI - Rianden ed il guardiano della cascata

    XXII - La battaglia e l’ultimo dono dei Nani

    XXIII - Una canzone e l’ultima missione

    XXIV - Stratagemma ed un pasto indigesto

    XXV - Tessàr e gli occhi oltre la finestra

    XXVI - Silenzio ed Ombra

    XXVII - Difese ed il giorno di Ashan

    XXVIII - Fuga precipitosa e amici inaspettati

    XXIX - La tonaca bella e l’uomo che nacque due volte

    XXX - Ancora un sogno ed una storia in riva al lago

    XXXI - Notte in biblioteca ed il ritorno del Custode

    XXXII - Mete ed il ritorno a casa di Assì

    XXXIII - Saggezza ed una tavola allegra

    XXXIV - Kayrina e la stanza del tesoro

    XXXV - Salvataggio e molti eventi

    XXXVI - Inseguimento e la prima lama

    XXXVII - Un gesto avventato ed uno che potrebbe sembrarlo

    XXXVIII - Anamarè e lo Spettro nella tenda

    XXXIX - Il rudere e la botola sotto la paglia

    XL - Il Demone e la folle corsa

    XLI - La macchia sulla pelle e l’erede dei Kio’an

    XLII - Il letto di fiori e la via del mare

    XLIII - Bende profumate ed i rumori di casa

    XLIV - Il sonno della verità ed il potere del Casmeth

    XLV - Mani nella sabbia e la notte più lunga

    EPILOGO

    Per te

    Saluto Te, lettore, per aver deciso di fermarti a leggere questo libro. Grazie per aver deciso di dedicarmi il tuo tempo, cosa che, in questi tempi, è sempre più preziosa.

    Quando scrissi le prime righe del Custode era il 1996. Tra quelle e l’ultima correzione dell’ultima riga sono passati ventuno anni. Allora non aveva neanche un titolo.

    In tutto questo tempo ho rimaneggiato, corretto, modificato, tagliato, smussato. Ed in un certo senso è anche ciò che la vita ha fatto con me.

    Posso dire che, per metà della mia esistenza, il Custode mi ha accompagnato portandomi spesso dall’altra parte, quella del mondo nella mia testa.

    Fuggire ed abitare nella parte di là, popolata dalle più svariate razze fatate, mi ha aiutato a sopportare le vicissitudini di questo mondo.

    Nella vita di qua, in questi venti anni, ho visto nascere e morire amori, amicizie, persone. Mi sono laureato, ho trovato lavoro e, sì, ho preso coscienza di stare entrando nel meccanismo automatico di questa società. Ti svegli, mangi, lavori, mangi, lavori, mangi (non sono ripetizioni), dormi.

    Esistono le vie di fuga ed in questi anni ne ho provate tante (tutte legali e niente di stupido, ovviamente), ma alla fine torno sempre alla tastiera o, più romanticamente, a carta e penna. Ed infine eccolo qua, dopo molte ore di correzioni e turpiloqui per l’una o l’altra cosa andata storta, è finito ed è pronto per te.

    Credo sia inutile dire che in ogni personaggio di questo libro vi sia una parte di me. Personaggi molto diversi tra loro così come sono diverse le sfaccettature del carattere di ognuno di noi. Tuttavia presta loro attenzione perché ognuno vorrà dirti qualcosa oltre quello che leggerai nei loro dialoghi.

    Il Custode delle Cinque Pergamene è il primo di quattro libri del ciclo I Custodi di Ariah. Ogni libro è indipendente dagli altri, per cui saranno quattro storie separate.

    Siamo nel mondo di Ariah e le razze che vivono su questa splendida terra dovranno trovare il coraggio di superare diffidenze e vecchi rancori per collaborare e salvare così quelle terre che, alla fine, sono di tutti. Sappi che in questa storia in non c’entro niente, non ho inventato niente. Sono rimasto ai bordi guardando i personaggi agire, parlare, riflettere. Tutto ciò che ho fatto è stato trascrivere (spero nel migliore dei modi) ciò che vedevo.

    Lo so, gente strana noi scrittori. Ma, in fondo, chi è normale? Parlarti dei personaggi o della storia sarebbe un anticipare protagonisti ed eventi che preferirei scoprissi da solo.

    Non mi resta che suggerirti di metterti comodo (magari metti su un po’ di musica rilassante) ed augurarti una buona lettura, sperando che questa mia prima opera ti faccia buona compagnia.

    Dario Nicosia

    Al Bambino che mi guarda da vicino la finestra.

    e quando il sangue dell’ultimo innocente sarà versato…

    PROLOGO

    L’Ombra scivolò lesta e silenziosa nella notte, impalpabile e sicura come nebbia tra alberi e siepi, rami e foglie; s’intrufolò tra due amanti che discutevano d’amore; passò la strada vuota e buia: niente l’avrebbe fermata, niente; non c’era ostacolo e non c’era impedimento.

    Salì su per il torrione del tempio di Maerhes ondeggiando al chiarore del fuoco. Scese poi per le scale interne, passò sotto il naso di due sacerdoti di guardia intenti nelle orazioni della sera, poi dietro le spalle di altri due, e altri due ancora. Nessuno dei Guardiani di Ariah si accorse di lei, eppure avrebbero dovuto fermarla.

    Danzando insieme alla luce delle torce, prese i corridoi con andatura sicura, come un ruscello che solca greti già scavati dalle piogge. Le pareti erano ricche di incisioni scolpite nella pietra levigata: parole che costituivano un canto, dei versi sacri, poi leggende e gesta, proclami e leggi.

    Ecco un canto! Una litania confusa, tanto da addormentare i sensi e abbattere la volontà. Divenne poi note e parole. Scivolò tra gli arpeggi, seguendo sei monaci che portavano il Fuoco e l’Acqua. Entrarono in un corridoio, poi un altro ed un altro ancora. Scesero delle scale e si ritrovarono in un giardino rotondo: sei monaci e sette ombre. Percorsero il giardino e varcarono la soglia di un portone. Altre scale, stavolta in salita, mentre la litania continuava. Un canto a Maerhes Signore delle acque, del mare, dei fiumi e persino delle nuvole: colui che dona la vita stessa. L’ombra tradusse alcuni versi:

    "…terza delle Pergamene…gloria a te o fonte di ogni vita…

    anche le nere creature della notte debbono la vita a te…

    terza fonte del sacrificio…gloria a te…

    Tu che purifichi il dolore e l’oscurità e la vita eterna tra i mortali…

    Dormiente del sacro sonno del riposo della creazione… dalla creazione…

    Puro tra i Gloriosi..."

    L’ombra rise mentre il piccolo corteo di preghiera entrava in una stanza ovale. Il pavimento era immerso nell’acqua per almeno tre o quattro braccia. I sacerdoti s’incamminarono su di una passerella stretta e sospesa, diretta verso il centro della stanza, per poi volgere verso destra ed arrivare ad una parete. L’ombra decise di lasciare il piccolo corteo. Scivolò sull’acqua senza disturbarne la superficie e si diresse verso una grossa colonna scolpita nel muro. S’inerpicò fino in cima e trovò un posto dove posarsi e sorvegliare ogni cosa. Vide i sei monaci disporsi a semicerchio di fronte all’altare del loro dio. Sopra era eretta una statua alta almeno otto braccia: imponente dimostrazione di possanza e grazia. Il suo volto e la sua posa immortalata con estrema ricchezza di particolari affascinavano fin quasi a stordire i sensi. Eretta fin quasi a sfiorare il soffitto, nella mano sinistra tenuta vicino al fianco, reggeva una lancia a tre punte. Nell’altra, portata innanzi e con il palmo rivolto verso l’alto, ospitava una grossa sfera di zaffiro dalla superficie che brillava dei colori dell’arcobaleno.

    Scolpita tra le onde, sembrava emergere dal mare, o che il mare stesso, suo strumento, l’avesse portata in superficie. Il volto era liscio e sereno, ma riflessivo. Una cascata d’acqua sgorgava al di sopra di essa e scorreva a partire dalla testa.

