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Lo Spirito del lago
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Lo Spirito del lago
E-book416 pagine4 ore

Lo Spirito del lago

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Info su questo ebook

Nella comatosa cittadina di Villa Reso, l’improvvisa e inspiegabile scomparsa della dottoressa Molteni lascia sconcertati i colleghi dello studio medico in cui lavora e scatena le malelingue dei residenti. Il dottor Guido Gubernatis, in particolare, si lascia coinvolgere suo malgrado nella ricerca della donna. La vita privata di quest'ultima, fin dall’inizio, appare più complicata di quanto Gubernatis potesse immaginare. Nelle sue involontarie indagini, l’uomo, improvvisatosi detective, si imbatte spesso nelle allusioni a una misteriosa leggenda popolare locale: quella di un fantomatico “Spirito del Lago” che infesterebbe un piccolo specchio d’acqua melmosa, circondato da boschi e canneti, situato a pochi chilometri da Villa Reso. Un luogo spettrale, isolato, ma apparentemente molto frequentato durante la notte. E non solo da fantasmi...
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2017
ISBN9788866904151
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    Anteprima del libro

    Lo Spirito del lago - Giancarlo Ibba

    Hitchcock

    MERCOLEDI’

    Ore 23.40

    Cosa ho fatto?

    Da quando era accaduto l’irreparabile, una decina di minuti prima, soltanto quella domanda rotolava giù per le chine impervie della sua mente: Cosa ho fatto? Oh, Gesù mio, cosa ho fatto?

    Lontano dalla riva fangosa del lago, l’ombra a cui apparteneva quell’angoscioso interrogativo si mosse contro la scenografia del cupo cielo notturno. Una sagoma resa indistinta dalla bruma che la bonaccia post temporalesca faceva stazionare, come un lenzuolo di vapore, sopra l’acqua melmosa e calma. In lontananza, oltre le fronde del folto bosco di pioppi, ancora qualche saetta sfregiava le nuvole gravide di pioggia. Il brontolio dei tuoni era ormai così distante, dietro il profilo lontano delle montagne, da essere inudibile.

    A gambe divaricate, l’ombra si sforzò di restare in equilibrio sulla traballante zattera: era fatta con tavole di legno consumato dall’esposizione alle intemperie, funi putride, chiodi e taniche di plastica. La vecchia piattaforma, poco più di due metri per tre, al mattino veniva adoperata da sporadici pescatori, il pomeriggio da adolescenti annoiati che fumavano canne dopo la scuola, la sera da audaci coppiette in calore in cerca di privacy. Durante la notte, invece, restava legata con una gomena logora all’unica bitta dello sgangherato pontile costruito negli anni Sessanta. Un molo simile a un nero indice scheletrico, che sembrava indicare il centro buio dell’anonimo lago di Villa Reso. Giravano inesplicabili aneddoti in paese su quello specchio d’acqua. Racconti macabri che, specie dopo il tramonto, tendevano a tenere la gente lontana.

    Imprecando, l’ombra immerse la pagaia nell’acqua torbida e si allontanò ancor più dal pontile incrostato di alghe, i piloni scuri e lucidi, come bagnati di petrolio. Ogni liquido colpo di pagaia era accompagnato da un singulto strozzato. Un pianto trattenuto.

    Lì accanto a lui, sulla zattera fradicia, a inclinarla un po’ di lato con il suo peso immobile, s’intravvedeva un’altra sagoma umana.

    Il corpo di una donna alta e magra. Prono. Braccia distese a V sopra la testa. Il seno abbondante, compresso dal peso del torace. I lunghi capelli rosso fuoco sparsi a ventaglio sul legno umido. Di fianco alle snelle caviglie unite, avvinte da numerosi giri di corda sottile di nylon, si trovavano due pesanti oggetti, grigi e squadrati. Blocchetti di cemento, ruvido, granuloso. Un capo della corda era legato agli anelli metallici di cui erano fornite le due ancore artigianali: prima di venire abbandonate sulla fetida sponda del lago, venivano utilizzate per ormeggiare piccole barche da pesca.

    Come un gondoliere ubriaco, senza mai smettere di gemere, pagaiando con un ritmo risoluto ma scomposto, l’ombra pilotò l’instabile battello fino quasi al centro esatto del lago. Ad appena duecentocinquanta metri dalla riva. Proprio in quel momento, una fetta di luna crescente, dello stesso colore di uno yogurt scaduto, occhieggiò attraverso uno squarcio nella coltre di nubi violacee.

    Pochi minuti alla mezzanotte.

