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La Fenice
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E-book462 pagine6 ore

La Fenice

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Info su questo ebook

Un dodicenne dell’etnia Kono sta per lasciarsi alle spalle il periodo dell’innocenza. Benché non sia cresciuto nell’agio, la sua vita è scandita dall’amorevolezza della madre, dedita al lavoro nei campi, e dall’esempio del padre, instancabile cercatore di diamanti danneggiato dagli affaristi del paese. Persona cara al ragazzo è anche sua sorella, reduce dall’esperienza nel bush che pure lui si appresta a compiere per accedere al rango degli uomini maturi e acquisire nuove consapevolezze. 
A Vancouver, invece, una coppia si lascia alle spalle la Bel Art Gallery: lei, Michelle, è una pittrice innamorata dell’uomo che le cammina a fianco; lui, Timothy, è il suo amante, un brillante biologo molecolare che Fred, marito di Michelle e collega di Tim alla University of British Columbia, considera un rivale. Timothy è infatti l’ideatore di un progetto ambizioso che mira a risolvere il problema della fame a milioni di persone, prospettiva che attira su di lui attenzioni e dissapori. 
Il detective Robert indaga dopo il ritrovamento del cadavere di un pusher e investiga anche su un attentato all’Istituto di Genomica Agraria.
Gli eventi si intrecciano e precipitano in tutti gli scenari e i rispettivi protagonisti devono affrontare prove complesse. Lucio Lucadamo, attraverso una prosa che a tratti sfuma nel poetico, delinea un racconto enigmatico e avvincente.


Lucio Lucadamo è nato ad Avellino il 15 febbraio 1961. Trasferitosi a Napoli è qui cresciuto conseguendo prima il diploma in Maturità Classica e poi la laurea in Scienze Biologiche con indirizzo Biomolecolare. Oggi esercita l’attività di ecotossicologo come ricercatore senior presso il Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra dell’Università della Calabria. Nonostante il percorso professionale lo qualifichi come esperto delle “scienze dure”, l’estrazione umanistica ne ha fortemente improntato la sensibilità e la passione per le arti narrative. Prima de La Fenice ha pubblicato con Falco Editore il romanzo di esordio Alejandro de La Vega e l’imponderabile corso degli eventi.
 
LinguaItaliano
Data di uscita18 ago 2022
ISBN9788830670327
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    Anteprima del libro

    La Fenice - Lucio Lucadamo

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Se vedi un affamato non dargli del riso: insegnagli a coltivarlo.

    (Confucio)

