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Il bivio e l'anello
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Il bivio e l'anello
E-book1.187 pagine17 ore

Il bivio e l'anello

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Info su questo ebook

Andrea è un venticinquenne svogliato, apatico, frustrato e già stanco di vivere. La sua tediosa e spenta routine è tuttavia sconvolta da una visione che sortisce l’effetto di una vera e propria epifania; il giovane comprende di aver convenientemente dimenticato e rimosso la vera causa alla base del suo fallimento esistenziale: il rifiuto motivato dal timore di causare sofferenza alla propria famiglia, esattamente sei anni prima, di accettare una vantaggiosa borsa di studio che gli avrebbe permesso di studiare alla Columbia University e di realizzare il suo sogno di diventare un giornalista di fama internazionale. In preda a un raptus di lucida disperazione, Andrea si toglie la vita… per poi risvegliarsi in una realtà parallela, quella in cui, sei anni prima, egli ha scelto di partire per New York: ricco e felice, convive con Sophia, la donna della sua vita, e scrive per il New York Times. Ma l’idillio è destinato a estinguersi: una misteriosa chiamata notturna lo coinvolge nell’agghiacciante caso di uno spietato serial-killer di donne, il quale – servendosi di abilità che sconfinano nel sovrannaturale – sembra volerlo sfidare in una strenua lotta psicologica.

“Il Bivio e l’Anello” è difficilmente classificabile in un genere fisso, in quanto le tematiche trattate e le tecniche narrative utilizzate attingono dal registro dell’horror, del filosofico, del noir, del romanzo psicoanalitico, dell’ucronia distopica e del thriller fantascientifico. Tuttavia, se c’è un filo conduttore che accomuna questi diversi filoni, questo è individuabile nella natura intrinseca dell’opera letteraria, senza dubbio ascrivibile tra i romanzi di formazione.

“Il Bivio e l’Anello” parla di “aut aut” e dei drammi che scaturiscono dalla paura di scegliere. Drammi che, attraverso un portentoso ed imprevedibile effetto farfalla, si espandono a macchia d’olio: dapprima solo psicologici e familiari (The Wall), si estendono a un livello macroscopico nella seconda parte (Back in Black) per poi sfociare addirittura in una minaccia per l’intero universo (Nevermind).

Il protagonista soffre, sbaglia, cade, si rialza, impara, scopre se stesso e acquisisce una piena consapevolezza di come ogni sua scelta, anche la più insignificante, possa condurre a scenari imprevedibili e fin troppo spesso tragici, se dettata dal rimorso o dal rimpianto.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2016
ISBN9788822855527
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    Anteprima del libro

    Il bivio e l'anello - Andrea Faro

    Andrea Faro

    Il bivio e l'anello

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    The End

    PROLOGO

    PARTE PRIMA

    1. ANOTHER BRICK IN THE WALL

    2. LET IT BE

    3. WAITING FOR THE WORMS

    4. ZOMBIE

    5. DOGS

    6. HOT FOR TEACHER

    7. DON’T STOP ME NOW

    8. ROULETTE

    9. DIARY OF A MADMAN

    10. HALLOWED BE THY NAME

    11. INSIDE THE FIRE

    12. BRING ME TO LIFE

    13. DAZED AND CONFUSED

    14. SWEET CHILD O’ MINE

    15. MORE THAN A FEELING

    16. IT’S MY LIFE

    17. ROCK AND ROLL ALL NITE

    18. SOMEBODY TO LOVE

    PARTE SECONDA

    1. BACK IN BLACK

    2. KARMA POLICE

    3. HOUND DOG

    4. I PROMISE YOU I WILL

    5. RAINING BLOOD

    6. FEAR OF THE DARK

    7. I’M GONNA BE (500 MILES)

    8. MASTER OF PUPPETS

    9. ANOTHER ONE BITES THE DUST

    10. FADE TO BLACK

    11. THE TIMES THEY ARE A’CHANGIN’

    12. BLACK HOLE SUN

    13. BLACK SABBATH

    14. SYMPATHY FOR THE DEVIL

    15. (I CAN GET NO) SATISFACTION

    16. WRAPPED AROUND YOUR FINGER

    17. HAVE A CIGAR

    18. WELCOME TO THE MACHINE

    19. PHANTOM OF THE OPERA

    20. PSYCHO HOLIDAY

    21. KEEPER OF THE SEVEN KEYS

    22. BOHEMIAN RHAPSODY

    23. EVERY BREATH YOU TAKE

    24. CRAZY TRAIN

    25. PIGS

    26. RIDE THE LIGHTNING

    27. WAITING IN VAIN

    INTERMEZZO

    1. WISH YOU WERE HERE

    2. MOTHER

    3. THE PRICE

    PARTE TERZA

    1. HOTEL CALIFORNIA

    2. HERE COMES THE SUN

    3. SONO IL TUO SOGNO ERETICO

    4. HIGH VOLTAGE

    5. ENTER SANDMAN

    6. TIME

    7. CALIFORNICATION

    8. WONDERWALL

    9. CHOP SUEY!

    10. THE PRISONER

    11. WHITE RABBIT

    12. HAUNTED

    13. HOLY DIVER

    PARTE QUARTA

    1. O FORTUNA

    2. THE DARK SIDE OF THE MOON

    3. SYMPTOM OF THE UNIVERSE

    4. RAINBOW IN THE DARK

    5. NIGHT PROWLER

    6. REVOLUTION

    7. LAND OF CONFUSION

    8. 22 ACACIA AVENUE

    9. DREAM ON

    10. IMAGINE

    11. YOU’RE MY BEST FRIEND

    12. THE PRETENDER

    13. PAINT IT, BLACK

    14. NOTHING ELSE MATTERS

    15. IRON MAN

    16. NOBODY’S FAULT

    17. THE TRIAL

    18. WILL THE CIRCLE BE UNBROKEN?

    19. COME AS YOU ARE

    20. BAT OUT OF HELL

    21. CAUGHT SOMEWHERE IN TIME

    22. CHILD IN TIME

    23. STOP CRYIN’ YOUR HEART OUT

    EPILOGO

    MERAVIGLIOSO

    A new beginning...

    The End

    Serrò gli occhi.

    Si morse il labbro, angosciato.

    Ultima chiamata Alitalia, volo AZ3694. Ultima chiamata.

    PROLOGO

    Disteso a pancia in su, sul pavimento che sembrava aver preso vita e aver voglia di massacrare di pugni la sua schiena, non poteva far altro che ammirare inerme, sopraffatto da un senso di meraviglia mista a riverenza mista a sgomento, la forza annichilente della Natura mentre sfoderava la sua cieca furia sull’umanità impotente.