    "È uno zaffiro!", pensò l’ombra.

    Il più grosso zaffiro che avesse mai visto e che avesse, o meglio, aveva intenzione di prendere e tenere per sé. La sua attenzione però fu attratta da qualcos’altro. Il capo della statua era cinto da una corona e in mezzo a questa una nicchia ospitava un’urna di cristallo illuminata da una luce candida e calda. Fissò l’urna ed il suo contenuto, poco chiaro da quella distanza. Se ne sentì attratto, attratto in maniera violenta.

    Tre enormi coppe erano adagiate sull’altare. Due monaci portatori si avvicinarono ad esse mentre gli altri quattro rimasero indietro, in ginocchio e col capo chino. I due monaci versarono acqua nelle coppe. Dietro a queste vi era scolpito nel marmo un libro molto spesso, da cui era possibile scorgere a rilievo delle frasi, ma l’ombra avrebbe dovuto avvicinarsi di più per riuscire a leggerne le incisioni. I Sacerdoti cantarono con più vigore, ripetendo quasi all’infinito: "…GLORIA…GLORIA…GLORIA…".

    L’acqua evaporò. L’enorme statua sembrò quasi respirare di quei vapori. Infine i sacerdoti terminarono la litania rimanendo inginocchiati in silenzio. Solo il lieve scroscio della piccola cascata echeggiava nella stanza. Poi si alzarono e, ordinatamente ed in fila, uscirono. La sala era completamente vuota adesso.

    L’oscura presenza attese ancora un po’. Solo dopo qualche minuto decise di venir giù e andare a fare ciò per cui era venuto. Nuovamente passò sull’acqua senza incresparne la morbida superficie, poi salì sulla passerella. Zaffiro e urna sarebbero stati presto suoi. Sogghignò. Arrivò di fronte all’altare e non poté resistere: tornò uomo.

    Non lesse le parole scolpite sul libro di marmo, tanta era l’eccitazione e tanto era sopraffatto da cieca bramosia. Se le avesse lette, forse, non avrebbe portato a compimento ciò per cui era arrivato.

    ***

    Anche nel lontano Nord quella notte calò la nebbia. Ammantò tutto. S’insinuò tra gli alberi e le foglie dei cespugli. Inumidì i frutti e la terra. Un lupo la sentì arrivare ed alzò la testa e, come preso all’improvviso, le ringhiò contro. Si calmò e poi un ululato si diffuse nella foschia, lontano.

    Un’inerme figura era ancora un groviglio di legacci di ghiaccio e cristallo. Imprigionato da quando il sottobosco intrappolò il suo corpo e la follia invase la sua mente.

    Nudo, coperto solo delle sue bianche catene, centinaia, migliaia di rami e ramoscelli lo avevano sepolto. Un tumulo di miseria e tristezza, rabbia ed impotenza.

    Destando ogni sorta di vita dal riposo notturno, scuotendo i sensi di coloro i quali nella notte hanno il proprio regno, il richiamo del lupo arrivò fino alle lande desolate del Kern. La sua voce giunse fino alla grande Aquila, messaggera degli dèi. Essa allora discese dal Marànthar per planare e posarsi di fronte al tumulo. Con il becco sfiorò la prigione di ghiaccio e questa si animò, liberando l’uomo al suo interno.

    Cadde in ginocchio trovando un respiro di vita che aveva ormai perso da molti secoli. «Torna a vivere!», fu il messaggio della grande Aquila.

    Il re aprì gli occhi. L’aria fluì nel suo petto con il vigore d’un tempo. La vista tornò ed i suoni tornarono a riempire le sue orecchie.

    Le stelle non gli sorridevano perché celate alla vista dalla coltre di petali di ghiaccio, che un tempo erano foglie.

    Chiuse gli occhi e la sue prime parole, dopo molti secoli, furono di una lingua antica forse quanto il mondo stesso, per recitare un incantesimo. Rami di ghiaccio lo avvolsero ancora, non più per imprigionarlo, ma per vestirlo della sua armatura bianca.

    Emise un fischio acuto e potente che raggiunse il destriero, rimasto anch’esso dormiente, in attesa della chiamata. La terra tremò sotto gli zoccoli quando arrivò al trotto: bianco come la luce del sole e possente come una montagna.

    «Ben trovato, Imperatore, amico mio», disse accarezzando il collo del cavallo. Questi nitrì e sbruffò. Dalla guaina nella sella estrasse la sua spada di metallo rosso e questa s’incendiò in un istante. La guardò con attenzione mentre le fiamme l’avvolgevano, poi la rinfoderò. Senza aggiungere altro montò in groppa al suo destriero che s’impennò nitrendo e poi partì al galoppo verso nord, mentre l’eco della voce di Imperatore non si era ancora spenta.

    CAPITOLO I

    Il ritorno di Ashan e lezioni all’aperto

    Sulla collina ad est apparve il Cavaliere nero. Il bosco alle sue spalle proiettava ombre su di lui e sul suo cavallo. Avanzò ancora di un po’ per mettersi al sole caldo e splendente di quella mattina di settembre. Drizzandosi sulla sella respirò la brezza marina e rimase ad ammirare la valle, le colline ed il mare.

    «Mi sei quasi mancata, Airìn...», sussurrò. «E tu sei fuori pista, Veleno».

    Il cavallo sbruffò e scosse la testa, poi si mise a raspare in terra alla ricerca di erba. Il Cavaliere fece spaziare lo sguardo come cercando quei riferimenti familiari ai suoi occhi.

    A nord il tempio a Maerhes dominava la valle intera. La statua del Dio delle Acque, scolpita in una posa possente e meditativa, era il guardiano sulle loro vite. Eretto su delle onde, come appena sorto dal mare, con lo sguardo severo rivolto verso l’orizzonte, nella mano sinistra stringeva un tridente e nell’altra una grossa sfera.

    Un grande colonnato dietro la statua continuava sui lati, fino alla parte opposta in cui vi era l’ingresso, a cui si accedeva tramite un viale alberato.

    Sorrise e poi spostò lo sguardo a sud, verso la collina dell’Accademia. Un grande palazzo dalle molte torri sulle cui sommità delle bandiere, di colore diverso, garrivano al vento. Una costruzione imponente: da sola avrebbe potuto ospitare quasi un terzo degli abitanti di Airìn. L’edificio fu eretto da un ricco capitano di ventura il cui nome è andato perduto nelle pieghe del tempo.

    «…Ma ormai è un tempo che fu», aggiunse il Cavaliere, tornando serio. «È il momento di tornare in città, amico mio». Il cavallo sbruffò ancora e si diresse verso un sentiero che serpeggiava lungo il fianco della collina fino a portare in mezzo alle prime botteghe in periferia.

    Qualche stralcio della foschia di settembre indugiava lungo la via, ma il Cavaliere sapeva che la brezza marina l’avrebbe spazzata via in un soffio. Osservò i ruscelli che scorrevano dalle tre colline per poi confluire nel fiume Rah che, scorrendo dolcemente tutto l’anno, scandisce i tempi ed i ritmi delle vite degli airilin, che al fiume sono legati anche col cuore.

    Alle sue orecchie arrivarono le grida dei gabbiani e degli albatri che, volteggiando ad ali spiegate sulla spiaggia ad ovest, facevano compagnia ai pescatori ed attendevano che qualcuno di questi gettasse loro qualche pesce durante le pulizie delle reti.

    Passò accanto al vecchio mulino di proprietà degli Hackesburg praticamente da sempre. Vide all’interno due giovani lavorare senza troppo parlare, caricando su un carro dei sacchi di farina. Il signor Willas Hackersburg poggiato sullo stipite della porta, a braccia incrociate, guardava i due lavorare e urlava loro di sbrigarsi o gli avrebbe dimezzato la paga.

    «Ecco perché ti hanno sempre rubato la farina, vecchio Willas», disse fra sé il Cavaliere, e proseguì il tragitto.