    Capitolo 1

    Quella sera le stelle brillavano in cielo. Il manto nero della notte si stendeva vasto e incandescente, trafitto dalla miriade di luci puntute e baluginanti. Io stavo lì, disteso fra l’erba alta, poggiato al muretto di casa, la testa adagiata sulla superficie scabra. Il vento increspava le cime verdi indolenti che si muovevano a ondate ritmiche, quasi a riecheggiare le danze vivaci che avevano scandito le sere precedenti nel cortile comune del pugno di abitazioni di cui faceva parte la mia. Respirai lentamente per assaporare il silenzio del momento. Tutto sembrava così dolce e consolatore. Tutto faceva presagire un domani imminente e lontano, dal sapore acuto e vibrante come la coalescenza tra l’infanzia e l’adolescenza che sempre si dipana tra ansie e pulsioni intense. E sì. Avevo appena compiuto dodici anni e tutto me lo ricordava. Tutto, nel corpo sobillava i sensi. La quiete dell’innocenza stava lasciando i suoi ultimi riflessi in un tramonto dalle tinte consolatorie quali le tenere carezze di mia madre, il cui palmo indurito dal duro lavoro di casa e dei campi mi ricordava quanto quell’amore fosse davvero grande, perché a lei non importava di segnare il fisico pur di assicurarmi protezione e sostentamento. Fissai la luna. Una sfera fosforescente, un calvario di crateri che ne adombravano vagamente il fulgore lattescente, un disco ardente di luce mutuata dal sole, eppure fatta talmente sua da dare l’impressione di splendere al buio come una fucina ribollente di magmatici sommovimenti. Sorrisi. Sorrisi così tanto e così forte da far sgorgare dai miei grandi occhi una piccola lacrima, una stilla che, gentile e vivace, sorrise all’unisono rotolando sulla gota spegnendosi in un riflesso argentino. Un fruscìo, un rapido battere d’ali. Si poggiò sulla spalla Jolene. Sentii il contatto delle sue zampine. Aveva il piumaggio arruffato. I colori verde tenue e rosa brillante scintillavano, una veste giocosa che facevano del mio Agapornis un compagno felice di giochi. Si accostò al viso e venne a sfregarsi. Bella smorfiosa. Come dirle di no. Mi fissava vivace e garrula come sempre. Protese il becco verso le labbra pizzicandole con dolcezza. Le poggiai la mano sul capo e l’accarezzai facendola scivolare sul dorso e le ali. Sentii il corpicino caldo sobbalzare. Jolene era per me la quinta essenza di quanto l’esistenza avesse rappresentato fino a quel momento, un volo leggero, impalpabile, intriso delle emozioni più soavi. Non vivevo in una famiglia agiata, tutt’altro, né tanto meno non conoscevo cosa fosse la durezza e la fatica della vita, il sacrificio quotidiano e l’inaffidabilità del giorno a seguire, quella di un raccolto andato a male, del tempo trascorso con i piedi nell’acqua a setacciare fango e ghiaia sotto un sole infuocato, del dolore di una morte amica che ti toglie il fiato e lascia il cuore grondare di piccoli acuti spasmi presagio di un orizzonte desolato. No. Pur avendo solo dodici anni avevo già provato tutto questo. Pur avendo dodici anni conoscevo lo sguardo severo di mio padre che malediceva la labilità del sopravvivere quotidiano e la concretezza delle delusioni. Ma non importava perché tutto inesorabilmente trascorreva e lasciava sempre il posto a un impetuoso motorino che vibrava in petto e sobbalzava inesauribile come una ruota in moto perpetuo sotto la forza trainante di un torrente dal flusso inesauribile. Non avevo parole per spiegarlo, non c’erano termini per descrivere la mia innata propensione all’entusiasmo, perché non riuscivo a immaginare un modo diverso di stare sulla terra. O forse perché sapevo di poter contare, a dispetto di qualunque cosa potesse accadere, su due persone al mondo, le quali avrebbero per sempre costituito il più valido baluardo verso qualunque lacerante languore o cocente delusione, mia madre Rhonda e mia sorella Kaila. La prima una donna piccola e spessa, dalle fattezze minute ma intessute nell’acciaio, uno sguardo pacato come le profondità dell’oceano che non avevo mai visto, acque immense, acque custodi e avvolgenti. E quando i nostri sguardi si incrociavano non c’era necessità di proferire parola: il suo intuito aveva colto il filo dei miei pensieri già sul loro nascere. Il nostro era un rapporto ancestrale e primigenio. L’emozione dipinta sul viso del figlio tradotta in parole sulla bocca della madre, il codice dell’amore che, come un telegrafista attento e dedicato, s’impegnava a tessere fili eterei e impalpabili dipanantesi misteriosi per l’etere, tessendo una rete più forte di qualunque cosa al mondo. Mamma... E Kaila. Lei la rondine del mattino che solca il cielo lasciando una scia brillante, due faville di carbone lucente i suoi occhi, profondi, le gote pomi morbidi ed esuberanti, il naso una polena di ebano lucido, il corpo di una sirena, il fascino dei quindici anni di allora. Ah, come la ricordo... ansiosa e anelante prima dell’andata nel bush, in quel sacro ritiro dove la sontuosità della tradizione e della cultura tribale investivano (e probabilmente lo fanno ancora) tutte le adolescenti desiderose di reclamare un posto nelle gerarchie della società Kono. L’ingresso nell’enclave della Sande, l’incontro con la Maio, il rito dell’escissione ritenuto propiziatorio di grande fertilità rendendo la giovane degna di diventare sposa. Ora lo vedo come una terribile mutilazione ma allora mi sembrava un passo indispensabile da compiere perché l’innocenza lasciasse spazio all’assunzione di responsabilità che comportava diventare la donna di un uomo della nostra etnia, madre e sostegno di famiglia. Così come accaduto a nostra madre, alla madre di nostra madre e prima ancora. E la permanenza di diversi