    Disastro, calamità, Apocalisse, parole vuote che non riuscivano a descrivere nemmeno un pizzico di quanto stava accadendo sotto i suoi occhi. Pareva di sorvolare la Berlino nazista sotto assedio, che periva, un edificio dopo l’altro, sotto una pioggia incessante di sibilanti bombe sganciate dai cieli. Questa volta, tuttavia, le innumerevoli esplosioni che accendevano di rosso la notte buia di quella misteriosa città non precipitavano dall’alto: erano i gasdotti sotterranei a saltare in aria, come mine nascoste tra le foglie, riducendo in cenere case su case, covoni di paglia annichiliti dall’infuocato alito di un malvagio dragone. Anche i condotti dell’acqua non ressero e molti degli idranti sparsi per la città esplosero sputando sfrontatamente verso le nuvole improvvisate fontane zampillanti. I pilastri che sostenevano i numerosi cavalcavia si sgretolavano, facendo precipitare automezzi e interi blocchi di asfalto sulle strade sottostanti. Sul dorso di uno di questi viaggiava placido un treno che, assonnacchiato, seguitava nel suo cammino incurante della voragine che lo attendeva sulla sua strada pochi metri più avanti. Precipitò anch’esso, con calma, quasi incosciente, per poi finire la sua folle corsa con una gigantesca serie di fuochi d’artificio splendenti come il sole. Una ruota panoramica oscillava minacciosamente, tentando eroicamente di resistere ai poderosi strattoni del sisma. Un tentativo titanico quanto vano: le sue robuste gambe portanti d’acciaio dovettero piegarsi, sferraglianti, in ginocchio, lasciando che l’abnorme disco abbattesse in avanti, schiacciando sotto le sue centinaia di tonnellate qualunque cosa avesse la sfortuna di trovarvisi al di sotto. Le fondamenta dei grattacieli si sbriciolarono come biscotti secchi, per poi venir giù come birilli appena sfiorati da una palla da bowling. Crepe sempre più vistose correvano scricchiolanti lungo le ripide salite. Crepe che si allargavano sempre di più, trasformandosi in grosse spaccature, per poi spalancarsi completamente in sconfinate oscure voragini che fagocitavano con disarmante voracità auto, strade, palazzi. Interi isolati venivano risucchiati in quei buchi neri, lasciando di sé nemmeno la più insignificante traccia, cancellati per sempre dalla memoria della città, come non fossero mai esistiti. La geografia del territorio cominciava a cambiare: il terreno era instabile e si spezzettava in zolle che emergevano ad altezze differenti per poi sovrapporsi e crollare l’una sull’altra. Nel frattempo, le voragini che nascevano apparentemente senza un criterio nei quartieri più disparati non solo si allargavano sempre di più, ma sembravano avvicinarsi, tendendo le proprie braccia l’una verso l’altra, a formare un unico immenso baratro largo almeno mezzo chilometro, profondo solo Dio sapeva quanto. Ben presto la spaccatura raggiunse la costa, spalancando le porte alle fredde acque della baia, che non ci pensarono due volte ad accettare l’invito e riversarsi, prorompente e impetuosa muraglia gorgogliante, sulla città fantasma. Solo un immenso ponte resisteva ancora, imperterrito. La campata centrale oscillava come un’amaca al vento. La sostenevano i mastodontici cavi di sospensione, di quasi un metro di diametro ciascuno. E la supportavano, a distanza di più di un chilometro l’una dall’altra, le due robuste torri, che si ergevano fino a più di duecento metri sul livello dell’acqua. Il titano arancione sembrava in grado di resistere a quel cataclisma senza precedenti. Ben presto, tuttavia, anche quell’ultima roccaforte di speranza sarebbe capitolata. Letteralmente. La struttura, infatti, cominciò a piegarsi proprio nel bel mezzo della campata centrale. I cavi non ressero alla tensione e, in uno spettacolare effetto domino, finirono per spezzarsi uno dopo l’altro, con la disarmante facilità con cui i nastri rossi usati nelle inaugurazioni sono lacerati dalla lama di una qualsiasi forbice mediamente affilata. Senza più sostegno, l’avvallamento centrale divenne una frattura. Qualche sfortunata macchina si tuffava a picco nelle acque scure come un timido silenzioso nuotatore notturno. Lo splendido sistema d’illuminazione, che si rifletteva sullo specchio della baia in un mozzafiato gioco di luci, saltò all’improvviso, lasciando al buio l’intera struttura nei suoi ultimi istanti di integrità. La ferita era ormai troppo estesa: nemmeno il migliore tra i chirurghi avrebbe potuto ricucire i due lembi che divergevano sempre di più, piegandosi verso il mare e trascinando in quello spettacolare inabissamento le loro rispettive torri. Appena qualche secondo, e quel titano era scomparso per sempre dalla faccia della terra. A testimoniare la sua passata esistenza, solo le sezioni inferiori dei pilastri portanti, rimaste intatte come fantasmi, relitti insensati che si ergevano ad amnesica memoria di qualcosa che era stato e che da quell’istante non era più. Bastarono quindici secondi: la città non esisteva più.

    E lui giaceva lì, immobile: riusciva a connettersi con i loro pensieri, a leggere nelle loro anime, a compenetrarsi nel loro dolore. Le loro voci rotte, le loro urla strazianti, le loro richieste d’aiuto disperate… risuonavano tutte insieme nella sua testa. La loro sofferenza, le loro speranze massacrate, i loro sogni stroncati… riusciva a sentirli nel profondo della sua anima, come un opprimente, oscuro, insostenibile peso, un nodo che lo asfissiava di indescrivibile, schiacciante, trafiggente malinconia. Milioni di vite evaporate così, come se nulla fosse, in un batter d’occhio. Questo era fin troppo ingiusto, troppo perverso, troppo crudele.

    Eruppe in un pianto di orrore e disperazione. Una sensazione di freddo sulla fronte, la visione tremolante e luccicante della canna di un fucile, una voce sibilante che sussurrava: -Addio.

    Un urlo strozzato. Uno sparo. Il buio.

    PARTE PRIMA

    THE WALL

    1. ANOTHER BRICK IN THE WALL

    16 OTTOBRE 2019

    E poi aprì gli occhi. Un sogno, solo un altro incubo. Per dio, però, se questo sembrava reale. 

    -La vita è sogno, furono le prime parole che bofonchiò, ancora imbrigliato nella vischiosa tela della dormiveglia.

    Continuò ad accarezzare quel pensiero, quasi con autocompiacimento.

    Si era svegliato piuttosto presto: erano le dieci del mattino e ne andava fiero. Solitamente la sveglia era puntata alle undici e trenta, ma quel giorno le cose stavano in modo diverso: aveva compiuto un’impresa, un atto eroico. E non solo… Aveva pure esordito con una citazione erudita!

    L’incubo fu in men che non si dica dimenticato e Andrea si convinse che quella giornata sarebbe stata memorabile… Come avrebbe potuto essere altrimenti, data una partenza così esaltante?

    Si alzò fischiettando e si recò in bagno.

    -Oggi è il giorno del fato! Stasera esco e mi trovo la ragazza!.

    Cavalcando l’onda del mattutino entusiasmo, cominciò a pettinarsi i neri capelli arruffati, tentando con scarsi risultati di imprimervi una forma. Poi provò con dell’acqua, ma nulla da fare: quel maledetto ciuffo ribelle non voleva sentirne di rigare dritto. Lo fissò allo specchio e lentamente la luce che brillava nei suoi occhi verdi si avviò al tramonto. Rimase immobile per un tempo indefinito a fissare il vuoto con il pettine in una mano e l’acqua che, gocciolando dall’altra, bagnava la punta dei suoi piedi. Ma nemmeno il gelido fluido era capace di svegliarlo da quello stato di torpore: era lo stordimento di chi cade dal letto proprio nel bel mezzo di un bel sogno. Chi voleva prendere in giro? Lui… una ragazza? Ma che assurdità. Anche se fosse riuscito a trovare quella giusta, la lei in grado di accendere la fatidica scintilla, sapeva benissimo che non avrebbe mai avuto il coraggio di dichiarare i propri sentimenti.

    Insomma, lui aveva quella orribile pancetta sporgente. Certo, non aveva mai fatto nulla per liberarsene. In verità, era stato ad un passo dall’iscriversi in palestra, cinque anni prima, quando era ventenne; ma in ognuna aveva sempre trovato qualcosa che non l’aveva convinto: la distanza da casa, il titolare rozzo e semi-analfabeta, la scarsa esposizione degli attrezzi alla luce solare (nonostante avesse intenzione di frequentare alle sette di sera), l’eccessivo via vai di bimbe col tutù alle prese con le lezioni di danza o di signore sessantenni dalla gonna leopardata con la passione per il tango. A dire il vero, dopo un’estenuante ricerca, era anche riuscito nell’impresa di trovare una palestra che lo convincesse: ma dopo aver fatto conoscenza con la personal trainer, una ragazza davvero dolce e carina che sembrava nutrire anche un certo interesse nei suoi confronti, aveva improvvisamente deciso di mollare, a sua detta per via della retta mensile, più alta di 5 € rispetto alle palestre concorrenti… un vero furto. Così si era conclusa la sua breve – ma intensa? – esperienza con il tapis roulant e le panche per addominali. La palestra non lo meritava e lui non poteva permettersi di mescolarsi a quei buzzurri, il cui unico obiettivo nella vita era pomparsi i muscoli per far colpo sulle oche starnazzanti in discoteca. Lui era superiore al resto della marmaglia della sua età, incapace di pensare criticamente e soprattutto di ricordare il XXVI canto dell’Inferno a memoria. E poi qualcuno avrebbe dovuto riequilibrare l’ignoranza che la faceva da padrona tra i giovani. Qualcuno avrebbe dovuto sacrificarsi per la causa, rinunciando al proprio corpo e nutrendo esclusivamente la mente. Il culturismo andava contrastato e sconfitto con la cultura: era l’unico modo per risanare la società. Ecco, lui lo faceva per il bene della società!

    Peccato solo che di sociale la sua vita avesse ben poco.

    A questo pensiero si riscosse un momento e, come a voler confermarne l’attendibilità, estrasse il cellulare dalla tasca dei blue jeans con i quali aveva passato la notte. Zero messaggi, zero chiamate.

    -Per impiegare una litote, i miei amici non sono proprio una flotta, amava affermare con aria fiera e altezzosa, tentando di mascherare con l’ostentazione di una figura retorica il vuoto di cui lo riempiva la solitudine, mascherata dall’orgoglio di una fantomatica sfida titanica contro il mondo intero.

    Andrea non aveva amici. Ed i pochi fortunati che avevano avuto il privilegio di essere fregiati di tale onore – e si contavano proprio sulla punta delle dita – era stato lui stesso ad allontanarli, con la sua apatia e la sua indifferenza.