    «C-Cosa ho fatto?» sussurrò l’ombra, balbettando, dando voce al suo pensiero. Immersa nella nebbiolina puzzolente di melma solforosa, alghe morte e pesci putrefatti, si guardò attorno. Quel movimento bastò a far dondolare la zattera che si ergeva sul pelo dell’acqua di quindici centimetri. Minuscole onde sciabordavano lente contro le taniche assicurate dal cordame sotto le fiancate.

    Da quella posizione non si riusciva più a vedere la riva.

    Troppa nebbia, incastrata tra le montagne e il bosco.

    Bene, pensò l’ombra. Qui va bene. È il punto migliore.

    Ripose la pagaia e si avvicinò al cadavere che trasportava.

    Piccoli passi, gambe ben distanziate e braccia a bilanciare.

    Si spostò con estrema lentezza.

    Cercando di non scivolare sul tavolato logoro, lucidato dagli stivali dei pescatori e dai piedi nudi di branchi di ragazzini accaldati in cerca di refrigerio o frivola intimità.

    Nello stesso istante un triste lamento risuonò nell’aria.

    Iiiuuh... uhhhh...

    Era simile al soffiare della tramontana nelle grondaie di rame, durante le fredde notti d’inverno. Per un attimo il vagito sembrò accompagnato da un tintinnio metallico, come quello di campane a vento. Quel verso... una gazza, forse? Negli ultimi tempi in ogni strada della città se ne vedevano un’infinità, di quegli uccellacci.

    A notte fonda, però… Il bubolare di un gufo, probabilmente.

    Oppure, no. L’origine di quel suono poteva essere un’altra.

    È il lugubre richiamo dello Spirito del Lago, si stupì a pensare l’ombra, incassando la testa nelle spalle come per proteggersi, e rabbrividendo fin dentro il midollo. Oh, merda! Che assurdità!

    L’ombra si concesse una fugace risatina isterica.

    Nonostante quello sfogo, l’irrazionale l’avviluppò nella trama fitta del suo fascino. L’avesse ghermito all’istante e trascinato con sé all’inferno, quel leggendario spirito inquieto di Villa Reso!

    Che scempiaggini vai pensando? rifletté, riprendendosi dal turbamento. Lo sai bene che non è lo Spirito del Lago a diffondere questo gemito e quel tintinnio... Oh, se lo sai! Puoi solo fingere di non saperlo, per non perdere quel che resta della tua ragione.

    Come era giunto, il lugubre suono svanì, lasciando al suo posto i soliti suoni notturni: lo sciacquio pigro delle onde sulle taniche, lo strusciare ruvido delle canne lacustri, lo stillicidio della rugiada dalle foglie. Con un rumore simile a ghiaia scaricata dal cassone di un camion, un tuono brontolò dietro la dorsale montuosa.

    L’ombra drizzò la schiena e riempì i polmoni di aria umida.

    Non esisteva nessuno spettro in quel lago. Purtroppo!

    Farsi suggestionare da una favola popolare era da sciocchi.

    La fonte di quel piagnucolio era meno fantasiosa e più atroce.

    La donna che trasportava sulla zattera non era morta, come aveva creduto fino a quel momento. Era soltanto priva di sensi.

    Come hai fatto a non accorgertene prima? Idiota!

    Era dura a morire quella stronza. Tuttavia ormai era troppo tardi per tornare indietro e cercare di sistemare le cose. Non dopo tutto quello che era successo, dopo quello che le aveva fatto...

    In quell’istante capì cosa doveva sentire un serial killer.

    Impulsi irrefrenabili che portano a conseguenze inevitabili.

    Con il viso rivolto verso il basso nascosto dai folti capelli, la donna emise un altro mugolio e agitò le braccia sulle tavole del viscido legno marcio della zattera. Lo scampanellio sommesso era prodotto dal vezzoso gioiello che la donna indossava al polso.

    Avrei dovuto legare anche le mani, oltre alle caviglie, ragionò.

    Lasciandole così, però, era stato più facile trascinarla dalla riva fino in fondo al pontile e rovesciarla sopra la zattera. Non che lei pesasse granché, dopo la dieta e l’attività fisica extra a cui si era sottoposta negli ultimi tempi. Era tutta tette, culo e labbra, ormai. Pensare a quello che lei aveva fatto gli provocò un reflusso acido. Sputò un grumo di saliva nell’acqua torbida e si asciugò la bocca.

    La parte più difficile era stata estrarre dalla mota e spostare i grossi blocchetti di cemento. Era stata una fortuna intravederli, a due passi dal pontile, con tutta quell’oscurità. Il rotolo di corda lo teneva sempre nel bagagliaio, ma per ben altre ragioni personali.