mesi aveva conferito a Kaila una sobrietà, una compostezza, un’autorevolezza di gesti e sentire prima a lei del tutto desueti. Non so cosa fosse successo nel bush ma oltre a tornare con un nome nuovo mia sorella, ora, quando parlava, si muoveva, o solo accennava un gesto lo faceva imponendo a tutto una sorta di sontuosa ritualità che richiedeva ascolto e rispetto. Ricordo di una sera in cui appariva più silenziosa del solito e avevo quasi timore ad avvicinarmi. Lei allora mi fissò e dopo molto tempo sorrise, garbatamente, soavemente, con una naturalezza disarmante. Poi chiese che mi sedessi accanto e, senza preavviso, iniziò a parlare dell’esperienza vissuta nei mesi precedenti. Parlò del primo incontro con la Maio, delle parole di incoraggiamento e di accoglienza, della conoscenza delle altre giovani vergini, delle sere trascorse insieme ballando e cantando, degli insegnamenti avuti e di quelli non avuti, rispetto a quanto si aspettasse, dei racconti moralistici narrati. Storie fantastiche ma monotone, storie dove spiriti e antenati erano ripetutamente evocati, invitati a comparire per distribuire alle convitate dei banchetti notturni l’aura della loro saggezza. Disse tutto senza partecipazione o enfasi, ma usando il tono che usereste per narrare a un vostro vecchio amico un’esperienza più o meno singolare vissuta da qualche parte. Eppure ricordavo bene la trepidazione con la quale aveva vissuto le settimane prima che mamma Rhonda e papà Ayubu la conducessero sulla strada del bush. Era attraversata da mille timori legati alle narrazioni spesso condite da una sfarzosa magniloquenza e un pizzico di pepati dettagli fatti dalle tante giovani tornate dall’isolamento emancipatorio: sapessi Kaila, dicevano... è stato bellissimo, tutto così coinvolgente, eccitante, le canzoni cantate alla luce di lingue di fuoco luccicanti, il cibo, leccornie paradisiache in cui avevamo intinto la lingua e accarezzato il palato, e la fascinazione promanata dal Sowo. Sapessi il timore che incuteva la sua sgargiante maschera di legno nera: una sinuosa Ciprea e due affusolate corna di antilope ritte, a imporre silenzio e ossequio alla solennità della cerimonia di iniziazione. E poi, la lama affilata che, come falciatrice inesorabile, calava sulle grazie carnali incoronate dalle cespugliose prominenze del monte di venere, una sensazione dolorosa e lancinante che, somma esaltazione, le purificava incamminandole verso l’altare di un gineceo familiare... precipua estasi e massima aspirazione di una donna Kono!... L’attesa, prima della partenza, era stato un crescendo di emozioni e timori. Ora a sentirla parlare, con un accento didascalico e asettico spiazzava instillando in me interrogativi sul genere di esperienza che avesse davvero fatto. E più andava avanti più i dubbi aumentavano... quando, di un tratto, capii il genere di persona che mia sorella era o fosse diventata. Una donna a tutto tondo, nel senso di avere imparato a sfrondare la vita dal cascame delle apparenze, dal turpiloquio della più cacofonica sovrabbondanza del e del me, aveva compreso benissimo, a soli quindici anni, quanto potente fosse lo strumento dell’affabulazione gestuale e vocale. Aveva compreso il segreto dell’esperienza vissuta al bush: una torcida resa mistica solo dall’atmosfera di più assoluta segretezza nella quale si svolgevano delle cose che, compiute nella stessa identica maniera fuori da quel contesto, sarebbero scivolate addosso a qualunque persona di buon senso. Ma il nocciolo della questione era: visto che quell’imprimatur le era stato dato, la verginità mondata dalla mano benedetta della Maio, e godeva pure della vivifica salvezza impostale dall’afflato del Sowo, perché non volgere a proprio vantaggio una tale condizione? Perché non mostrarsi per ciò che la famiglia e tutti i conoscenti si aspettassero da lei. Manifestarsi come una giovane donna portatrice di ineffabile ricchezza interiore, un essere dispensatore di sapienza, ereditata dalle carismatiche esperienze recate a compimento, terra fertile pronta ad accogliere la vita in sé e a propagare alle future generazioni la luce degli antenati. E questo aveva radicalmente cambiato il mio modo di vederla nella quotidianità, non più esuberante e ingenua ragazza, ma una persona consapevole di quanto potesse aspettarsi da un mondo che imponeva alla donna un ruolo predefinito, un ruolo che imponeva rispetto, ma di subordinazione maschile. E questa sua vera saggezza, questa sua pragmatica e coraggiosa maniera di affrontare la vita la fece diventare, ai miei occhi, un’ancora a cui sapevo potermi aggrappare se le procelle del domani fossero venute a infrangersi su di me erodendo certezze e aspirazioni... E di sostegno allo sconforto ne avevo davvero bisogno quando penso alle volte in cui avevo accompagnato papà Ayubu al torrente che scorreva lento e melmoso nei pressi di Simbakoro, sempre tra febbraio e marzo, prima del momento di sradicare la vegetazione, abbattere gli arbusti più alti o gli alberi e bruciare le stoppie. Prima di quello c’era il tempo dei sogni... quello di trovare, tra ghiaia e fanghiglia, mentre la schiena si piegava con dolore, e i raggi cocenti arrossavano la pelle scottandola, una scaglia, un frammento più grande e denso, una pietra di luce che accendesse la strada del domani lastricandola delle migliori intenzioni, dei desideri più arditi. Diamanti, tocco della grazia divina e cicatrice perversa della maledizione di demoni oscuri. Quando agitava la seruca riempiendola e svuotandola di una speranza per volta, lo sentivo rimuginare contro i parassiti libanesi e gli ufficiali corrotti che si arricchivano sulle spalle del paese, l’ingordigia dei