    A scuola, inutile precisarlo, il ruolo di secchione e la nomina di saputello che si era guadagnato negli anni gli avevano precluso qualsiasi rapporto sociale che andasse oltre il Hey, mi faresti la scansione degli appunti di Fisica? o il Passami la copia del compito, svelto!. Ma lui non odiava i suoi compagni; e poi come biasimarli? La colpa della sua solitudine era da imputare solo ed esclusivamente a lui stesso: si può essere alunni brillanti anche senza rendersi tremendamente antipatici agli occhi degli altri, senza mettersi in mostra ed ostentare saccenteria, insomma, senza essere dei sociopatici cronici. Ma lui era così, e ormai era troppo tardi per l’autocorrezione. In compenso, manco a dirlo, andava fortissimo con le professoresse!

    Un’estate, subito dopo aver scoperto i Pink Floyd e aver ascoltato il loro album The Wall, aveva anche deciso di improvvisare un’autoanalisi più o meno spassionata e di stilare una classifica delle cause della propria alienazione.

    La prima era la casa in periferia, che gli impediva di incontrare regolarmente i compagni sin dalle elementari. Come se non bastasse, la periferia in questione era uno dei quartieri peggiori di Catania, in cui ignoranza, inciviltà e criminalità proliferavano senza controllo: non c’è dunque da sorprendersi se il povero Andrea non avesse mai stretto legami di amicizia con i bambini del vicinato. Anche la pigrizia e il fisico rammollito erano da imputarsi alla lontananza dal centro storico, dato che sin da piccolo era stato obbligato a spostarsi con la macchina per raggiungere qualsiasi luogo di studio o di svago. D’altro canto, l’instabile situazione economica della famiglia lo aveva reso piuttosto restio a chiedere passaggi al padre, al quale non voleva essere di peso per via del prezzo sempre crescente del carburante. Per tanto anche le uscite con i compagni erano dei veri e propri eventi che si verificavano molto raramente. E niente vita sociale significava niente vita sentimentale.

    Il secondo gradino del podio era occupato da quella stramaledetta unghia incarnita che lo aveva colpito all’età di otto anni, per poi dargli sollievo, dopo ben quattro operazioni, solo all’età di sedici anni, precludendogli di fatto una normale attività fisica come quella dei suoi coetanei, alle elementari già calciatori e rugbisti provetti. E niente sport uguale niente gioco di squadra e niente fisico da macho!

    Infine, anche la religione aveva rivestito un ruolo più o meno fondamentale nel processo di alienazione di Andrea. La sua famiglia era infatti profondamente religiosa da ormai quattro generazioni: suo nonno era pastore protestante, così come lo era suo padre. Pertanto, banditi i cartoni animati giapponesi perché violenti, bollato il rock come musica di Satana, ostracizzati i film horror, al povero Andrea rimaneva ben poco di che parlare con gli amici e le occasioni di incontro e ritrovo erano inevitabilmente destinate a calare drasticamente. Alla religione era imputabile anche il rigetto per il ballo, dato che le discoteche gli erano sempre state descritte come luoghi di assoluta perdizione.

    Insomma, Andrea era solo, solo come un cane. Ma a lui non pesava più di tanto… almeno, così voleva dare a credere. Non era raro sentirgli affermare: Non ho amici e ne sono fiero!, Non ho relazioni sociali perché voglio conservare la mia individualità e non intendo farmi risucchiare dalla massa, oppure E chi la vuole la ragazza?! Sarebbe solo un peso in più a cui pensare. Ma ogni volta che pronunciava queste parole, nonostante il sorrisetto spavaldo che puntualmente ostentava, non riusciva a dissimulare un velo di tristezza che gli si posava sugli occhi e che, ad un osservatore attento, avrebbe rischiarato la strada che conduceva al suo vero Io, aggirando la muraglia di bugie e stereotipi dietro la quale si era barricato. Una maschera di cui, proprio come gli allucinati personaggi pirandelliani, era diventato schiavo. Liberarsene era impensabile. Aveva ormai affondato le proprie nodose radici in profondità nel suo volto: strapparla avrebbe significato rinnegare se stesso, abbandonare la propria sfida titanica, ammettere di aver sbagliato tutto, rinunciare finalmente all’orgoglio che gli impediva di cambiare e diventare un uomo migliore.

    Immerso nel flusso di coscienza, le campane dell’Ave Maria lo destarono con la forza dal blocco psicomotorio, come la sorella cardiologa Denise era solita definire scherzosamente gli attacchi di pigrizia fulminante che spesso lo paralizzavano in una gabbia di apatia e svogliata impassibilità. Le pupille fisse nel vuoto riacquistarono vitalità e diedero una rapida ispezione all’immagine riflessa allo specchio. Afferrò il ciuffo in prossimità della fronte e lo tirò verso il basso… come a voler togliere una maschera. Chiuse gli occhi e li riaprì. Nulla era cambiato. Un sorriso di amarezza gli attraversò il viso. Posò nuovamente il suo sguardo sul ciuffo ribelle: per colpa sua aveva perso non solo l’entusiasmo, ma anche due ore del suo prezioso tempo. Si ricordò di come la crisi di identità di Vitangelo Moscarda fosse cominciata dopo la presa di coscienza, su suggerimento della moglie, che il suo naso fosse storto. Per Vitangelo era stata una sorta di epifania. Ad Andrea, invece, quel ciuffo aveva soltanto ricordato ciò che sapeva già: che lui era solo un codardo privo di determinazione e volontà, uno schiavo incatenato dalle sue maschere.

    Si compiacque di se stesso per il brillante parallelismo letterario… stavolta, tuttavia, il solito autocompiacimento aveva un retrogusto decisamente amaro.

    2. LET IT BE

    Era ormai ora di pranzo. Andrea chiuse la porta di casa alle sue spalle. Ormai da tempo immemore la sua famiglia aveva l’abitudine di pranzare ogni giorno a casa dei nonni materni, e non c’era giornata in cui quell’allegra combriccola di parenti non trasformasse la tavola imbandita in una vera Babele, sulla cui passerella figuravano i tipi umani più disparati. Andrea era solito apprezzare la loro compagnia: sin da bambino la sua famiglia era stata l’unica fonte di vera amicizia, aggregazione, affetto sincero. Certo, non mancavano gli alterchi, i litigi e gli scambi più o meno focosi di opinione, ma proprio quella varietà di pensieri e caratteri aveva sempre rappresentato uno stimolo per lui. Grazie al continuo confronto col suo parentato, nonostante i rapporti più o meno freddi con i compagni di scuola, era cresciuto come una persona interessante, piena di spirito, salda nei propri princìpi, dall’ingegno versatile e dalla sensibilità spiccata.

    Negli ultimi anni, tuttavia, le cose avevano inspiegabilmente cominciato a prendere una piega diversa…

    Immerso in questi pensieri, Andrea camminava sotto il sole ottobrino di mezzogiorno. Nonostante l’autunno fosse già avviato, il clima si presentava piuttosto caldo e umido. Era possibile addirittura scorgere un accenno di tremolio sul manto stradale, a testimoniare che il sole non voleva ancora saperne di allentare la propria morsa sulla terra di Sicilia. Le foglie, comunque, cominciavano a cadere e gli alberi si spogliavano lentamente dei loro variopinti ornamenti.  

    Il caldo quasi torrido, i rami secchi e nodosi, gli alberi nudi uniti al silenzio tombale che regnava nelle strade di periferia, rendevano l’incedere di Andrea piuttosto inquietante. Persino il flebile rumore delle suole che picchettavano sul marciapiede dissestato sembrava assordante, come quello di un martello da fabbro che batte incessantemente nel tentativo di piantare un chiodo in uno spesso asse di legno. Pareva quasi che quel chiodo lo stessero piantando dentro il suo cranio.

    Dovette fermarsi. Si tastò la fronte: cominciava a sudare freddo; ed era sicuro di essere pallido come un fantasma.

    -Che diavolo mi è preso adesso?! Ci mancava solo l’attacco di ipotensione. Grazie Dio, eh! La mia vita fa già schifo dal punto di vista sociale, lavorativo e sentimentale… all’appello mancava solo la salute! Eh la miseria, a volte credo di essere un concentrato vivente di sfiga! E che ca…

    Non ebbe il tempo di terminare il turpiloquio che la testa cominciò a girargli; la lingua si seccò e sentì sopraggiungere un forte senso di nausea.

    -Ok Andrea. Sta calmo. Ma si può sapere che hai mangiato stamattina?, disse a se stesso nel tentativo di sdrammatizzare la situazione. Ma le cose continuarono a peggiorare: il capogiro si trasformò in un vero e proprio vortice.

    Proprio come i colori nella tavolozza di un eccentrico pittore, le sue percezioni iniziarono a confondersi: odori, suoni, colori, contorni e volumi venivano risucchiati e ricombinati in forme del tutto nuove.