    L’ombra restò immobile per qualche istante, oscillando come un pendolo, incerta sulle gambe. Il vero guaio degli omicidi non premeditati è che non sei organizzato a dovere, rifletté. A saperlo prima… Ridacchiò di nuovo. C’era da dire, comunque, che aveva perso ben pochi minuti a tergiversare e piangere sul latte versato.

    Reprimendo sensi di colpa e cazzate varie, aveva escogitato un piano passabile per non finire in galera già il giorno dopo.

    Osservò la sua vittima, immobile come un cadavere.

    Come… ma non lo è. Non ancora, almeno. Devo sbrigarmi.

    Recitò una veloce preghiera, più per se stesso che per la sua vittima, poi controllò l’orologio da polso: mezzanotte spaccata.

    Poteva farla franca, certo. Scoprire il colpevole di un crimine non era semplice come facevano credere i telefilm gialli. La realtà era diversa. Il destino, la giusta dose di fortuna e l’incapacità degli inquirenti locali, nel suo caso, potevano fare la differenza.

    Liberarsi del corpo, al momento, era il suo obiettivo primario.

    Nascosto il corpo, nascosto il delitto. Avrebbe guadagnato tempo prezioso.

    Una volta tornato a riva avrebbe riflettuto sugli altri dettagli.

    Ancora un gemito e uno scampanellio. Stava rinvenendo.

    Un filo di bava rosa le colava dalle labbra.

    Non stare a guardarla! Muoviti! Falla finita!

    I vestiti incollati alla pelle da sudore freddo e foschia, l’ombra piegò la schiena e, con un ultimo tintinnio dei ciondoli, rimosse il braccialetto dal polso della donna. Un souvenir prezioso, oltre che un chiaro indizio per il riconoscimento. La borsa con documenti, portafoglio, smartphone e le altre sue cianfrusaglie da puttana la teneva già a tracolla. Intascò il bracciale con un sospiro. Poi posò entrambe le mani sui bordi irregolari di uno dei pesanti blocchetti.

    Serrò le mascelle e spinse con forza. La zattera si inclinò.

    Rischiando di farla rovesciare, l’ombra continuò a spingere, la lingua che guizzava ai lati della bocca per la fatica. Il cemento stridette sul legno, fino a pochi centimetri dal bordo scheggiato.

    Ripeté l’operazione con l’altro blocchetto, ansimando.

    La donna, nel frattempo, aprì gli occhi e sbatté le palpebre.

    Occhi blu attoniti, colmi di lacrime e striati di sangue.

    Qualcosa di simile a una supplica fuggì dalla sue labbra.

    «Aaah... iuuhhh...taa... miii...»

    L’ombra inghiottì saliva acida.

    Aiutami? Adesso mi chiedi anche aiuto?

    La zattera era inclinata quasi a quarantacinque gradi, sul punto di ribaltarsi.

    Esitare era pericoloso. Le lanciò un ultimo sguardo, gelido, mentre dava lo spintone definitivo ai blocchetti. Caddero in acqua con liquidi tonfi gemelli. La corda si srotolò e si tese in un attimo, artigliando le caviglie nude, trainando il corpo verso la fiancata.

    Intuendo la drammaticità della sua situazione, semincosciente, la donna cercò di attaccarsi con tutte le sue forze al fondo della zattera. Con le unghie si aggrappò al legno scheggioso, graffiandolo. Sforzo inutile.

    Scivolò sul legno e precipitò senza un grido nell’acqua.

    La zattera traballò come un turacciolo nella tempesta.

    L’ombra si sporse per osservare l’esito del suo gesto omicida.

    Con suo grande e attonito stupore, lei non affondò subito.

    Non del tutto, perlomeno.

    Restò a fluttuare, appena sotto la superficie oleosa dell’acqua, mulinando le braccia, i capelli che le attorniavano il viso, la bocca spalancata come una oscena visione spettrale.

    A causa del trascinamento, il seno le era sgusciato fuori dalla scollatura e ora ballonzolava pallido come il ventre di un pesce.

    Un groppo gli si formò nello stomaco. Perché non affonda? pensò.

    Perché?

    Ad aggiungere raccapriccio al suo sgomento, gli parve di udire di nuovo il suo lamento, sott’acqua. Un altro. E un altro ancora.

    Adesso lo Spirito del Lago esiste davvero... Ironico, eh?

    Un gorgoglio, una specie di risucchio, poi calò il silenzio.

    La donna s’inabissò, lasciandosi dietro una densa scia di bolle.

    Il nodo nel suo stomaco si allentò. L’ombra era esausta.

    Deglutì a vuoto, rilassò le spalle e raccattò la pagaia.