capi tribali e dei politici sostenitori di regimi demagogici e affamatori della povera gente. Lui poteva contare solo sulla forza di spalle e braccia e sui pochi strumenti fornitigli dagli stessi mercanti e affaristi promotori del mercato nero dei diamanti. Per quanto si impegnasse a trovarne (quando accadeva!) era costretto a rivenderli a quella stessa schiera di tetri figuri, veri beneficiari delle sue strenue fatiche mentre il guadagno era davvero irrisorio. A volte mi chiedevo perché papà si ostinasse a illudersi, a reiterare, ogni anno, l’andata al torrente, a rimanere sulle sponde per giorni, a cercare di svuotare l’oceano della miseria con il bicchiere della caparbietà... ma in fondo non era così difficile da capire perché, anche se la tua virtù è custodita dalla sacralità del sapere degli antenati, quella virtù si avvizzisce se non hai un sogno da coltivare... Papà! Quando capita di pensare a te una vena di tenerezza e malinconia cala su di me... una vita spesa per tutti noi, una vita sempre uguale a se stessa, tutti gli anni, con un orizzonte immoto, sia al sorgere del sole che della luna, perché tu non potresti averne avuto uno differente. All’arrivo della stagione delle piogge le attività si facevano davvero febbrili e c’era bisogno del contributo di tutti perché la terra desse buoni frutti. Allora era il tempo della boma di Gebre e Kantigi, due ragazzi rimasti prematuramente orfani dei genitori e cresciuti con i nonni materni. Erano loro quel valore aggiunto in termini di energia giovanile che si spendeva senza risparmio nel dare una mano nell’aratura dei campi, nell’asportare le erbe infestanti, seminare, tenere lontani gli uccelli e raccogliere il riso, giunto a maturazione. Senza il loro aiuto difficilmente ce l’avremmo fatta. La chiamavano la truppa della provvidenza. Un gruppo di dieci adolescenti che arrivava su di un vecchio fuoristrada traballante, un incredibile sopravvissuto della serie Dodge Ramcharger, sostenuto da copertoni rattoppati sollevanti turbini di polvere muovendosi sulle strade dure e sterrate. Sempre gioiosi, con il sorriso stampato sui volti, senza mai dare un segnale di stanchezza o ritrosia nell’affrontare la fatica dei campi. E il loro instancabile spendersi era per me motivo di vigore e fiducia. Certo, a loro spettava un compenso per gli sforzi profusi, ma era sempre poco per quanto davano e la partecipazione che mettevano trasmetteva un senso di solidarietà contagioso e vitale. Che momenti! Difficili davvero da dimenticare... ma quelli che preferisco ricordare più di tutti anche ora, a distanza di tanti anni, sono le serate di novembre, spese nel piccolo spazio a cui facevano da corona le case del villaggio, modesti edifici in argilla e paglia, tutti riuniti a muoversi armoniosamente, scandendo le sbarazzine intonazioni delle voci delle ragazze, momenti in cui il mio sguardo cercava quello di Trixue, una coetanea che rappresentava il sogno per un dodicenne confuso e imbarazzato. Lei non era da meno nel ricambiare la mia attenzione, e quando ammiccava, con un pizzico di tenera malizia, tempie e petto tumultuavano, e io restavo ipnotizzato dalle sue sembianze, soprattutto, da un’improbabile capigliatura fatta di tanti serpentelli che si arrampicavano tutt’intorno al capo fino a congiungersi al centro in un cratere di filamenti ispidi. Che viso il suo! Un fuso lustrato ben bene, due occhi a mandorla languidi e invitanti, due orecchini piccoli, essenziali e coriacei, emulatori di tratti acerbi ma già promettenti una femminilità in espansione. Insomma, le gambe si muovevano libere e io le sentivo fluttuare guidato dalla luce che veniva dalla sua parte, un faro catalizzatore del mio essere, rendendolo come un’aquila trasportata in alto da correnti d’aria ascendenti. In quei giorni di ottobre ero in trepidante attesa della mia andata nel bush, per abbracciare la consacrazione che avrebbe segnato il passaggio all’età adulta. Come Kaila aveva vissuto l’esperienza della Sande ora sarebbe toccato a me quella della società Poro. Il disincanto di Kaila non aveva raffreddato i miei bollenti spiriti. Al contrario. Ero smanioso di assumerne l’identico carisma. Ignorando che tale magnetismo è, in realtà, frutto di una pragmaticità tipica di tutte le donne del mondo: la capacità di discernere tra quanto veramente essenziale e quanto non lo è, forse perché le uniche a condividere la compresenza di un corpo all’interno del proprio, a curarlo, farlo crescere e a consentirgli di venire al mondo. Di aprirsi la strada verso quel bagno di luce che ci investe la prima volta, nudi e gementi, al di fuori del ventre della madre consegnandoci la nostra identità neurobiologica in un’esperienza che tutti accomuna e rende uguali. E io volevo in maniera prorompente andare al bush e per prima cosa trovarmi faccia a faccia con il terrificante diavolo mascherato che scuoteva anime e menti attraverso il cavernoso e roboante suono emesso dalla sua poderosa tuba. E poi, incontrare i giovani confratelli, nutrirmi degli insegnamenti del capo-vate, affrontare con coraggio la prova della scarificazione, distinguermi per coraggio e prodi virtù, essere circonciso per segnare simbolicamente l’ingresso nel rango degli uomini veri e purificati, pronti a prendere moglie... e un’idea del genere mi faceva palpitare, metteva i sensi in allerta, agitava il sogno di abbracciare Trixue, di accarezzarla... Questi pensieri affollavano la mente la notte in cui, cullato dalle coccole di Jolene e dal vento che girovagava tra i profili delle colline e vorticava lento tra le case, non potevo immaginarmi altro che un indomani foriero di bellezza, vigoroso entusiasmo e sognanti promesse...