    Ma Andrea, il cui Super-Ego era sempre sin troppo vigile, non voleva saperne di arrendersi e assistere passivamente a quello che aveva tutta l’apparenza di un trip allucinogeno spontaneo. Non aveva mai fatto uso di droghe… anzi le aborriva, a causa del loro effetto più devastante: privare l’uomo del controllo razionale sui propri istinti.

    E se non si trattava di un trip, allora l’unica alternativa possibile era l’esperienza mistica; cosa che, a dire il vero, lo avrebbe irritato ancora di più: aveva sempre avuto a che fare con sedicenti uomini di Dio che affermavano di essere stati rapiti nello spirito, di aver ricevuto visioni o di aver udito profezie, e diventare uno di quegli esaltati sarebbe stato un colpo fin troppo duro alla sua dignità.

    -Tutte balle colossali. E nel caso Dio esistesse e volesse incontrarmi, non mi lascerei mai scappare l’occasione di fargli due domandine scomode… e per farlo, mi serve il pieno controllo sulle mie facoltà intellettive. Quindi, non mollare, Andrea. Resta in te!.

    L’emicrania, tuttavia, cominciò a farsi insopportabile. Il vortice iniziò a roteare a velocità inconcepibile, inarrivabile per le limitate capacità dell’occhio umano: sembrava che tutto l’universo, e Andrea insieme ad esso, venisse inesorabilmente attratto da un unico punto nero che inglobava ogni cosa al suo interno. Buffo come, in un momento del genere, ad Andrea venisse in mente il XXXIII del Paradiso, il canto in cui Dante sperimentava l’unione mistica con Dio. Una cosa, però, era certa: quello di Dante era un tuffo nella luce eterna e splendente, una luce che l’aveva colmato, anche se per poco tempo, dell’essenza di tutto l’universo; quello di Andrea era invece un tuffo nell’oscurità più profonda, e le tenebre gli stavano strappando tutte le poche certezze che possedeva, nonché la sua stessa coscienza. Alla luce di ciò, si poteva intuire che non fosse Dio quello che si apprestava ad incontrare… semmai, era il Diavolo.

    Sorrise ancora, soddisfatto e sorpreso della sua capacità di analisi anche in un momento come quello. Dopotutto, nonostante non avesse più toccato un libro dall’esame di maturità, la sua mente non era poi così fuori allenamento.

    Sorrise e si accasciò sul marciapiede deserto, con lo sguardo vitreo rivolto verso il cielo, soccombendo dopo una strenua lotta per non perdere il controllo sul suo corpo. Ma evidentemente il destino aveva in serbo altri piani per lui.

    Continuava a fissare il cielo, mentre la sua vista si annebbiava e il respiro si faceva più affannoso. Il corpo non rispondeva più ai comandi del cervello, che lentamente si stava spegnendo. Tentò di emettere un ultimo grido disperato, ma le corde vocali non vibrarono: era la fine? Forse era questo che il fato aveva preparato per la sua misera vita: un’esistenza insulsa e dannatamente breve, tanto crudele da strapparlo via dal soggiorno su questa terra senza aver nemmeno provato l’amore di una donna, il calore del suo corpo, i suoi sussurri di passione. Ma no, che cosa andava a pensare. Conoscendo se stesso, sapeva che la sua vita non avrebbe mai esperimentato una svolta, un epocale cambio di rotta: sarebbe morto vecchio, abbandonato e ripudiato dalla società, esalando l’ultimo suo respiro in una squallida casa di riposo, soffocando atrocemente prima di chiudere per sempre il sipario della sua esistenza, prima di essere inghiottito nella fitta tenebra, nella più profonda e nera solitudine, nel nulla infinito. 

    Morire in quel momento, ancora nel pieno delle proprie forze, in fondo non è che gli dispiacesse più di tanto. Magari avrebbero celebrato un funerale commovente, a cui avrebbe partecipato tutto il parentato e, chissà, anche i vecchi compagni di scuola. Avrebbero letto Urlo di mezzanotte, la poesia che all’età di nove anni aveva scritto per sfogare la sua rabbia dopo un acceso litigio con la madre. Lo avrebbero compianto e ne avrebbero dipinto un ritratto eroico, elogiandone le virtù e tacendo minuziosamente – e forse inconsciamente, come d’altronde accade in tutti i funerali – i suoi innumerevoli difetti. Sarebbe morto con dignità, e il suo ricordo sarebbe rimasto indelebilmente scolpito nel cuore di tutti coloro che lo avevano conosciuto, amato e odiato. Sarebbe sopravvissuto nella memoria, avrebbe sconfitto la morsa della morte, avrebbe eluso l’ineluttabile falce della nera mietitrice. Certo, quando il Foscolo affrontava, solenne, il tema della sopravvivenza dopo la morte, non era la sola corrispondenza d’amorosi sensi a farla da padrona. Anzi, il ricordo dei cari era solo il gradino più basso ed elementare della lunga scala che conduceva al raggiungimento della vita eterna. Andrea ricordò della prima volta in cui aveva letto I Sepolcri e di come fosse rimasto affascinato dalla descrizione della fama eterna dei grandi uomini, coloro il cui ricordo sopravviveva non solo nella memoria dei propri cari rimasti in vita ma anche nell’immaginario collettivo delle generazioni successive: uomini che avevano vissuto all’insegna del coraggio, dell’intraprendenza, dell’arte, dell’impegno civile, del servizio per i più deboli o per la propria patria. Oh, quanto avrebbe desiderato essere annoverato nella schiera degli uomini Immortali. Ma di una cosa era sicuro: la vita, con le sue delusioni, sfortune e fatalità, gli aveva prepotentemente e definitivamente sbarrato la strada verso l’immortalità. Quindi poteva morire sereno. Il futuro non gli offriva alcuna prospettiva… anzi, la prospettiva più dignitosa tra quelle che gli si paravano davanti era proprio la morte.

    Perciò si abbandonò totalmente nelle sue mani, l’abbracciò, si lascio cullare dalle sue ossute braccia, assopendosi nell’udire le note della sua macabra ninna nanna, mentre l’oscurità calava nei suoi occhi e nella sua mente.

    3. WAITING FOR THE WORMS

    E poi aprì gli occhi…

    Quello che vide non furono fiamme e satanassi, né tantomeno nuvole e putti michelangioleschi. A dire il vero, non s’aspettava nulla del genere: era sicuro che la religione si sbagliasse e che l’anima non fosse immortale, bensì inscindibilmente connessa alle funzioni cerebrali. Gli sovvennero le parole del suo autore latino preferito, Lucrezio, il poeta dell’epicureismo: l’uomo non deve temere la morte, poiché quando noi siamo non c'è la morte, e quando c'è la morte noi non siamo. 

    Certo, ma allora come spiegava la sua coscienza, la sua capacità di pensare logicamente, il bagaglio di ricordi che continuava a portare con sé? Evidentemente Lucrezio aveva torto!

    E così anche tutte le religioni da lui conosciute, a meno che qualcuna non postulasse che l’aldilà avesse tutta la parvenza di un aeroporto affollato.

    -Ultima chiamata Alitalia, volo AL1873. I passeggeri Lussac e Culombi sono pregati di raggiungere immediatamente la postazione d’imbarco. Ripeto…

    Cavoli, quello era davvero un aeroporto! Come doveva interpretarlo? Forse Caronte si era messo al passo coi tempi e aveva deciso di prendere la licenza di pilota d’aerei! Andrea rise di gusto e si diede un autocinque per la battuta semplicemente geniale.

    -Peccato che tra i vivi nessuno potrà più godere del mio senso dell’umorismo!.

    Fece per guardarsi intorno.

    -Macché, non mancherò a nessuno! Forse, a stento, solo ai miei genitori. Poverini, dev’essere dura sopravvivere al proprio figl…

    Si guardò intorno, poi si voltò. Non completò la frase.

    -Ma… ma… ma… che…

    Andrea trasalì. Dietro di lui si stagliavano le inconfondibili figure dei suoi genitori.

    Impallidì. Il suo colorito, la sua espressione, il suo sguardo erano cadaverici. Sarebbe crollato a terra con un arresto cardiaco, se non fosse già stato bello che defunto.

    Cercò di riprendere il controllo di se stesso. Deglutì ed emise un respiro profondo, tentando di emanare un qualsiasi suono di senso compiuto. I primi tentativi furono vani. Poi, balbettando con voce flebile, riuscì a domandare:

    -Mamma, Papà: che cosa ci fate voi qui…?

    Attese in silenzio la risposta, col cuore che batteva all’impazzata. Erano morti anche loro? E per giunta nello stesso momento? Certo, in teoria sarebbero potuti rimanere entrambi vittime di un incidente stradale, magari proprio un attimo dopo la sua morte. Ma coincidenze del genere sono così rare e improbabili che accadono solo nei libri di fantascienza. E quella invece era la realtà.

    Ergo, che caspita stava succedendo?