    Vide poi Laman il Trono d’Oro, allevatore e macellaio di maiali. Si diceva che in casa avesse un trono d’oro e che lo tenesse nascosto dagli sguardi indiscreti, perché solitamente vi faceva sedere gli spiriti maligni con cui stringeva patti demoniaci, cosicché le sue scrofe fossero sempre incinte ed in salute e le nascite di suinetti numerose, oltre avere maiali sempre belli e grassi, mentre quelli degli altri, brutti e malconci. In effetti i suoi maiali erano sempre stati i più belli della regione. Il Cavaliere guardò l’allevatore mentre in un recinto tastava la cotenna di uno dei suoi porci e sorrideva soddisfatto.

    Passò davanti alla bottega di mastro Ghinian, il falegname. L’artigiano lo fissò con lo sguardo curioso, e l’uomo a cavallo lo salutò con un cenno del capo.

    Fu la volta del panettiere, del sarto, del mastro di cere. Il fabbro Gwining lavorava con pesanti colpi di martello ad un pezzo di metallo incandescente. Gli avrebbe dato la forma di chissà quale oggetto. Un maestro della forgia, Gwining. Si dice che fu un vecchio Nano ad insegnargli i trucchi del mestiere. Meno bravo ma molto volenteroso il figlio Gwinian.

    Cominciavano, poi, le abitazioni. Un lungo viale che conduceva fino al centro della città, in mezzo alla piazza grande, con la grandissima fontana della Guardiana del Mare, colei che accudisce ai beni di Maerhes e ne svolge il lavoro delle maree. Il paese intero la teneva in gran considerazione nei propri riti. I pescatori pregavano lei per lo più, prima di salpare per la pesca.

    Dopo una paio di strette traverse il Cavaliere dal volto ancora coperto girò a destra per un vicolo. Molta gente era indaffarata nelle proprie commissioni. Carrozze, cavalli e persone appiedate circolavano frettolosamente come formiche in un formicaio: la città era diventata caotica ed a lui estranea. Si fermò qualche passo dopo alla Locanda del Falconiere. Smontò da cavallo e chiamò il garzone che stava lì seduto sulle scale d’ingresso.

    Quando questi gli si avvicinò il Cavaliere disse: «Ha bisogno di essere ferrato, portalo da Gwining, e bada che sia lui a ferrarlo. Poi portalo in stalla, dagli la biada migliore che hai e striglialo, ma con gentilezza. Ecco, prendi», e così dicendo gli allungò una rima, una moneta d’argento.

    «Se fai tutto a dovere, ce ne saranno altre due per te».

    Il piccolo stalliere annuì contento e incredulo, e poi si allontanò.

    «Ehi, ragazzo», lo chiamò il Cavaliere, «sta’ attento! Non provare a montarlo o non potrai goderti la mancia».

    Il ragazzo lo guardò e gli chiese come si chiamasse il cavallo.

    «Veleno», rispose l’uomo ancora incappucciato, «e quel nome ha un perché. Quindi, sei avvisato».

    Il garzone guardò il cavallo dubbioso. Un ronzino da campagna, piuttosto che un cavallo, a cui non avresti dato due stagni e per cui tante attenzioni sembravano sprecate. Fece spallucce e portò il cavallo alle stalle. Il pensiero di altre due monete d’argento per un lavoro ben fatto e per niente faticoso gli sorrideva non poco.

    Lo straniero entrò nella locanda. All’interno, solo qualche viaggiatore intento alla propria colazione. Si avvicinò al bancone, dove l’oste stava passando lo straccio in alcuni boccali da birra.

    Contrattò una stanza per qualche notte, ma il locandiere disse: «Vorrei sapere con chi ho a che fare, messere. Sapete com’è? Per via dell’Accademia e del porto. Circola molta gente e non tutta onesta. Non voglio dire che non siete una persona dabbene, per quanto mist…schivo», indicò il cappuccio. « Ma, come dire? Ogni cliente ha diritto alla propria tranquillità, non credete?».

    «Certamente», rispose l’uomo incappucciato. Così dicendo sollevò il capo e scostò l’orlo del cappuccio quel tanto che bastava per fare intravedere il proprio volto ancora nell’ombra del copricapo.

    Non lo riconobbe subito, erano passati alcuni anni da allora, da quando non era più che un ragazzo che veniva a far baldoria con gli amici nella sua locanda. Poi, come fosse stato trafitto da un dardo proprio in mezzo al petto, il locandiere sobbalzò all’indietro ma non una parola poté venir fuori dalla bocca spalancata, e se non si fosse aggrappato al bancone con tutte le sue forze, sarebbe sicuramente caduto. Le mani serrate avevano le nocche bianche, lo stesso colore del viso: pallido come un cadavere.

    «Non dire una parola, non fiatare, vecchio Aneto Birra Fredda. Sì, sono io, conducimi in una stanza e parleremo».

    Aneto annuì lentamente e senza aver mutato il colore del proprio volto, lo condusse in una stanza al primo piano. Entrarono e il Cavaliere socchiuse le imposte: «La luce mi dà un po’ fastidio oggi», disse. Si tolse il mantello e scoprì il volto e i lunghi capelli neri.

    «Ma..., ma dove sei stato in questi otto anni? Maledetto pazzo! Sai che ti credevamo…».

    «...Morto. Sì, lo so. Mi dispiace darvi un dispiacere». Si slacciò la larga cintura a cui erano appese la spada lunga e leggermente ricurva con l’elsa che raffigurava delle fiamme, un corto pugnale a destra, più un paio di sacchetti. Per il resto era totalmente vestito di nero, con una camicia dalle maniche ampie e pantaloni che portavano dei lacci ai lati.

    «Le notizie corrono molto veloci e lontane», continuò mentre scrutava dalla fessura lasciata tra gli scuri, «quando la gente non è in grado di badare ai propri affari per noia o per diletto. Comunque, dove sono stato rimane affar mio. Sono qui di passaggio. So che sarebbe una notizia sensazionale, da farti riempire il locale e svuotare le botti, ma deve restare un segreto...ben segreto, se m’intendi. Almeno per ora». Fissò il locandiere negli occhi: «Intesi?».

    Il locandiere vide la stranezza di quegli occhi, quel particolare. Ma era già troppo sconvolto per potersi stupire d’altro.

    «Intesi», rispose annuendo.

    «Questi sono per il disturbo, il cavallo, la camera e la discrezione», disse il Cavaliere mentre posava nelle mani di quell’esterrefatto Aneto due gilde. «Torna pure al tuo lavoro, vecchio. Io uscirò tra qualche ora, e non voglio essere disturbato: ho bisogno di dormire».

    «Bene», disse il vecchio e fece per uscire guardando ancora la mano con quei due pezzi d’argento. Poi abbassò lo sguardo sulle monete lucenti.

    «Sei qui per…».

    «No», lo interruppe il Cavaliere.

    «Ha sofferto molto per…per la tua sparizione. Adesso ha una vita sua. Hai fatto male, qualunque cosa tu abbia fatto fino ad adesso, a lasciarla indietro. Non turbare la dolcezza del suo viso».

    «Non preoccuparti oste, non sono venuto per turbare la felicità di nessuno, tanto meno la sua, la sincerità di quel viso, o quella di chiunque altro», sorrise ironico. «Ho solo delle faccende da sbrigare in Accademia».

    Il vecchio stette sulla soglia ancora per qualche momento, in silenzio e con il capo chino.

    «Proprio in questo momento dovrebbe cominciare la sua prima lezione all’Accademia. Sotto la quercia».

    «Lo so, so tutto», disse sedendo sul letto e tastandone la morbidezza, «so anche più di quanto vorrei sapere».

    Il vecchio Aneto non capì appieno le sue parole.

    «Buon riposo, Ashan», si limitò a dire. Chiuse la porta dietro di sé.

    Il giovane straniero sfilò gli stivali, si distese comodamente e stette a fissare un po’ il soffitto con le mani intrecciate dietro la testa. In quegli occhi grigi sembravano passare mille immagini di una vita vissuta e accantonata per altri mille motivi. Ma adesso, forse, era arrivato il momento di ricordare. Immerso in quei pensieri, si addormentò in un dolce e tranquillo sonno.