    Amanti per sempre

    Credi all’amore che dura per sempre,

    Credi al dolore che fugge nolente,

    Non bisbigliare, non imprecare,

    Congiungi le mani sol per pregare

    che, sotto il respiro di un tenero amante,

    possa il tuo cuore sognare anelante

    Il suo viso splendeva come un faro e sembrava che nubi e adombramenti fossero fuggiti via. Ora c’era solo spazio per il luccichio che increspava la superficie degli occhi rimandando ammiccamenti vividi e cristallini. Michelle fissava intensamente l’uomo di colore al suo fianco, un quarantenne alto e slanciato con un pizzetto che incoronava il mento, di nome Timothy, e chiedeva, come una musa avvinta dalle fiamme della passione e dell’estro, che le ricambiasse lo sguardo, che finalmente le parole si sciogliessero pienamente e quanto avevano spesso immaginato o sussurrato potesse essere gridato a pieni polmoni. L’uomo l’avvolgeva con un braccio e lei teneva la testa reclinata sulla sua spalla destra. Si incamminarono lungo la strada che si dipartiva dalla Bel Art Gallery muovendosi verso la baia poco distante. Quella mattina erano giunti a Deep Cove verso le dieci e Michelle era stata in fervente attività per dare gli ultimi ritocchi alla mostra ove aveva esibito le tele dipinte nell’ultimo anno. Quello che considerava il periodo più prolifico dell’attività di pittrice, il periodo della vita in cui i due si erano conosciuti, e come era solita dire, il velo della tristezza e della malinconia derivante da un rapporto essiccato e inaridito, quale quello che era diventato la convivenza con il marito, Fred Laundry, era stato strappato, e ridotto in tanti piccoli pezzi, microscopici ricordi dissolti e spazzati sotto le spire del vento che soffia, leggero e impetuoso, sulla superficie di False Creek. Ora non le importava più di dover condividere ancora la stessa casa e gli stessi silenziosi spazi con lui, non ne soffriva più, considerava il tutto una formalità a cui adempiere, mentre con la mente era già protesa verso l’obiettivo di dare luce e colore alla nuova ispirazione. Si dedicava in alternanza a un colpo di pennello teso e vitale e poi al prossimo incontro con Timothy, a casa sua o in una stanza di albergo o qui, dove sorgeva, affacciata sul porto, un’abitazione a due piani, ereditata dal padre tempo addietro. La nostra alcova, il nostro idillio. Timothy non l’aveva mai vista così. Le passò una mano tra i capelli. Era impossibile non subirne la fascinazione del profilo così leggiadro, della fronte pallida incorniciata da una morbida treccia bionda e, soprattutto, dei teneri lentigginosi ghirigori che ammantavano il dorso del naso e davano ancora più risalto agli occhi azzurri e sognanti. Nel fissarla il cuore gli batteva, ma nel farlo una fitta leggera prima, e poi più incisiva gli tolse il respiro per un istante. Sapeva il perché, ma tentava di rimuoverne la consapevolezza che stentava a tenere lontana dalla soglia del flusso di emozioni... E tutto, per un fuggevole istante, parve una beffa per lei, e per lui un’eventualità del destino che lo portava a scegliere, faticosamente, ma con evidente discernimento perché era chiaro cosa dovesse fare...