    Mentre questi e altri interrogativi tenevano febbrilmente occupate le sue sinapsi, lui continuava ad aspettare la risposta con gli occhi spalancati e col fiato sospeso. Ma nulla. Zero. Era come se non sentissero la sua voce. Provò a ripetere la domanda a voce più alta. Ancora niente. Quindi si mise a urlare come un forsennato, ad un volume tale che tutta l’ala destra dell’aeroporto avrebbe dovuto sentirlo. Ma nulla. A quel punto decise di tentare il tutto per tutto: si mise a correre e scavalcò il bancone del check-in, con un’agilità che non gli era sicuramente peculiare… dopotutto era morto, e la sua anima era sicuramente più leggera di quel corpo in sovrappeso che nei venticinque anni precedenti aveva imparato ad odiare. Strinse tra le mani l’interfono e con tutta la voce che aveva in gola gridò:

    -Mamma, Papà, mi sentite?.

    Attese immobile, col cuore in gola per cinque lunghissimi secondi. Poi una voce ruppe il silenzio.

    -Avanti il prossimo.

    La receptionist lo aveva totalmente ignorato. Nessuno della sicurezza era venuto a portarlo via. Nessuno dei presenti in aeroporto sembrava aver anche solo percepito la sua voce.

    Andrea si arrese, e sbuffò. Si sedette sul bancone e si rese conto che la signorina Anna – così affermava il cartellino che una spilla teneva ancorato sul suo colletto, a sinistra del prosperoso décolleté – riusciva a vedere attraverso il suo corpo.

    Un’idea gli balenò per la mente: che fosse diventato un fantasma? Certo, magari la sua anima era rimasta intrappolata in una sorta di limbo, un luogo di sospensione in cui sarebbe stata costretta a vagare senza posa per tutta l’eternità.

    Per un secondo gli passò per la testa che la cosa avrebbe avuto i suoi vantaggi. Tipo spiare tutte le belle turiste giapponesi – eh già, Andrea aveva un debole per le ragazze orientali – nei bagni delle donne. Ma bastarono pochi istanti a fargli realizzare lo squallore del suo proposito: come poteva, in una situazione del genere, sprecare anche un solo preziosissimo neurone per le sue piccole grandi perversioni? No, doveva pensare a un modo di uscire da lì. Doveva sapere che ci facevano i suoi genitori. Doveva…

    Sì, ma come? Forse non c’era via d’uscita. Forse era necessario che qualcuno, nel regno dei vivi, facesse qualcosa per liberare la sua anima. Magari avrebbe dovuto contattare un medium, o meglio ancora se un bambino in grado di vedere la gente morta, e chiedergli di fare qualcosa per lui. Ma cosa?!

    Poi ebbe l’illuminazione. Ripensò a sua nonna materna e alla musicassetta che stava ascoltando il giorno prima. Era la predicazione di reverendo americano – coadiuvato da un traduttore simultaneo piuttosto scadente – a proposito di un passo della Bibbia, Marco 9:48.

    Guai a coloro che saranno gettati nella Geenna del fuoco, dove il loro verme non muore mai e il fuoco non si spegne.

    Il pastore interpretava il versetto metaforicamente. L’Inferno non era da intendersi materialmente come un luogo molto caldo, in cui le anime vengono torturate dalle fiamme e rosicchiate dai vermi. E come dargli torto? Sarebbe stato un controsenso assurdo: come potrebbe l’anima, per definizione immateriale, provare dolore fisico?

    Piuttosto, lo stagno di fuoco e di zolfo andava interpretato come uno stato spirituale e mentale: un loop eterno in cui il peccatore continuava a rivivere all’infinito tutte le occasioni sprecate di accettare Gesù come personale salvatore. Ovviamente Andrea, che aveva sviluppato uno scetticismo piuttosto marcato nei confronti della religione, non aveva mai creduto a una sola delle parole pronunciate da quel vecchio fondamentalista cristiano. Ma adesso era morto. E si trovava in un aeroporto. Insieme ai suoi. Doveva contemplare tutte le possibili soluzioni a un rompicapo che si faceva sempre più inestricabile. Decise dunque di dar credito, almeno per assurdo, alla tesi dell’Inferno. Non riusciva tuttavia a ricordare nessuna occasione in cui avesse deciso di rinnegare Cristo in un aeroporto. E comunque era più propenso a fornire un’altra interpretazione alla questione del verme che non muore: forse la Geenna era effettivamente uno stato mentale di loop, ma non aveva a che fare con la religione. Non con il rimpianto di aver rigettato la grazia divina, ma con il rimpianto in generale.

    L’anima non riesce a trovare la pace eterna e tornare nel nulla perché qualcosa la lega ancora a questa terra e a questo corpo terreno. E quel qualcosa è un rimpianto per una chance gettata al vento, l’impossibilità di accettare un fallimento, la disperazione per aver lasciato la propria opera incompiuta. Non era Dio il giudice dell’anima umana, né Satana il suo castigatore: l’uomo faceva tutto da sé.

    Secondo questo assunto, Andrea stava rivivendo, e sarebbe stato destinato a rivivere per sempre un ricordo. Il ricordo di quando, in aeroporto, aveva sprecato una grande occasione.

    Scese dal bancone e cominciò a camminare avanti e indietro sul nastro trasportatore dei bagagli da imbarcare. L’aria assorta, le braccia conserte, il mento all’insù: stava impiegando ogni singola risorsa cerebrale per richiamare alla memoria un ricordo con simili caratteristiche. Si grattò la testa, poi la prese a pugni, infine fece per strapparsi i capelli… ma nulla! Era come se non avesse mai vissuto quella situazione. Certo, era già partito altre volte. Ma sempre di mattina presto, e sempre insieme ai compagni di scuola oppure alla professoressa che lo accompagnava alle gare di latino che si svolgevano ogni anno in Friuli. Questa volta, invece, la luce del sole era tenue e i suoi riflessi nelle vetrate dell’aeroporto lasciavano intuire che fosse pomeriggio. Più o meno le quattro. E poi con lui c’erano solo i genitori. Possibile che avesse scordato un evento tanto importante?

    Poi rifletté e intuì: sarebbe potuto risalire all’evento dimenticato attraverso la data. Certo, le possibilità di riuscita erano piuttosto scarse: come può una data, elemento di solito secondario, riportare alla mente un’occasione che non si ricorda? Tuttavia valeva la pena di tentare… e poi doveva pur impiegare il resto dell’eternità in qualche modo!

    Si alzò e bussò timidamente con l’indice sulla spalla della signorina Anna.

    -Certo che sono proprio un idiota! Quella non mi sente.

    Armatosi di saggezza popolare, e ripetendo con solennità il motto Chi fa da sé fa per tre, si piazzò accanto alla receptionist e osservò attentamente il desktop del suo pc, nella speranza di trovare le informazioni che cercava: fu soddisfatto solo in parte. Aveva indovinato l’orario: erano le quattro e un quarto del pomeriggio. Tuttavia, nessuna traccia della data. Frustrato e irritato, impotente di fronte alla circostanza, si lasciò andare a un gesto di stizza e batté i pugni sopra il tavolo. Ovviamente Anna non reagì. Ormai al limite della pazienza, tentò di sollevare il monitor e gettarlo per terra, con l’intento di attirare l’attenzione di qualcuno. Ma fu tutto vano: quello schermo sembrava incollato alla scrivania.

    -E da quando in qua i monitor sono così pesanti?! Forse nell’aldilà sono rimasti un po’ indietro con la tecnologia!, disse a se stesso con amara ironia.

    Quindi pensò che agitare una semplice penna fosse il modo più pratico di farsi notare. Allungò la mano verso il taschino frontale del tailleur della prosperosa signorina Anna, nel quale era riposta una biro con la sigla della compagnia aerea. Ma si ritrasse subito: in realtà si sentiva un tantino imbarazzato e arrossì non poco, sorprendendosi di come la sua normale capacità di provare attrazione sessuale non fosse scemata per niente, nonostante fosse morto. Scosse veementemente il capo, quasi per scrollarsi di dosso quel pensiero che, come una sanguisuga, privava il cervello di sangue e lucidità.

    Riprese dunque nel suo intento, più determinato che mai, e con eroica risoluzione afferrò la penna. Fece per tirarla fuori dal taschino ma, con sua grande sorpresa, anche questa sembrava incastrata. Ritentò, questa volta facendo le cose per bene: inspirò, contrasse i muscoli, espirò e tirò con tutta la forza. Nulla. Ma non si diede per vinto: salì sul bancone, si abbassò e impugnò la penna con entrambe le mani.

    -Esci, maledetta! Esci!.

    E la penna non si mosse di un millimetro.

    La disperazione, tuttavia, non gli impedì di accorgersi dell’ilarità della situazione. Si avvicinò all’interfono e annunciò diplomaticamente:

    -A.A.A. Cercasi Re Artù per estrazione penna dalla tasca.