    Dopo qualche ora scese al piano di sotto, chiese all’oste di far sellare il cavallo, poi lo salutò ed uscì confermandogli la cena. Diede le altre due monete al paggetto che gli aveva vestito il cavallo e questi gli disse: «È un cavallo alquanto strano, signore. Molto tranquillo, sì, ma negli occhi ha come una scerta agitazione. Dentro c'è come qualcos'altro, non so spiegarmi meglio. Ma devo aver detto solo un mucchio di sciocchezze. Perdonatemi, signore».

    Lo straniero lo fissò attentamente, quasi stupito: «Devi amare molto i cavalli, vero?».

    «Immensamente, signore», rispose il ragazzo. «Ho anche avuto un pony, qualche tempo fa».

    «Non c’è niente da perdonare, ragazzo. Sei sveglio, così come lo sono i tuoi occhi. Arrivano a vedere fin dove altri non sono arrivati e ne hanno pagato le conseguenze. Se ami veramente i cavalli, però, tieni ciò che hai visto per te».

    «Certamente, signore!», rispose con un sorriso di soddisfazione il ragazzo.

    Il Cavaliere allora s’incamminò per uscire dal paese, prendendo la via a sud, ed il paggetto lo seguì per un tratto con lo sguardo, incuriosito da quella coppia assai strana.

    Sulla collina dell’Accademia, sotto la grande quercia, era radunata della gente vestita con tuniche viola: il colore degli studenti di storia. Erano seduti in semicerchio, e, nel mezzo, stava una donna vestita di una tonaca anch’essa viola ma bordata d’oro. La bella donna, che parlava al gruppo in muta attenzione, notò il Cavaliere arrivare dal sentiero che dalla collina porta al mare. Lo vide fermarsi non molto distante ed interruppe il suo discorso per fissarlo, mentre una sorta d’inquietudine l’afferrava piano piano. Passò qualche minuto, poi una brezza spirò da sud-ovest ed un lembo del mantello nero del Cavaliere si ribaltò mostrandone la fodera: rossa, come il sangue appena sgorgato e, in un angolo, un simbolo, uno stemma, troppo piccolo però da poter decifrare. Il Cavaliere sistemò il mantello e diresse il cavallo verso il mare prendendo un piccolo sentiero che partiva da quello principale.

    L’insegnante lo fissò lungamente ad occhi stretti anche se era al riparo dell’ombra della grande quercia, tanto che uno degli studenti richiamò la sua attenzione: «Istruttrice Eyllen?! Vi sentite bene?».

    «Sì, sto bene», rispose lei, ma il suo sguardo restò su quel Cavaliere ormai sparito dietro la collina, come inghiottito dall’azzurro del cielo.

    «Dunque, il programma che svolgerete in questi sette anni di accademia sarà lungo, molto lungo…». Il suo sguardo vagò nuovamente alla ricerca dello sconosciuto.

    "Sconosciuto?"

    Poi però si diede pace e, nonostante si voltasse di tanto in tanto verso il mare, continuò la lezione.

    « …e sarà anche impegnativo, quindi dovrete applicarvi da subito e intensamente, senza sosta. Tanto, infatti, è ricca la nostra storia che richiederà molto lavoro per apprendere tutti i fatti di questa Era e di quelle passate. Questi sette anni in realtà non basteranno per apprendere tutto.

    Dovrete continuare le ricerche anche al di fuori di queste mura». Detto questo trasse fuori da uno zaino viola un tomo con una spessa copertina in pelle con delle incisioni in una scrittura in oro molto ricca e particolareggiata:

    "Appunti sulla Storia Antica. Sulle origini e sviluppo delle Genti d’ogni Razza"

    Lo aprì delicatamente e riprese a parlare.

    «Questi sono solo appunti presi quand’ero una studentessa come voi». Tutti sbarrarono gli occhi: il volume era spesso almeno cinque dita d’un uomo robusto. E continuò: «Li ho fatti rilegare per l’occasione», disse passando le dita sulla copertina in pelle. «È vero, esistono molte leggende riguardo la storia di Ariah, sin dalla sua creazione. Ma vedrete che, durante questi anni, scioglieremo i dubbi più comuni e non». Fece una piccola pausa. «Vorrei cominciare parlando un po’ della città in cui ci troviamo e che ospita la nostra Accademia».

    Raccontò di come Andwel il Trovaterre scoprì quelle terre, più per caso che per bravura e di come in seguito fondò la città di Airi Do’Rah. Era un contadino che nell’anno 978-980 I Età dopo il Patto, partì dalle terre della Nuova Fondazione ormai sovrappopolate in seguito al Triste Esilio dell’anno 520, in cerca di terre più rigogliose rispetto a quelle in cui abitava, ormai troppo sfruttate e troppo strette per accogliere tutti.

    Molte furono le famiglie che abbandonarono i territori del nord ed una di queste fu proprio la sua. Pensò di cercare fortuna lasciando il continente ed ignorando le isole costiere. Approdò nel continente, scoprendo infine la valle in mezzo alle tre colline. La leggenda vuole che fu lo stesso Maerhes ad apparirgli in sogno ed indicargli la Via. La realtà è che si perse durante una tempesta in mare e capitò lì per caso, battezzando quel luogo Airi Do’Rah, Valle dal Fiume di Cristallo. In seguito altri e poi altri giunsero.

    L’insegnante non volle addentrarsi oltre nella narrazione; ci sarebbe stato tempo, modo e maniera nel corso delle lezioni future, di annoiarli approfondendo l’argomento. Osservò attentamente gli studenti per coglierne il livello di attenzione. Sembravano interessati. Parlò anche di come, in principio, il mondo non fosse così ospitale, e di come divenne abitabile grazie alle fatiche degli Uomini e delle altre Razze. Il livello di attenzione era alto e l’insegnante soddisfatta.

    "Ma quello straniero…"

    Inevitabilmente dovette anche accennare alle guerre che avrebbero studiato e, tra queste, una in particolare.

    «Per i più amanti delle leggende, questa è la guerra chiamata: Guerra degli Dèi. Infatti, tale fu lo sconvolgimento del paesaggio, da far nascere la leggenda che gli Dèi stessi fossero scesi in battaglia. Ma così non è ».

    «Quante guerre vi sono a tutt’oggi?», chiese una matricola.

    «Guerre intese come le si intende comunemente, nessuna, solo qualche scaramuccia, se vogliamo definirla così, tra il Bèneriahn e gli abitanti delle Sillìhen. I Sillinrìn cercano l’indipendenza mentre quelli del continente non rinunciano ai tributi. Non è una storia nuova, ma è così».

    «Non sono d’accordo su una cosa!», esclamò un giovane. Eyllen lo fissò.

    «Perdonatemi: scaramucce? Indipendenza? Quelli delle Sillìhen sono dei pirati! Con le loro navi saccheggiano, depredano e affondano tutte le navi della Federazione dei Commercianti! Non è l’ indipendenza che gli darei io!».

    Il sole dal bianco passò ai bagliori dorati. Il tramonto era vicino. Con quella domanda, la giovane insegnante rischiava di gettare al vento una giornata di fatiche. La sua prima giornata da insegnante. Stava filando tutto liscio fino alla classica domanda che ti mette in difficoltà. Facile cadere nella polemica, con rischi di schieramenti politici involontari ed eventuali ripercussioni sulla sua reputazione.

    «Forse saranno pirati o degli idealisti», disse. «Saranno quel che vogliono essere. Ed agiranno come meglio credono. Qui impariamo lo svolgimento dei fatti, non a giudicarli».

    Alla fine, tutto sommato, quel benedetto primo giorno da insegnante era andato bene. La pausa per pranzare fu divertente, in quanto molti dei giovani per distendere i muscoli dopo essere stati così tanto fermi, toltesi le tuniche cominciarono a fare parate impacciate come i puledri per farsi notare dalle giovani presenti, compresa la bella istruttrice.

    Tornata a casa, dopo aver fatto un bagno caldo ed aver cenato con poco cibo, l’emozione era ancora forte, sedette davanti al caminetto acceso, tepore gradevole vista la brezza fresca che si era alzata, e poté pensare tranquillamente alla giornata svolta. Ed a quel Cavaliere nero.