    – Ti presento mia moglie, Michelle – aveva detto Fred Laundry, con una punta di orgoglio e di malcelata ostentazione, come il proprietario di una casa ricca, circondata da ubertosi campi e prolifiche terre.

    Con il tono di chi mostrava un trofeo agli astanti, in questo caso a Timothy Beah, collega e rivale alla University of British Columbia, per fargli pesare la bellezza di cotanta consorte... lui ne era l’esclusivo usufruttuario... Ed era impossibile negarne il tono sottinteso. Michelle quella sera, alla cena di gala seguita al Workshop sulle Biotecnologie organizzato da Fred allo Shangri La Hotel appariva davvero bella, un monumento alla più icastica floridezza. Indossava un abito da sera rosso porpora, aperto a campana sul davanti, fasciando strettamente il busto, con il margine superiore che si inarcava armonioso sui seni e un’elegante bretellina pendente dalla sola spalla sinistra. Gli orecchi erano impreziositi da lobi sfaccettati che rifrangevano la luce dando riflessi multiformi, mentre i capelli formavano un crocchio imponente. Si muoveva con naturalezza, unitamente a un’elegante indolenza che Timothy avrebbe imparato a conoscere presto, un atteggiamento di apparente distacco e superiorità, in realtà un modo per prendere la vita con un tocco di disincantata leggerezza. Quella stessa che muoveva la mano quando liberava l’innata creatività rielaborando la realtà in espressioni cromatiche da lei stessa definite imprigionate in una dimensione senza né spazio né tempo. Dove la prospettiva si frangeva in una molteplicità di piani che rimandavano alla quarta dimensione tanto cara ai Cubisti, e nel suo caso al genio misconosciuto della corrente analitica, Juan Gris, spentosi prematuramente a Boulogne sur Seine. Si dice che il primo sguardo, a volte, segni il destino di un incontro. E ciò che vide Timothy, quella sera fu rivelatore di un’emozione finora sconosciuta. E dire che di sguardi ne aveva visti e retti. Ma nel caso di Michelle era qualcosa di diverso. Una vampata che letteralmente fendeva l’aria e la tingeva di struggente vitalità. Il fuoco di una meteora, sfolgorante astro in attraversamento del silenzio dello spazio siderale. E allo stesso tempo a tanta forza e vigoria si mescolava un tratto di inconsolabile struggimento, un disperato segnale di aiuto, una mano che emergeva drammaticamente da flutti in tempesta, un gemito che pretendeva attenzione e compassione. Fu tutto questo coacervo sensoriale che si animò dentro Timothy al cospetto di lei così da non potere sottrarsi a quella magmatica aura che effondeva dalle iridi turchese, alcuni secondi di ipnotica meraviglia che culminarono in un tuffo al cuore, sordo e improvviso.

    – Lieto di conoscerla – replicò Timothy protendendo la mano con ancora in mente la visione di quell’arto che si agitava sul mare procelloso.

    – Il piacere è tutto mio – disse Michelle, stringendogliela – mio marito talvolta parla di lei, ma la descrizione che ne dà non le fa onore... – aggiunse la donna con un tono non adulatore, ma di pungente contrapposizione al consorte.