    Ma siccome di Re Artù non c’era nemmeno l’ombra e la sua battuta faceva pena, si impadronì di lui l’istinto irrefrenabile di autopunirsi. Quindi cominciò a picchiare la testa sul bancone con tutte le sue forze ricordando a se stesso di quanto fosse idiota e incapace, ma anche sperando che un bel trauma cranico potesse far scattare un qualche misterioso ingranaggio nel suo cervello che gli permettesse di venire a capo di quella drammatica situazione. Manco a dirlo, gli unici effetti che sortì quella terapia d’impatto furono un grosso ematoma in fronte e un’emicrania infernale.

    Esasperato, e avendo ormai esaurito tutte le scorte di ottimismo, rimase con la testa appoggiata sul bancone, immobile e in silenzio. Provava uno strano conforto nell’ascoltare le voci dei passeggeri che mostravano il loro biglietto e i loro documenti. Tentare di indovinare la loro provenienza, distinguere i vari dialetti ed accenti, immaginare i loro volti e fantasticare sui motivi che li spingevano a volare verso chissà quale meta… in qualche modo, tutto questo riusciva a tenerlo occupato, distraendolo per qualche minuto dal dramma di cui era protagonista.

    Riuscì finalmente ad acquietarsi. Le palpebre cominciarono a tremolare come fiammelle investite dalla gelida tramontana. Ma, all’improvviso, qualcosa attirò la sua attenzione: qualcuno, una voce a lui familiare, stava singhiozzando. Spalancò le palpebre di scatto: nonostante fosse pomeriggio, la luce del sole accecò i suoi occhi che, quasi vinti dal sonno, si erano ormai adagiati nell’oscurità. Gli ci volle una dozzina di secondi perché la nebbia che gli offuscava la vista si diradasse e perché mettesse a fuoco lo sguardo sulla persona che si appressava al bancone. Alzò lentamente il capo e la prima cosa che scorse furono delle mani piuttosto tozze, le cui dita battevano ritmicamente sul bancone, imitando le bacchette di una batteria. Era un ritmo nervoso e spezzato, esageratamente infarcito di sincopi che lo rendevano quasi impossibile da seguire.

    Le braccia, scoperte per metà, erano snelle e ricoperte da una chiara peluria. Indossava una t-shirt azzurra mediamente attillata, che lasciava trasparire un fisico sicuramente non troppo in forma: le spalle erano strette e leggermente ricurve, i pettorali quasi per niente sviluppati.

    Mentre continuava a salire con lo sguardo, un senso di familiarità mista a nostalgica inquietudine si impossessava di lui, espandendosi e occupando ogni più remoto angolo della sua mente. Il cuore cominciò a battere con ritmo sempre più incalzante e serrato, la saliva si prosciugò come una stilla di rugiada sotto il nascente sole d’agosto, i muscoli si contrassero in una statuaria immobilità. Solo le pupille continuavano a muoversi, scalando con sempre maggiore consapevolezza e sofferenza il corpo di quel misterioso passeggero.

    L’ultima occhiata insù e poi… Silenzio. Il battito cardiaco, imbizzarrito come un purosangue alla vista di un poderoso fulmine, si era improvvisamente arrestato. Gli occhi fissi e inorriditi, il respiro paralizzato come un mulino olandese in una afosa e immobile giornata estiva.

    Ormai non c’era più possibilità di sbagliarsi. L’aveva visto. I suoi occhi avevano assistito alla materializzazione del suo presentimento e della sua più recondita paura. Davanti a lui si stagliava l’inconfondibile sagoma di se stesso.

    4. ZOMBIE

    Puro e incontaminato terrore. Era l’incontro che più temeva. L’aveva capito subito, nel momento in cui aveva incrociato lo sguardo del suo clone: spento, vitreo, perso nel vuoto. Le sopracciglia innaturalmente corte, come le avesse da poco rasate, contribuivano a rendere funesto e cinereo quel volto cadaverico. Era come se il corpo fosse lì davanti a lui, ma la sua anima fosse svolazzata via, fuori dal suo involucro terreno. Gli vennero in mente le dissertazioni mediche della sorella: sembrava in preda a una crisi di assenza. Se fosse uno zombie? Dopotutto, Andrea si trovava in un aldilà che aveva tutta la parvenza di un aeroporto, in cui lui poteva vedere tutti, ma nessuno poteva vedere lui… Insomma, di cose assurde e incredibili ne aveva già viste abbastanza, cosicché tirare in ballo morti viventi, proiezioni astrali o cadaveri alla ricerca della propria anima perduta non sembrava poi così improponibile.

    Ma dovette ricredersi: il suo clone era vivo e vegeto. I suoi occhi rimanevano sospesi in chissà quale altra realtà, ma la smorfia che le sue labbra mostrarono nello sbuffare fu rivelatrice di un profondo conflitto. Un conflitto che, almeno così sembrava ad Andrea, infuriava nelle profondità della sua coscienza. Proprio così: non era solo biologicamente vivo, ma era presente anche il suo bagaglio di emozioni, sentimenti e pensieri razionali. 

    Questo non gli fu di conforto: a dire il vero, avrebbe preferito aver a che fare col suo cadavere affamato della propria anima, piuttosto che fronteggiare una copia esatta di se stesso. Il suo incubo più spaventoso, la sua ossessione più disturbante, la sua paura più tremenda… tutto ciò si trovava ad un palmo dal suo naso. E che shock rendersi conto le cose che maggiormente temiamo sono quelle che crediamo di conoscere meglio. Ciò che ci fa tremare è la paura di scoprire che questa conoscenza non sia poi così profonda come pensiamo. Temiamo di affrontarle a viso aperto, perché ci atterrirebbe vederle straniate, sotto una luce nuova e deformante, che ne mini le certezze e sconvolga il precario equilibrio sul quale abbiamo edificato l’intero edificio della nostra persona.

    Vedere se stesso, quel se stesso, ebbe per Andrea l’effetto di una folata di vento dell’est: abbatté il castello di carte che aveva costruito negli ultimi sei lunghi anni, facendone collassare le fondamenta, un etereo strato di finissima sabbia a coprire una sconfinata e abissale voragine.

    Di fronte a sé aveva il Mr. Hyde da cui il Dr. Jekyll fuggiva disperatamente e che aveva tentato in tutti i modi di negare a se stesso, il ritratto che Dorian Gray aveva accuratamente sigillato in soffitta, la madre di Norman Bates con il suo coltello grondante di sangue.

    Andrea doveva affrontare il peggiore tra gli antagonisti, il più sadico tra i torturatori, il più spietato tra i boia: il suo subconscio.

    Fino a quel momento aveva vissuto di bugie. Bugie che riempivano le voragini lasciate nella sua coscienza da un selvaggio processo di rimozione. Bugie provvidenziali, che lo avevano salvato dall’altrimenti inevitabile follia.

    Bugie che aveva edificato come fortezze per nascondere e dimenticare la verità. Ma la verità vien sempre a galla. E quando lo struzzo tira fuori la testa dalla sabbia, quando il saggio esce dalla caverna dell’oscurità e dell’auto-mistificazione… si sa, gli occhi fanno male. Bruciano perché non riescono a reggere quella stessa luce che avevano volontariamente rifuggito per un’intera vita.

    Ma la domanda è: quanta verità riusciamo a reggere?

    Beh, Andrea non ne reggeva neanche un po’. E per questo aveva costruito una variopinta e complessa maschera di scusanti e fantasiose giustificazioni.

    L’alienazione? Tutta colpa della periferia e dell’unghia incarnita. La frustrazione lavorativa? Da imputare alla penuria di lavoro e alla crisi economica. La magra vita sentimentale? Le donne cercavano solo uomini prestanti e ricchi. Il caratteraccio scontroso e apatico che si ritrovava? Oh, la vita era stata dura con lui.

    Tuttavia, guardando negli occhi di se stesso, come in un riflesso allo specchio, sentiva che quelle impalcature stavano finalmente crollando. Cresceva in lui un presentimento… un presentimento che si faceva sempre più opprimente. Più i secondi passavano, più Andrea capiva che quel presentimento era destinato a divenire realtà. Se il suo subconscio, quello che lo stava facendo tremare di paura senza apparente motivo razionale, avesse avuto ragione, presto, prestissimo sarebbe stato svergognato dall’amara verità. Una verità scomoda, che aveva richiesto tutte le sue risorse mentali per essere sminuita e addirittura dimenticata.

    Senza apparente motivo, il suo clone ebbe un attimo di esitazione, un istante di tentennamento, un indugio nell’infilare la mano nello zainetto da viaggio…

    Chiuse gli occhi, emise un profondo respiro e li riaprì. Ma stavolta in quello sguardo c’era qualcosa di diverso. Vi ardeva un fuoco che Andrea non seppe decifrare. Era volontà? Risoluzione? Spirito di sacrificio? Orgoglio?