    "Chi era?", si chiese. Perché ho la sensazione che non mi sia sconosciuto? Quel modo di stare a cavallo. La sua figura mi ricorda qualcuno, ma chi?.

    «Sono troppo stanca per pensarci», disse poi ad alta voce. «Sarà stato solo un qualche curioso. Forse è meglio che vada a letto. Un bel sonno e tutto passerà». Andò a coricarsi e si addormentò quasi subito. L’indomani per paura di far tardi e così dare una brutta impressione, arrivò in Accademia molto presto. Varcata la soglia del grande cancello in bronzo trovò il cortile d’ingresso già pieno di studenti in gran fermento. Eyllen sorrise tra sé pensando di non essere l’unica ad essere così emozionata. Il sospetto che quel fermento non derivasse dall’eccitazione dei primi giorni di scuola le venne quando vide che al suo passaggio molti si voltavano verso di lei tacendo improvvisamente.

    "Che succede?", si chiese. Subito il pensiero corse al giorno prima e alle discussioni avute con gli studenti. Forse ho sbagliato tutto e adesso verrò cacciata!. Un pallore cadaverico le dipinse il viso.

    "Hai visto?…. Allora è vero…. Ma no!…".

    "E allora perché è sbiancata?…. Ma sì, ti dico che è per lei!. Ma a te chi l’ ha detto…".

    "Ma come? Non lo sapevi? Ho sentito che il Consiglio si è già riunito…".

    Gli echi di quelle voci sussurrate nell’atrio rimbombavano e si amplificavano ancor di più nella sua testa. Eyllen non seppe più che fare. Era palese che gli studenti parlassero di lei.

    "Sì! Non c’è dubbio! Parlano di me! Per il cielo! Che avrò mai fatto di così grave?".

    Ripassò nella mente il giorno precedente, mentre si dirigeva verso l’interno dell’Accademia con passo sempre più svelto e nervoso. Ma più faceva scorrere avanti ed indietro i ricordi, meno si capacitava di aver fatto alcunché di sbagliato. Un segretario le si avvicinò. Con quella tonaca nera Eyllen lo vide come un portatore di sventura. Quando le fu accanto le porse un biglietto, la giovane insegnante non poté fare a meno di notare l’espressione turbata del messo.

    «Che succede?», chiese lei con un filo di voce.

    L’uomo sembrò imbarazzato: «Ho solo il compito di consegnarvi il biglietto», disse solamente. Poi si allontanò con la stessa espressione con cui era arrivato. Eyllen rimase per qualche istante a fissare il pezzo di carta. Lo aprì con mani tremolanti, così tanto da stropicciarlo.

    "Eyllen Gaharf insegnante di ruolo in Storia Antica è pregata di presentarsi al Consiglio d’Accademia straordinario che si terrà nel giorno ventiseiesimo di Settembre alla nona ora del mattino".

    Preside Capo

    Kernel Al Onìm

    Il cuore di Eyllen sembrò fermarsi all’improvviso. Le sembrò che si richiudesse su se stesso e in un ultimo collasso, si aspettava di morire lì, con il biglietto in mano. Si avviò comunque verso il portone d’ingresso. Entrò nell’Accademia e salì i due piani di scale, sotto lo sguardo degli altri insegnanti. Arrivò davanti alla grande porta d’ingresso della sala del Consiglio e lì le mancò il coraggio di entrare.

    "Ma che diamine ho fatto?", continuava a ripetersi.

    «Penso tu abbia saputo», disse una voce alle sue spalle facendola spaventare.

    Eyllen si voltò con un sussulto: «Oh, Aswiel! Che è successo? Che ho fatto?», singhiozzò gettandosi tra le sue braccia.

    Aswiel la cinse teneramente e le accarezzò i capelli: «Di che parli?».

    «Il Consiglio! Si è riunito! E tutti mi guardavano! Mi cacceranno, lo so! Lo so! Anche tu sei del Consiglio e sarai dalla loro parte! Ma che ho fatto?! Mi tradisci così anche tu?!», prese a colpirlo sul petto.

    «Ma di che stai parlando?!», chiese lui afferrandole le braccia. «Qui nessuno ha intenzione di cacciarti».

    «Ma, come?».

    «Non è per te che si è riunito il Consiglio. Sei stata convocata perché ormai sei un’ insegnante di ruolo».

    «E allora perché?…», chiese riprendendo fiato tra un singhiozzo e l’altro.

    «Davvero non lo sai?».

    «No, non so niente. Cosa è successo?».

    Aswiel si rabbuiò e le lasciò pian piano le braccia. Si diresse verso una finestra con lo sguardo preoccupato mentre lei lo guardava con ansia.

    «È qualcosa che ti riguarda?».

    «No», disse lui senza voltarsi, «non propriamente, ma può riguardare noi».

    «Non capisco. Mi dici che succede?».

    «Eyllen, è tornato! Lui! Capisci? È tornato da non so dove, dalle Sale Oscure, forse, fatto sta che è dietro quella porta, e il Consiglio si è riunito per lui. Anzi è lui che ne ha richiesto la convocazione! Ed è suo diritto chiederla visto che è stato studente dell’Accademia».

    «Ma di chi…», la domanda le morì in bocca.

    "Dèi del cielo. Il Cavaliere…era lui! Siamo in settembre. Dovrebbe essere il suo compleanno in questi giorni: Ashan!". Dovette appoggiarsi per non cadere.

    «Non so cosa sia venuto a fare, ma deve andarsene!», disse Aswiel reggendola.

    Lei annuì fissandolo ancora stralunata. Entrarono nella grande sala, si teneva aggrappata al braccio di lui e Aswiel di rimando ne sembrò alquanto infastidito. Ashan era in piedi sul pulpito posto in mezzo alla sala, dando loro le spalle. Sembrava stesse controllando dei documenti. Eyllen lo vide alzare la testa di scatto e le sembrò che…sì, sembrava stesse fiutando l’aria, solo per un istante. Poi tornò ai suoi documenti. Il preside Kernel, seduto alla punta del ferro di cavallo che descriveva il grande tavolo del Consiglio, invitò i due ultimi arrivati a prendere posto e indicò ad Eyllen quale fosse il proprio. Eyllen fece un po’ fatica a riconoscere l’Ashan che ricordava. Sembrava più alto e i capelli, da ricci e castani, erano diventati lisci, lunghi e neri come le ali di corvo. Anche il suo sguardo aveva qualcosa di diverso, ma non capiva cosa. Si sentì osservata e vide che Aswiel la fissava con il volto tirato.

    «Non posso negare la sorpresa che mi ha suscitato il vederti Ashan», disse Kernel. «A me e, come penso, al resto del Consiglio».

    Ashan sorrise.

    «Quando ieri hai bussato alla mia porta, per poco non hai fatto fermare questo mio vecchio cuore».

    Ashan sorrise ancora, ma di un sorriso malizioso.

    «Con molta reticenza, a dire il vero, ho acconsentito a questa tua richiesta. Ma è tuo diritto in quanto studente anziano. Anche se, ormai, la qualifica di studente suona un po’, come dire, azzardata? Manchi da otto anni! E dopo una sparizione misteriosa e alquanto dubbia, concorderai!».

    «Concordo», rispose il Cavaliere. Eyllen notò che anche la voce era cambiata.

    «Dunque, Ashan, il Consiglio ti ascolta».

    «Signori e Signore Consiglieri, vado subito al punto. Vi ringrazio per esservi disturbati, tuttavia non chiederò di perdonarmi perché sono qui a reclamare un mio diritto. Ricorderete, dal più anziano al più giovane, della mia sparizione che avvenne alla fine del settimo anno dei corsi, tre giorni prima della prova di Diploma. Vi posso assicurare che questa assenza non è dipesa dalla mia volontà. Cause di forza maggiore mi hanno trattenuto». Fece una breve pausa. «La mia qualifica, o, almeno, i corsi da me frequentati erano di Maestro d’armi, Strategie e Tattiche militari. Avevo il massimo dei voti, potrete consultare gli archivi per una conferma, tanto che si prospettava un mio futuro ruolo in questa Accademia. Fu lei stesso, preside Kernel, ad offrirmi un posto se avessi superato gli esami a pieni voti. Dopo un periodo da assistente, era ben inteso. Posto che è stato diversamente assegnato. Ma non sono qui per reclamare quel posto, che credo sia ben retto da giovani e promettenti leve. Sono qui a chiedere l’ammissione alla prova d’esame! È un mio diritto stando allo statuto dell’Accademia: Capitolo sei, paragrafo otto».