    Timothy Beah e Fred Laundry si conoscevano bene e soprattutto il secondo detestava il primo per la rapidità con la quale stava bruciando le tappe della carriera di biologo molecolare rischiando di oscurare la sua, affermato cattedratico in quel settore che aveva faticato di più per raggiungere la posizione detenuta. Timothy era diventato a soli quarant’anni direttore del neo fondato istituto di Genomica Agraria nel quale stava portando avanti un ambizioso progetto di ingegnerizzazione di microrganismi nel settore cerealicolo. Una branca dove anche Fred aveva lavorato a lungo e ancora si spendeva senza però conseguire gli stessi risultati. Tuttavia questi era un uomo estremamente ambizioso ed egocentrico, incapace di tollerare l’affermazione di qualcuno di quasi vent’anni più giovane, in grado di avere successo dove lui aveva fallito. I due uomini più volte si erano scontrati in modo acceso e Fred non solo aveva criticato aspramente l’attività di Timothy ma anche tentato di metterne in cattiva luce la credibilità scientifica in ambito di facoltà, ed essendo editor di numerose e prestigiose riviste del settore, quando aveva ricevuto lavori scritti dal rivale, non aveva esitato a rigettarli talvolta con commenti trancianti. Fu così che le parole della moglie risuonarono a Fred come una provocazione che preferì non raccogliere per evitare di turbare l’atmosfera conviviale della serata di gala soprattutto per la presenza di un collega di vecchio stampo, molto tradizionalista, insegnante genetica all’Università del New England in Armidale, con il quale stava elaborando un progetto molto promettente in termini di finanziamenti. Una scenata con la moglie era l’ultima cosa che avrebbe desiderato. Così Fred si fece scivolare addosso quell’osservazione ma con il retro pensiero di renderle pan per focaccia una volta a casa. La cena fu uno sfarzo ostentato di prolusioni e complimenti, di vocii e dialoghi serrati ai vari tavoli su argomenti leggeri o impegnati, scrosciare sibillino di vini in calici di cristallo, portate sofisticate e appetitose che furono gustate e deglutite tra un tintinnare di forchette su piatti in fine porcellana e un lambire di cucchiai la superficie di consommé vellutati e tiepidi. Fu uno scorrere lento e rapido al contempo per Timothy che dal suo tavolo non poteva fare a meno di occhieggiare quello di Michelle. Lei, solo in apparenza, sembrava non ricambiare i tentativi di Timothy di captarne ancora, anche a distanza, la luce feconda. In realtà la donna, seduta a fianco del marito, nel corso di noiose battute scambiate con un’anziana signora faceva altrettanto e alla fine di molteplici tentativi andati a vuoto i loro sguardi si incrociarono e si cercarono. Prima con pudore, poi con vigore e infine con desiderio. La loro storia era cominciata. Sul tardi, quando molti erano allegri e un po’ alticci venne introdotto a centro sala un carrello circolare sul quale torreggiava un millefoglie alla crema di caffè e panna a due piani recante una scritta in caramello Laundry: Master in Wizardry. Che spocchioso pensò Michelle, Che borioso pensò Timothy, Portentoso pensò Fred. Rapidamente alcuni camerieri in livrea bianca e bottoni dorati si affrettarono a scomporlo in decine di fette che distribuirono ai tavoli. Poi giunsero altri due carrelli rettangolari con su una decina di bottiglie di Bollinger Vieilles Villes Françaises attorno alle quali era ammassata una gran copia di calici Champagne Wine Glass. A quel punto Fred ruppe gli indugi e invitò tutti ad alzarsi dai rispettivi posti per un brindisi collettivo. Preso dall’enfasi del momento la sua attenzione si concentrò nello stappare una bottiglia, eseguendo il tutto con manierosa solennità e avendo cura di riempire il primo bicchiere al collega di Armidale. E mentre si spendeva e si perdeva nella stretta di mano calorosa resa da questi, dopo aver ricevuto la loro razione di champagne Michelle e Timothy si ritrovarono ai margini della folla che si assembrava intorno ai due. Si avvicinarono e si guardarono ora, a una spanna di distanza. Non c’era ombra di dubbio. Se l’amore era una mera questione epidermica allora la loro pelle ne stava profondendo il profumo che la donna annusò con intensità mentre l’uomo rimase, nuovamente, a fissare l’azzurro bagliore del viso da madonna trecentesca.

    – Ora so perché mio marito la odia così tanto... è perché la teme, non come scienziato ma come uomo... sapendo che lei sarebbe il mio ideale...

    – Signora... mi confonde

    – Lo spero proprio perché qui, al suo fianco lo sono... eccome

    – Quando si dice... cercarsi e non trovarsi... è quello che ci è successo... fino a ora

    – L’imprevedibilità del caso... o per meglio dire, vista la circostanza... il caso dell’imprevedibilità

    – Io... non sono abituato a dare del tu a qualcuno che appena conosco... ma la profondità del suo sguardo ha sconquassato il mio cuore come il Moskstraumen...

    – Il vortice più famoso al mondo...

    – Precisamente...

    – E allora che aspetti a darmelo, il mio nome è Michelle – e così dicendo fece scorrere la mano destra sul suo braccio sinistro, con dolcezza, fino a giungere alla sua di mano che strinse per qualche istante – d’altro canto... penso che avremo più di un’occasione per scambiarci questo pronome così breve... ma così intimo – In quell’istante notò che l’interesse del marito per lo champagne stava scemando così riprese – Dammi il tuo numero di cellulare... – e mosse gli occhi verso sinistra.

    – 604 172 3322 – rispose Timothy che aveva notato la stessa cosa.