    Poi l’imprevedibile. Il misterioso gemello torse lievemente il collo. Aggrottò le sopracciglia e aguzzò lo sguardo, quasi in segno di sfida. Infine le sue pupille si mossero: la signorina Anna non era più l’oggetto della messa a fuoco. Stava guardando accanto a lei. Aveva incrociato lo sguardo di Andrea. L’incontro di sguardi durò poco più di un secondo, ma ad Andrea parve un’eternità. Il suo clone l’aveva visto! Ne era certo. Non poteva essere altrimenti. Puntare il vuoto oppure un moscerino con un’occhiata così ardente e traboccante di indecifrabili passioni sarebbe stato del tutto insensato. No, lui sapeva dell’esistenza di Andrea. Voleva forse lanciargli un messaggio in codice? Voleva sfidarlo?

    La testa iniziò a pulsare. Troppe emozioni, troppi dubbi, troppi misteri insoluti… troppo affinché potesse essere sopportato tutto in una volta. Il capogiro si rimpossessò di lui, e sentì rinascere l’impulso di nausea che lo aveva colpito poco prima che stramazzasse al suolo sul marciapiede di periferia.

    Non venne meno. Ma, perdio, quanto l’avrebbe desiderato.

    Sentiva che lo sguardo del suo clone era l’atto definitivo… il destino, o chi per lui, aveva sentenziato. Il braccio dell’altro Andrea, improvvisamente riempito di rinnovato vigore, estrasse dallo zaino una cartellina trasparente. Il velo di Maya che, celando il vero, tutto di illusioni illanguidisce stava per essere rimosso.

    Calò il silenzio in aeroporto. Unico rumore lo scrosciare dei fogli tra le mani del passeggero. Allungò le mani… era la carta di identità. Poi porse ad Anna due fogli sgualciti, pinzettati in alto a sinistra.

    -Benissimo, signore, è tutto in regola. Le auguro un buon viaggio.

    Andrea impallidì. Il colpo di grazia era stato affondato. Sul foglio tra le mani della signorina Anna, leggeva:

    "Data: 16/10/2013.

    Volo: AZ3694.

    Destinazione: New York

    Sola andata."

    Vomitò. Si sentì come travolto da un treno, investito da un tir. E lui giaceva lì, sul lastricato della sua vita, inerme e schiacciato. Poteva sentirle di nuovo… le mani ossute della morte. Le sue unghie, come bisturi tremendamente affilati, gli praticavano un’incisione su tutta la circonferenza del cranio, all’altezza della fronte. Riusciva a percepire il fremito d’eccitazione nelle dita scheletriche mentre, con forza bruta e inaudita, scoperchiavano il suo teschio come una scatoletta di tonno. Udiva chiaramente la sua risata sadica e maligna, mentre un’enorme mole di dati veniva riversata nella sua teca cranica, comprimendo ferocemente il cervello indifeso. 

    Cadde rovinosamente ai piedi del bancone. Urlò, in preda a selvagge convulsioni. Nessuno l’udì, nessuno gli prestò soccorso, nessuno lo confortò: giaceva lì, da solo, come un pluriassassino che sconta la sua pena sulla sedia elettrica tra l’indifferenza di parenti e amici, dimenticato dal mondo.

    Poi le scariche diminuirono, e le convulsioni si acquietarono. Come viscide lumache, l’unica traccia del loro passaggio era la schiuma che grondava abbondante dalle sue labbra. L’espressione di dolore si era gradualmente mutata in un sorriso inebetito, di totale stordimento e beatitudine. Gli occhi chiusi, supino, con le braccia larghe e le gambe divaricate, sembrava un bimbo che si dilettava ad imprimere col proprio corpo la sagoma di un angelo sul candore della neve.

    -Ok, vado subito verso l’imbarco. Grazie mille, arrivederci.

    La sua stessa voce lo trafisse come un fulmine a ciel sereno. Spalancò gli occhi, che, fissi verso il tetto fatto di travi d’acciaio e pannelli di vetro, si rigavano di venature rosso fuoco. Non pianse, sopportò in silenzio. Sopportò il peso della verità che adesso, per la prima volta in piena coscienza e a mente lucida dopo lo shock, gli si rivelava in tutto il suo epifanico potere devastatore.

    La verità. Come aveva potuto dimenticare? Com’era potuto cadere nella trappola dell’autogiustificazione e dell’autocommiserazione? Come aveva potuto occultare, consapevolmente e inconsapevolmente, nei recessi del proprio inconscio quelle tremende parole che non voleva sentirsi dire?

    Le sentì risuonare nella propria testa, solenni e inappellabili come la sentenza di un giudice imparziale:

    "Andrea, tu e solo tu sei stato l’artefice del tuo destino. Non è stata la vita a negarti la possibilità di entrare nella schiera degli Immortali. Tu e solo tu hai buttato al vento l’occasione che la vita ti aveva generosamente concesso. Le parche non possono più riavvolgere il filo del destino, né Crono può concederti di tornare indietro a quel fatidico giorno di sei anni fa. Oh, se solo allora non ti fossi lasciato illanguidire, se avessi mantenuto salda la tua determinazione… Ma è inutile piangere sul latte versato. Una volta presa quella decisione hai per sempre sbarrato qualsiasi porta alla possibilità di diventare qualcuno, di ottenere fama e notorietà, di essere ricordato dal mondo intero. Sapevi che la vita che hai scelto, anzi, la vita che hai scelto di non cambiare, ti avrebbe condotto a un’esistenza squallida e monotona… ma l’hai comunque scelta, sacrificando a testa bassa i tuoi sogni di gloria, le tue aspirazioni, la tua determinazione a diventare un uomo maturo e realizzato.

    Quindi smettila di incolpare il destino. Il destino non si fa da sé: sei tu a scriverlo. L’unica persona a cui è imputabile la colpa di averti trasformato nell’essere miserabile e frustrato che sei diventato… lo sai, quella persona sei tu."

    Quanta verità riusciamo a reggere?

    Beh, Andrea aveva scelto di evitare di soffrire. Aveva scelto di non portare sulle spalle un peso che credeva di non riuscire a sostenere. Aveva deciso di barattare la verità per la propria sanità mentale.

    Se quello era l’Inferno, il Diavolo sapeva il fatto suo. Sapeva che l’uomo sopporta il dolore fisico. Anzi, visto la sua natura tremendamente testarda, il sacrificio del proprio corpo lo galvanizza e lo entusiasma, riempiendolo di orgoglio eroico. 

    Per questo, il demonio doveva aver deciso di puntare tutto su un’altra forma di tortura: quella psicologica. E a dirla tutta, funzionava benissimo. Perché ciò che più atterra, umilia, svuota e svilisce l’essere umano è il vedersi rinfacciare il proprio lato oscuro, quel doppio che aveva dimenticato e incatenato, dormiente, nelle segrete della sua mente.

    Ma Andrea aveva sopravvalutato Satana. Già, perché quell’aeroporto non era l’Inferno.

    E mentre il giovane diciannovenne Andrea, allontanandosi dal bancone, volgeva nuovamente il suo sguardo al vuoto, il venticinquenne cadeva in un sonno innaturalmente profondo.

    Per poi aprire gli occhi.

    Ruvida e appiccicaticcia… qualcosa di umido e caldo continuava a strofinare la rossa guancia di Andrea, con cadenza regolare e quasi ritmica. L’occhio destro si aprì timidamente e la prima cosa che si materializzò alla sua vista sfocata fu una lingua penzolante, stillante saliva in abbondanza. La riconobbe subito: era Poverina, la cagnetta randagia del quartiere. 

    Era una meticcia di taglia medio-piccola. Slanciata e agile, ciò che saltava all’occhio della sua elegante figura erano le orecchie, alte e forse un po’ sproporzionatamente grandi rispetto al viso snello e affusolato.

    I ricordi volarono a quella giornata di novembre di sette anni prima, quando la piccola Poverina, ancora poco più che cucciola, era apparsa dal nulla nello spiazzo antistante la schiera di villette accorpate in cui abitava Andrea con la sua famiglia.

    Decise dunque di abbandonarsi a quel ricordo, adesso stranamente vivissimo nella sua memoria.

    5. DOGS

    5 NOVEMBRE 2013

    -Denny, è tardissimo! Sbrigati, che questa è la volta buona che la Cataneo non mi fa entrare!, urlò Andrea, sulla soglia di casa. 

    -Ti tocca aspettare, non sono ancora pronta.

    -Fammi un favore… sparati! Non è giusto che per colpa tua mi debba beccare un otto in condotta.

    -Dai Andrea, non esagerare, intervenne mamma Daniela. Sai benissimo che i professori ti amano e che alla fine ti mettono dieci.

    -Bravissima, madre! Così si fa., incalzò Denise con tono soddisfatto e canzonatorio.