    Un brusio si levò nella sala.

    «È inammissibile!», si levò una voce più alta delle altre. Ashan riconobbe la voce di Aswiel e sorrise senza scomporsi.

    «Ma si può pretendere una cosa del genere?», continuò Aswiel infervorato. «Sei sparito otto anni fa dando pena a molta gente!».

    «Che tu hai provveduto a consolare! Vero, Aswiel?», ribatté il Cavaliere.

    «Ma come…ma…ma come osi? Sai quanta gente ti era affezionata? Hai idea del dolore che hai provocato? E adesso torni da chissà dove…».

    «…dalle Sale Oscure, forse…», interruppe nuovamente Ashan senza togliere quel sorriso. Aswiel rimase interdetto. Possibile che avesse sentito? Forse aveva parlato troppo forte e Ashan doveva essersi trovato dietro la porta.

    «Ma, signori!», disse rivolto ai membri presenti. «Quale arroganza e quanta insolenza! Dopo tutto è al Consiglio che si rivolge costui!».

    «Siedi, Aswiel!», disse fermo Kernel. «Le vostre vicende personali devono restare fuori da questa sala».

    Aswiel sedette nervosamente. Kernel allora si rivolse ad Ashan: «Ti ricordo che sei di fronte al Consiglio dell'Accademia, ed è a questo Consiglio che hai formulato la tua richiesta. Hai il dovere di rispettare tutti i suoi rappresentanti, nessuno escluso». Lisciò la barba grigia e poi aggiunse: «Quello che chiedi Ashan, da quando l’Accademia è stata fondata, non ha precedenti».

    «Rispettabile Preside Kernel», disse Ashan, senza sembrare scomposto dal piccolo battibecco, «so benissimo che la mia richiesta è inusuale, tuttavia ho qui sottomano lo statuto dell’Accademia, l’ho esaminato attentamente, letto e riletto. Non ho trovato nessuna clausola che leghi la Prova d’esame al tempo trascorso dalla fine dei corsi. Leggo testualmente dal paragrafo otto sopra menzionato: …La Prova di Diploma avrà luogo nei tempi e luoghi consentiti, in base alle esigenze dello studente e del corso da lui scelto…», fece una pausa, e poi aggiunse: «…in base alle esigenze dello studente, dunque, e per quanto riguarda la prova che lo studente deve affrontare secondo il corso da lui scelto, ero pronto allora e lo sono ancor di più adesso».

    «Bene, allora dovremmo introdurre una nuova regola in questo momento!». Aswiel si era di nuovo alzato in piedi con il solito fervore, battendo le nocche della destra sul tavolo. «La regola che questa è un’Accademia seria ed onorata da generazioni, e non una bettola dove si viene e si va ad ogni scarico di nave! Non puoi tornare qui dal nulla e prendere ciò che vuoi!».

    «Veramente chi ha preso ciò che voleva fino ad adesso sei stato tu, mi sembra».

    «Cosa vorresti insinuare?».

    «Ciò che i fatti dimostrano».

    «Basta, ho detto!», interruppe Kernel. «Un’altra interferenza e ti allontanerò dal Consiglio! Capito Aswiel?! E tu Ashan rivolgiti con più rispetto ad un membro del Consiglio che dovrà vagliare la tua proposta! È l’ultimo avvertimento!».

    Eyllen avrebbe voluto sprofondare. Sentiva tutti gli sguardi su di sé. Sapeva di essere la causa di tanta discordia.

    «Ashan, hai fatto la tua richiesta. Capirai bene che adesso il Consiglio dovrà ritirarsi e discutere. Non penso che ci vorrà poco. Sai che dovrai aspettare?».

    «Certo, onorevole Preside. Non mi aspettavo una risposta immediata, tanto meno che foste tutti d’accordo. Vorrei solo aggiungere, se mi è permesso, che qualsiasi possa essere stato il motivo della mia assenza, io avevo lavorato tanto e sodo per poter superare, ormai otto anni fa, la Prova di Diploma. Adesso sono solo venuto per ottenere ciò che mi spetta di diritto».

    «Bene Ashan, il Consiglio terrà conto delle tue parole».

    «Solo una chiarimento, Rispettabile Consiglio», intervenne Aswiel con tutta la calma di cui poteva disporre al momento. «Nello statuto si parla, come ci ha ricordato il nostro richiedente, di bisogni o necessità dello studente, penso che per poter prendere una decisione, il Consiglio debba sapere quali siano state tali necessità!».

    Kernel rimase a riflettere poi acconsentì con un cenno del capo.

    Ashan rimase momentaneamente in silenzio. Si guardò attorno. Guardò la grande sala con i suoi affreschi per la maggior parte riguardanti Maerhes, in tinte soprattutto azzurre. Poi lo sguardo calò sui sedici insegnanti facenti parte del Consiglio dell’Accademia. I loro sguardi non riuscivano a trattenere una certa avidità per le sue parole e le attendevano come la terra arida attende la pioggia. Solo Kernel riusciva ad essere impassibile. Lo sguardo di Aswiel tradiva un odio mal celato. Eyllen non fu degnata di uno sguardo. Lei, invece, pensava che prima o poi lui la guardasse, quindi era costantemente concentrata sul controllare le proprie emozioni per non far trasparire ciò che provava.

    Ashan allora frugò tra i vari fogli che aveva di fronte, ne scelse uno e lo portò a Kernel. «Con il permesso del Consiglio. Come ho detto, questa assenza non è dipesa dalla mia volontà », commentò porgendo il foglio al preside. Kernel vide il sigillo del foglio e ne rimase impietrito. Era il sigillo della Prigione-Fortezza di Gemmarotonda.

    «Non fermatevi solo al sigillo», disse Ashan. «Prego, leggete il documento al Consiglio».

    Kernel allora si alzò in piedi e lesse con voce esitante.

    "Addì 15° di Luglio anno 1978 Seconda Era DP. Gemmarotonda, Prigione Fortezza.

    Ashan Nierem, figlio di Ghedar, viene addì rilasciato perché infine ritenuto innocente del delitto a lui ascritto in data 13° giugno 1970 Seconda Era dP.

    Un’accurata ricerca di testimoni ha portato alla luce che il soprascritto prigioniero è estraneo ai fatti in quanto non presente sul luogo del delitto al momento dello stesso, come si evince erroneamente dal rapporto delle guardie al momento dell’ingresso. Alleghiamo rimborso economico…

    La giustizia ha prevalso. La libertà sia compagna degli uomini onesti.

    Capitano Urhan Alliwar,

    Per nomina di re Galvan, Signore del Devenrehn, delle terre ad est....".

    Kernel abbassò il foglio e cercò lo sguardo di Ashan che se ne stava fiero e dritto a pochi passi da lui. Porse nuovamente il foglio al Cavaliere e questi, dopo averlo preso, se ne tornò al pulpito. Sul tavolo a ferro di cavallo, cadde il silenzio.

    «La Prigione dei Dannati!», si sentì sussurrare in un filo di voce. «Ma cosa…?».

    «Dove sono stato, adesso lo sapete», disse poi Ashan rimettendo in ordine i documenti sul leggio. Quale fosse stata l’accusa, e tutto quello che ne è seguito di conseguenza, con tutto il rispetto per questo Consiglio, restano affari miei. Spero che la curiosità sia stata soddisfatta».

    Persino Aswiel rimase impietrito, ma alla fine l’odio prevalse. Spesso l’odio prevale. Così il suo sguardo divenne ancora più truce, se mai fosse stato possibile.