    La donna estrasse il telefonino da una piccola borsa in pelle rosso cremisi trapezoidale e si affrettò prima a memorizzarlo, poi a chiamare quello di Timothy e infine a riporre lo smartphone. Fatto. Ora non potevano più perdersi. O meglio, fu proprio allora che iniziarono a farlo, l’una nell’altro e viceversa. Da quel momento in poi pensarsi e cercarsi divenne un esercizio coniugato con solerzia, passione, crescente attesa per quando sarebbe venuta la circostanza futura nella quale cogliere il frutto del desiderio reciproco. Furono mesi dolcissimi nei quali Timothy si recava al lavoro galvanizzato da un’energia inusitata, dal tenero pensiero delle carezze che Michelle gli dedicava. Amante accurata e attenta a ricercare con i polpastrelli delle mani, affusolate e rese sensibili e tattili dalle ore di esercizio pittorico, il contorno delle rughe precoci da atteggiamento, che si affiancavano sulla fronte spaziosa dell’uomo, come trincee in cui i pensieri più reconditi trovavano rifugio dal fragore di turbamenti e angosce, simili alle esplosioni di un cannoneggiamento roboante. L’intensità del rapporto divenne per Michelle linfa di cui nutriva l’ispirazione pittorica. L’ardore dei baci venne tramutato in foga dei tratti che stendeva sulle tele imbiancate. La forza degli abbracci corroborava il vigore della mano nel mescolare le tinte. La luce scambiata negli sguardi appassionati accendeva gli occhi nel dettare la prospettiva creativa di un’immagine o una prospettiva. E furono così i giorni della pioggia battente con furore sul tetto e sui vetri della magione prospiciente alle acque di Deep Cove, del vento che lanciava grida roche insinuandosi su, lungo il pendio, del fuoco divampante nel camino in pietra bianca. Emanando lingue rosse che rischiaravano l’immagine del loro abbraccio, del loro cercarsi e baciarsi senza sosta, distesi sul letto dallo schienale in ferro battuto, austero ed elegante, al quale si avvinghiavano le mani di Michelle quando Timothy, accarezzava con le labbra i suoi seni. Difficilmente lui avrebbe dimenticato quei giorni. Difficilmente lei si sarebbe salvata da una vita destinata a sbriciolarsi sotto il peso di un coniuge innamorato solo del proprio smisurato egocentrismo. Per il quale l’attrazione verso di lei dei primi anni di matrimonio era totalmente scomparsa lasciando il posto a un uso sistematico della donna quale orpello da usare in società, quando aveva bisogno di ostentarla come una sorta di status symbol dovuto al fascino emanato dalla perizia nell’arte figurativa, alla grazia dell’aspetto, e al fatto di essere l’unica erede di una famiglia di nobili origini dalla quale aveva ricevuto una dote milionaria. Una dote che, però, lei non sembrava affatto apprezzare, votata così come era esclusivamente alla realizzazione artistica, al punto che, al momento di coniugarsi con Fred non aveva battuto ciglio alla richiesta di farlo in regime di condivisione dei beni. Difficilmente Timothy avrebbe mai immaginato l’arrivo di un tale giorno...

    Sedevano l’uno di fronte all’altra. Il sole tiepido scaldava i visi e le mani mentre erano intenti a mangiare il pesce appena servito. Il locale ove avevano trovato posto si apriva con un’ampia veranda sulla baia e lì, da un po’, stavano pasteggiando.

    – Che hai? – chiese Michelle

    – Ti sembra che abbia qualcosa che non va?

    – A una domanda non si risponde con un’altra...

    – Solo stanchezza

    – Tim, ti prego non rispondermi così, per me sei un libro aperto e sul tuo viso colgo ogni sfumatura d’umore

    – E cosa vedi adesso?

    – Turbamento

    – Per cosa?

    – Questo dovresti dirmelo tu... percepisco i moti del tuo animo ma non le ragioni, quelle le tieni sprangate in una cassaforte di cui non hai mai rivelato la combinazione

    – Misha!... non essere così melodrammatica, per favore...

    – Se intendi dire che sono una brava attrice, faresti meglio a cambiare tono...

    – Ehi... Ehi! Ma cosa ti prende...?

    – Io?!... Oggi per me è stato un giorno bello e davvero importante... una mia personale dopo tre anni... ho toccato il cielo con un dito quando Beatrice mi ha detto che avrei potuto esporre di nuovo alla Bel Art Gallery e visto il pubblico venuto penso che lei e Stefan si siano davvero spesi per pubblicizzare l’evento. In questo mese ne abbiamo parlato e riparlato, ho atteso con ansia il momento, direi con trepidazione.

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