    -Aspetta un attimo, fammi finire…, soggiunse la mamma per correggere il tiro. Questo non vuol dire che tu sia giustificata a far ritardare tuo fratello! Datti una mossa, Denise!

    -Noi siamo già fuori, aspettiamo solo te, ripeté Andrea scocciato.

    -E va bene, va bene, scendo. Questa è una congiura: tutti contro di me. Per colpa vostra nemmeno il caffè posso prendere stamattina!, urlò la ragazza fuori di sé, evidentemente già in astinenza da caffeina.

    -Se ci svegliassimo tutti un po’ prima, al mattino, si eviterebbe questa farsa ogni santo giorno, li rimbeccò la mamma, che quando poteva non si lasciava sfuggire l’occasione di impartire una saggia ramanzina ai figli e spesso anche al marito. Da domani si cambia vita: sveglia alle 7 in punto e fuori di casa alle 7:30.

    -Mamma, il problema è solo di Denise, che ogni mattina perde mezz’ora in gabinetto!, tentò di discolparsi Andrea, desideroso di evitare il supplizio di dover dormire venti minuti in meno dal giorno successivo.

    -Non è vero, e lo sai. Chi è che ogni giorno prepara i libri da mettere nello zaino all’ultimo secondo? Tu, caro mio. Se Denise fosse la persona più puntuale del mondo, tu saresti comunque in ritardo.

    Andrea incassò il colpo, sbuffò e aspettò che madre e sorella varcassero la soglia per chiudersi alle spalle il cancelletto rosso di casa.

    Si dirigevano verso la macchina, posteggiata dieci metri più avanti, all’interno della quale li avrebbe dovuti aspettare il papà, a cui Andrea e Denise erano soliti rivolgersi come Franco. A chi chiedeva loro, stupito, il motivo per cui chiamassero loro padre per nome, essi rispondevano sempre: Perché non fa parte del mondo dei grandi!. Con il termine grandi intendevano, in pratica, la mamma e la nonna materna, che solitamente vestivano i panni delle guastafeste, quelle che proibivano loro di mangiare troppa cioccolata e li obbligavano a uscire conciati come un pupazzo di neve nelle giornate d’inverno più fredde. Franco invece no… lui era sempre stato un discepolo del vivi e lascia vivere e per questo i ragazzi si sentivano accomunati a lui da una sorta di spirito di fratellanza, che spesso si trasformava in divertita complicità in occasione di piccole grandi trasgressioni, come la condivisione in massima segretezza di un vasetto di Nutella o di una vaschetta di patatine.

    Insomma, mamma e figli si avviarono verso la macchina ma si accorsero che questa non era in moto. Presto si resero conto con notevole perplessità che Franco, chinato su se stesso, era impegnato a parlare con qualcuno che l’ingombrante cofano della Lancia Kappa blu metallizzata impediva loro di scorgere. In men che non si dica, sbucò da sotto la macchina, dove era accucciata con l’intento di ripararsi dal freddo, una cagnetta dal pelo raso, nero e nocciola, mai vista prima nel vicinato.

    -Che poverinaaa!, furono le prime parole che gridò Denise, impietosita dalla tenera bestiola.

    Era visibilmente denutrita e intirizzita dal freddo, ma questo non le impedì di correre giovialmente verso la famigliola e fare loro le feste. Stupiti e sbalorditi dal calore e dall’affettuosità di questo misterioso cane, mansueto e per nulla diffidente, Denise e Andrea cominciarono ad accarezzarle il capo e il mento, dimenticandosi totalmente della lite di un attimo prima. Anche la mamma si unì a loro e a lei la cagnetta decise di dare per prima la zampa. L’aria della piccola era improvvisamente cambiata: da festosa si era improvvisamente fatta seria, come se con Daniela stesse stipulando una sorta di patto solenne e indissolubile.

    I tre si guardarono stupiti e divertiti e decisero di attribuire a quella simpatica cagna dalle enormi orecchie perennemente tese proprio il nome di Poverina, pensando tuttavia che, come la maggior parte dei randagi che gironzolavano nel quartiere, fosse lì solamente di passaggio e che alla sera non l’avrebbero più trovata.

    Si sbagliavano. Al loro ritorno Poverina era esattamente dove l’avevano lasciata! Entusiasti, Andrea e Denise la invitarono a seguirli fino a casa, dove avevano in programma di deliziarla con un piatto pieno di avanzi del pranzo preparato dalla nonna. Ma la cagnetta era visibilmente strana, non riusciva ad alzarsi. Tentava di sollevarsi sulle zampe, ma queste non reggevano e lei continuava a crollare al suolo. Ciò preoccupò sensibilmente non solo i ragazzi, ma soprattutto mamma Daniela che, con Poverina, sembrava aver stabilito un legame particolarmente forte. Le preparò lei stessa il latte caldo con i biscotti che Andrea le andò a portare in un piattino di plastica. La cagnetta, alla vista del pasto caldo e appetitoso, riuscì ad alzarsi piuttosto a fatica e cominciò a mangiare di gusto quell’intruglio che le avrebbe restituito vigore e forza.

    Da quella sera, furono chiare due cose: in primis, che Poverina non li avrebbe più abbandonati; in secundis, che questa non stava per niente bene. Non ci vollero molti giorni, infatti, affinché Daniela notasse l’insolita dimensione dei capezzoli della piccola. Sembrava quasi che…

    Cercò di scacciare via il pensiero. Ma la crescita si faceva sempre più evidente e la donna fu costretta a prenderla in seria considerazione. Lo fece notare a Denise, che non aveva esperienza veterinaria ma era comunque studentessa al sesto anno di Medicina e Chirurgia. La ragazza non si allarmò subito: era possibile si trattasse di un fenomeno piuttosto diffuso nel regno canino, la gravidanza isterica, durante la quale si manifestano tutti i segni della gestazione senza che la cagna sia effettivamente in dolce attesa.

    Ma il responso della visita veterinaria fu inequivocabile: Poverina, che si scoprì avesse appena un anno di vita, era incinta. Alla luce di ciò, sembrava quasi che gli eventi del loro primo incontro si fossero caricati di un altro significato. Lei li aveva scelti: aveva scelto quella famiglia affinché si occupasse dei suoi cuccioli, salvandoli da una morte certa nelle gelide strade invernali di periferia. Daniela fu particolarmente commossa da ciò: sentiva che quella stretta di zampa rappresentava una sorta di cenno d’intesa, come se Poverina le avesse voluto dire: Solo tu puoi capire come mi sento. Affido la mia vita e quella dei miei piccoli nelle tue mani di mamma.

    Così, nonostante in quella casa ci stessero già stretti senza cani, decisero tutti insieme di prepararsi all’imminente parto, acquistando una cuccia e sgomberando il salone dai mobili a cui la mamma teneva quasi maniacalmente.

    Poi, all’improvviso, nella notte tra il 29 e il 30 dicembre 2012, un gemito attirò l’attenzione di Andrea, che assonnato si apprestava a visitare la cucina, adiacente al salone: prima di andare a letto, aveva infatti l’abitudine di compiere dei gesti di routine, quali lavarsi le mani, bere un sorso d’acqua e fare una capatina al bagno.

    Con passo incerto e il cuore che gli batteva a mille, si diresse verso la porta in legno, laccata di bianco, al di là della quale era stata sistemata la cuccia in cui Poverina, pur essendo abituata al randagismo, aveva la possibilità di passare al calduccio le notti della gravidanza. Poggiò la mano sinistra, tremante come un sonaglino tra le dita di un bimbo, sulla maniglia dorata, e l’abbassò lentamente. Poi sbirciò, con il solo occhio destro, attraverso la fessura che aveva aperto. Ciò che vide lo commosse e lo segnò per sempre. Un cucciolo dall’aspetto di un criceto spelacchiato piangeva e gemeva, con gli occhietti chiusi, mentre Poverina gli puliva il pelo con trasporto materno e senza il minimo segnale di sofferenza – nulla a che vedere con le urla che si sentono durante un parto umano, pensò Andrea sorpreso.

    Non passò molto – giusto il tempo che Andrea cominciasse a urlare, radunando tutta la famiglia – che arrivò il secondo. Ma questa volta le cose si presentavano più complicate del previsto: Poverina era visibilmente stanca e temporeggiava pericolosamente nello spaccare a morsi la placenta che inglobava il cagnolino appena partorito. Il tempo passava, ma la cagna non interveniva e il cucciolo cominciava a dimenarsi sempre meno: la piccola creatura rischiava di morire soffocata. Andrea non ci pensò due volte: indossò un paio di guanti in lattice (quelli che si trovano nei kit di tinture per capelli fai-da-te) e, con cautela e delicatezza, lacerò l’involucro della placenta, aprendo uno spiraglio vitale per il cucciolo. L’emozione che provò in quel momento non l’avrebbe mai rivissuta… aveva

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