    "Adesso avrà pure le simpatie del Consiglio!", pensò.

    «Penso sia il caso di ritirarsi», annunciò il preside. «Non so quanto ci vorrà Ashan, ma ti faremo sapere. La seduta è sciolta».

    Ashan prese le proprie cose dal pulpito e se ne andò. Aswiel avrebbe voluto seguirlo ma si trattenne, ci sarebbe stato modo per fare due chiacchiere con lui. Non poté fare a meno di guardare Eyllen che fissava la schiena di Ashan allontanarsi. La destò dai suoi pensieri e le disse di andare in un posto tranquillo.

    Quando furono sotto la quercia, per quel giorno le lezioni furono ovviamente sospese, i due amanti stettero in silenzio, poi Aswiel inquieto per ciò che stava accadendo in quella mattina si rivolse a Eyllen.

    «Cosa ne pensi?».

    Lei lo fissò: «Che ha ben poco da pretendere!», rispose.

    Aswiel capì che la ragazza non si riferiva solo alla Prova di Diploma. «È davvero tutto passato?», chiese lui, serio.

    «Sì. Passato e dimenticato», rispose tranquilla. «Non nascondo che mi ha fatto effetto rivederlo, tutti pensavamo fosse morto. Avrebbe potuto in qualche maniera mandare notizie, io dico!». Aswiel pensò che dalla prigione dei dannati, come la chiamavano, le uniche cose che ne uscivano erano i cadaveri. Ma non le disse niente, anzi, le diede ragione per rafforzare in lei quella certezza che Ashan avrebbe potuto fare di più. Ma qualcosa non tornava nel racconto di Ashan e lui lo sapeva benissimo.

    «Sì, avrebbe potuto…», disse poi con tutta la convinzione che poteva imprimere alla sua voce.

    ***

    Ashan era sdraiato nella sua camera in affitto, fissando il soffitto e pensando alla menzogna che aveva raccontato al Consiglio.

    "In prigione? Io? Alla Prigione-Fortezza poi! Idioti…Un testimone che mi ha scagionato… Nessuno sopravvive otto anni!".

    La sua mente allora corse indietro negli anni, fino a quella mattina del 13 di giugno. Mattina in cui la sua vita cambiò radicalmente. Rivide quell’Elfo alto e magro, quasi denutrito.

    La caverna in cui si trovava era enorme. Se fosse stata a cielo aperto, si sarebbe potuta scambiare per una normalissima città, tante erano le costruzioni. Vi era una luce sovrannaturale, che brillava in tutta la città-caverna.

    "Un Uomo? Chi lo ha portato? Voglio il responsabile!". Gli occhi dell’Elfo, che evidentemente era molto contrariato dalla presenza di Ashan in quel luogo, mostravano quasi disgusto.

    "Ma in che razza di posto e di situazione sono capitato?",cominciò a chiedersi. Arrivò un altro Elfo, tutti in quella città sotterranea erano Elfi: «Sono stato io, signore», disse.

    «Tu?».

    «Sì, signore. Ma, signore,…».

    «Signore? Hai una seppur vaga idea di quante siano le leggi che hai infranto? Vuoi che te le elenchi? Che ti elenchi ogni articolo? Articolo? Qui si tratta di buon senso! È la prima cosa che viene detta a chiunque entri a far parte della Gilda: questo posto deve restare segreto! È per evitare episodi come questo che è divenuta legge. La numero uno! Capisci? La numero uno!».

    «Sì, ma, se mi…», cercò di interrompere l’altro Elfo. Il suo aspetto era cupo, ma aveva una strana lealtà che traspariva dagli occhi. Di tanto in tanto guardava in terra, poi in aria, poi guardava Ashan, poi il suo superiore. Sembrava alla ricerca di qualcosa, forse del modo con cui poter interrompere l’altro Elfo.

    «Ma il regolamento ce l’hai ancora? O l’hai usato per accendere il camino e stare in panciolle a rammollirti il cervello? E hai chiesto il permesso ad un tuo superiore? Ad esempio a me? Non uno caso, no! Ma il tuo diretto superiore? Mi spieghi come è successo che mi ritrovo questo…tizio…così di punto in bianco qui? Nel posto più segreto di tutta questa terra? E non ne so niente? Me lo spieghi? Eh? me lo spieghi?!».

    L’Elfo aprì bocca per parlare: «Signore, questo ragazzo…», ma non riuscì a finire la frase perché il suo superiore prese a snocciolare decine di regolamenti.

    Colui che aveva portato Ashan alla Gilda, però, era stoicamente eretto in tutta la sua statura a far fronte a quel rimbrotto che apparve infinito. Guardò Ashan che, per un momento, ebbe l’impressione che l’Elfo gli sorridesse. Lui sorrise di rimando.

    Il graduato lo fissò: «E tu? Che hai da ridere?».

    Dopo un po’ Ashan venne a sapere che il graduato di nome Alarhn era tale solo di nome. Al tempo della fuga dei Cinque Demoni, fu toccato da Gornak il Demone della Follia che, nonostante fosse stato ricacciato nelle Sale Oscure, aveva lasciato il suo marchio nella mente di molti. Alarhn era però uno degli Elfi più anziani della Gilda, e forse di tutta Ariah, e tutti lo tenevano in gran considerazione e rispetto.

    ***

    Scappò un altro sorriso all’Ashan sdraiato sul letto di una camera della Locanda del Falconiere. Si era fatta quasi sera e, prima che venisse buio, volle fare una passeggiata in riva al mare come non faceva da molti anni, proprio da quando era realmente uno dei migliori studenti dell’Accademia di Guerra più famosa di tutta Ariah.

    La brezza di settembre saliva dal mare portandone l’odore pungente e intenso. Ashan si concesse il lusso di togliere gli stivali e li legò alla sella di Veleno che, dal canto suo, se ne restò accanto ad un pilone del molo a sonnecchiare. Arrotolò l’orlo dei pantaloni e cominciò a passeggiare sulla battigia. Era piacevole sentire l’acqua fredda massaggiare i piedi, lo sciabordare delle onde, il guizzo ed il tonfo di qualche pesce che saltava fuori dall’acqua di tanto in tanto. I gabbiani, a volo radente, atterravano poi sulla spiaggia. Le gallinelle di mare, i pellicani, gli albatri, tutti giocavano in cielo maestosamente e agilmente. Alcuni pescatori si preparavano ad uscire per gettare le reti per la pescata notturna. Altri terminavano di sistemare e riparare attrezzi e barche. Qualcuno si voltava verso di lui e salutava con un sorriso. Altri restavano intenti nelle proprie riparazioni per poter avere l’imbarcazione pronta entro l’indomani. Forse avrebbero lavorato pure la notte. Molte canzoni parlano di loro, delle loro fatiche, delle loro rinunce e delle poche soddisfazioni. Ashan ne avrebbe voluto canticchiare qualcuna, se non fosse che la sua pace fu turbata dall’apparizione improvvisa di Eyllen che, evidentemente, aveva avuto la stessa idea.

    I due sguardi s’incontrarono.

    «Dunque, sei tornato», disse lei, non nascondendo la sorpresa.

    «Sì, ma non starò molto».

    «Quanto pensi di trattenerti?».

    «Il tempo necessario».

    «Per cosa?».

    «Per finire ciò che avevo lasciato incompiuto».

    La brezza marina soffiava scompigliando loro leggermente i capelli e portandoli su viso. Lei li scostò con un gesto quasi svogliato.

    «Ti trovo molto cambiato: i capelli, gli occhi, anche la tua altezza, sì, sembri più alto».

    «È successo tutto lentamente in questi anni. Non lo so spiegare».

    "Oh, sì che ci riesci…".

    «E cosa avresti lasciato incompiuto?».

    «Il Diploma».

    «Solo quello?».

    «Sì».

    «Non credo!», rispose in un gesto di stizza.

    Ashan rispose con un’alzata di spalle e poi aggiunse: «Come vuoi».

    Calò nuovamente il silenzio interrotto dalla voce del mare e dei gabbiani che adesso erano tutti a terra. Ashan la fissava in quegli occhi verdi. La stava aspettando al traguardo. Sapeva che infine sarebbe giunta a…

    «Sappi che io ormai sono fidanzata con Aswiel e che ci sposeremo la prossima primavera!».

    «Vi auguro ogni bene».

    «Sei un ipocrita!». Al sorriso beffardo del Cavaliere, si accorse di avere mostrato più di quanto volesse.

    «Non sono venuto per te», disse lui. «So dei tuoi piani di matrimonio e non ho la minima intenzione di intromettermi nella tua vita, nessuna, in nessuna maniera».

    «E accetti tutto così? Senza dire una parola?».

    «Perché? Cosa dovrei fare? Hai scelto l’uomo per la vita. Certo, io avrei scelto di meglio, ma se a te sta bene…».

    «Ecco! Lo sapevo! Cosa avresti da dire contro Aswiel?!».

    «Niente. Sarai tu a sposarlo, non io».

    «Certo che lo sposerò!».

    Stava alterandosi, ma si ricompose.

    «A me dispiace per quello che ti è successo, ma vorrei che capissi che le cose non possono essere più cambiate». Fece una pausa guardando l’ultimo spicchio di sole riflettersi sul mare. «Ma insomma, cosa avrei dovuto fare?».

    «Parlerò chiaro una volta ed una soltanto. Posso capire come ti senti…».

    «Capisci?!», urlò lei, «Capisci?! Cosa vuoi capire, tu? Hai preso e sei sparito! Così! Dovevamo fare mille cose insieme, ti avevo dato tutta la mia fiducia, tu, mio primo amore… e tutte le cose belle e idiote che si dicono a quell’età! Ormai vivevo in funzione di te! E poi? Da un giorno all’altro tutto sparito, in una bolla di sapone! I tuoi abiti sporchi di sangue trovati sparsi dappertutto e senza una pista da seguire, senza qualcuno da cercare o da...odiare! Cosa puoi saperne di cosa ho passato? Ed adesso torni, tra l’altro neanche di proposito, ma solo di passaggio, come se niente fosse, dici che vuoi terminare il corso all’Accademia, e non mi degni neanche di uno sguardo, di un saluto! Per di più disturbandomi durante la mia prima lezione! La più importante. Molto dipendeva da quella maledetta lezione, visto che era da lì che avrebbero dovuto giudicarmi per la conferma del ruolo. Sai cosa ti dico? Io e te non abbiamo più niente da spartire».

    Ashan esplose in uno scatto d’ira improvviso come il lampo, gli occhi mostrarono qualcosa che lei non ebbe mai visto in un uomo: «Sì, hai ragione! Non abbiamo niente da spartire! Hai pensato bene tu a chiudere tutta la faccenda! Come sei stata tu? E allora come sono stato io?! Ho vissuto nel tormento per otto anni! Otto! Tu hai fatto un paio di mesi di pianto e poi hai ceduto alle lusinghe di quel verme! Ho dato l’anima e sputato sangue per te, e parte di quello che hai oggi lo devi a me! Io ti ho iniziato al sapere della Storia. Io ho intercesso per te presso il preside! Io ho organizzato la tua discussione di Diploma, mentre tu eri nel panico! Quanto ha impiegato ad irretirti, quel vile?». Eyllen ebbe paura del fuoco che ardeva violento in quegli occhi. Ne notò la stranezza: Quelle pupille! E le iridi! Gialle, gialle e splendenti come quelle di una gatto nella notte! Un Demone!.

    Ma Ashan non aveva ancora finito: «Immagino come sia stato capace di farlo: prima ha lasciato che ti sfogassi e poi pian piano ha fatto in modo di diventare indispensabile e, giorno dopo giorno, ha cominciato ad insinuarsi nella tua mente e nel tuo cuore. Ecco, infine, l’ultimo tocco, quello del maestro», stette un attimo a fissarla negli occhi, «da quanto tempo non pronunci il mio nome?!».

    Eyllen rimase impietrita. Anni!, riuscì solo a pensare. «Io…io…».

    «Io! Io! Ecco cosa sai solo dire! Non hai mai saputo dire altro! Sempre e solo te stessa nei tuoi pensieri!».

    «No, non mi hai…».

    «No, cosa?! Uno sguardo?, un saluto? e pensi di meritarli?». Eyllen ebbe l’impressione, solo per un momento, che quei denti, i canini, stessero allungandosi. «È bastato che un uomo qualsiasi, perché per me lui è solo questo, ti dicesse di dimenticarmi, dopo che io ti ho dato sangue e anima, e tu mi hai cancellato dalla tua mente, dai tuoi ricordi da… È riuscito persino a farmi dimenticare da questo paese schifoso, dopo che il vile che hai scelto come marito ha rimbambito la testa di questi allocchi, troppo pigri per porsi delle domande, con idiozie e falsità sul mio conto! E metà di questo branco di caproni crede che io sia scappato per la paura di dover affrontare lui, il tuo futuro marito!». Con la mano sinistra prese a massaggiarsi il polso dell’altro braccio, facendo ruotare un grosso bracciale nero e oro. «Nell’inferno dove sono stato, ho trovato qualcuno che mi raccontasse un po’ di faccende legate a questa città. Ah sì, mi han detto del tuo dolore e dello sgomento in questa città. Almeno inizialmente. Ho sentito le tue lacrime sul mio viso, ed ognuna di esse era veleno per l’anima e risuonava come un lamento straziante per le mie orecchie. Ho sentito il tuo dolore trasformarsi in rassegnazione con il tempo. Stavo meglio anch’io allora. Ho pregato perché tu potessi essere felice in qualche maniera. Il fatto di sapere che il dolore lentamente ti abbandonava, mi acquietava la colpa. Ho sentito che la rassegnazione lasciava il posto alla forza, allo spirito, alla speranza di un nuovo inizio. Mi sono sentito libero, quasi, dalle mie colpe. Hai sentito poi l’esigenza di avere qualcuno al tuo fianco e questo mi ha liberato completamente. Non nego che mi avesse ferito un po’, ma in fondo sì, ero felice per te, ed ero finalmente sereno. Ma quando le notizie portatemi mi hanno detto ciò che accadeva nel tuo cuore e nella mente di quella persona spregevole non credevo alle mie orecchie. Poche cose mi tenevano in vita, ed il fatto di aver lasciato comunque qualcosa di buono in te era una di quelle. Ma c’è stato un momento...quando mi hai dimenticato. Come se non fossi mai esistito. Mi sono sentito come un castello di sabbia, cancellato per sempre dal mare. Rabbia e rancore! Altre cose adesso mi tenevano in vita! Lui mi ha tolto dalla tua mente e tu glielo hai permesso! Persino il nominarmi ti ha negato! L’intensità del sentimento che avevo per te mi sosteneva e avvampava, nonostante i tuoi continui errori e le tue disattenzioni e le volte in cui mi hai mancato di rispetto! Ma io ti amavo e tu hai spazzato via il mio ricordo come la polvere da uno scaffale, per far posto ad un altro ritratto! Tu! Tu e questo stramaledetto paese!».

    Il sole ormai era calato e il buio saliva da oriente. In settembre è già svelto ad arrivare e fu così che i due si trovarono quasi nell’oscurità.

    «Ho impiegato anni a mandar giù questo boccone amaro, ma, infine è sceso! Adesso ho altre mete a cui aspirare e cose da fare, cose molto più grandi delle vostre miserabili vite, piuttosto che badare a te e quella poca cosa del tuo fidanzato». Altra pausa. «Io e te non abbiamo niente da spartire? È vero! Proprio niente! Ma sono io a dirlo e pensarlo. Quindi tu ed il tuo egoismo e la tua ingratitudine potete avere tutta la vita felice che cercate. Perché sei felice vero? Certo che lo sei! Lo devi essere! Perché, se oltre ad essere un’ingrata, non sei neanche felice…», si impose di calmarsi. Respirò a fondo e sospirò. Il bracciale al polso gli dava molto fastidio. «È passato il tempo in cui eri al centro del mio mondo

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