    La prima parte del suo piano era filata liscia, per così dire.

    Il peggio, in ogni caso, doveva ancora venire. Lo sapeva bene.

    Prima di tutto c’era il penoso ritorno a casa. Poi l’inquietudine, il rigurgito inevitabile dei sensi di colpa, sofferenza e pentimento. Superato tutto questo, il rientro a una quotidianità che non poteva più calzargli. Non dopo ciò che aveva fatto. Fingere la normalità sarebbe stato molto più difficile, da quella notte in poi.

    Non era il caso di pensarci in quel momento, comunque.

    Il semicerchio incompleto della luna, venato di fosche nubi filiformi, rischiarava i pioppi neri. Si era alzata una dolce brezza tiepida che disperse in fretta la caligine. La luce di un capanno, affacciato sul lago, si accese e brillò sperduta in mezzo ai tronchi degli alberi.

    Chi diavolo può esserci laggiù, sveglio a quest’ora?

    Doveva tornare al pontile e levarsi di torno alla svelta.

    La zattera si stabilizzò sotto i suoi piedi, sciaguattando contro le onde. Sforzandosi di ignorare la stanchezza, l’ombra pagaiò.

    Dietro le sue spalle, dal fondo del lago risalivano isolate bolle d’aria. Arrivate in superficie, esplodevano con un suono simile a quello del popcorn. Prima di dirigersi a tutta forza verso il pontile, ormai visibile attraverso la rada nebbia, l’ombra lanciò un ultimo sguardo speranzoso verso l’oscuro fondale gorgogliante e pregò che quello che vi aveva gettato non venisse mai, mai più ritrovato.

    GIOVEDI’

    Ore 07.30

    Guido Gubernatis aprì gli occhi, destandosi di botto, già stanco.

    Il sole batteva sui vetri della grande finestra davanti al suo letto, li superava e disegnava quadrati d’oro sulle piastrelle. Scostando il lenzuolo, ancora umido di sudore notturno, Gubernatis posò i piedi su quello scendiletto di luce e si alzò. La testa gli girò per un attimo.

    Da qualche tempo la mattina gli era penoso uscire dai sogni. Gli era venuta a mancare la consapevolezza dell’importanza di quanto faceva: trovava che la realtà non fosse affatto preferibile ai pallidi simulacri di mondi che la sua mente ricamava durante il sonno.

    Quel mattino le cose non andarono meglio. Dopo essersi fatto la doccia e la barba, si ritrovò a fissare nello specchio del bagno la sua brutta faccia. Era stanco di vederla. Ogni anno una nuova grinza.

    Uscì dal bagno, trascinando i piedi nelle pantofole, e andò in cucina per una colazione veloce a base di tè verde e frutta fresca.

    Senza alcuna plausibile ragione, se non che la memoria umana è bizzarra, dalla sera prima gli sfilavano nella mente alcune parole della regola che Bernardo di Chiaravalle aveva compilato per i pauperes milites Christi. Le aveva lette tanti anni prima, durante un lungo viaggio in Normandia con Anna, la sua ex fidanzata. Lei era una grande appassionata di storia medievale. Ricordava ancora quelle frasi sulla vita del guerriero, che veste il corpo con la lorica di ferro e l’anima con quella della fede. Lui di fede non ne aveva mai avuta, se non nell’utilità del proprio mestiere. E non sempre.

    Gubernatis abbandonò tazza e ciotola vuota nel lavello, sospirò e si vestì con la solita cura ossessiva. Invidiò l’uomo medievale, per cui la religiosità era stata ragione irrinunciabile di vita e che non era stato assillato, soprattutto, dall’esistenza del telefono.

    Il cellulare squillò. Una melodia country western, vecchio stile.

    Era la SIM 2, quella che usava per il lavoro.

    Passandosi una mano sul volto scontento, mentre rispondeva, Gubernatis lasciò correre lo sguardo fuori dalla finestra del salotto, lungo i fili dell’elettricità che abbandonavano il paese per fuggire sopra i sempre più lontani tralicci, nelle campagne. Avrebbe voluto fuggire lontano anche lui, un giorno o l’altro. Ma per andare dove?

    Tutti i luoghi erano diventati uguali, senza la sua Anna.

    «Pronto?» disse, dopo essersi schiarito la voce.

    Pensare a lei gli faceva sempre chiudere la gola.

    E allora non pensarci! Si rimproverò.

    Dall’apparecchio giunse una voce anziana, lagnosa, asmatica. La riconobbe subito. «Prondo, doddore? È il doddore Guido?»

    «Sì, sono io. Mi dica.»

    «Il doddore Guido Gubernatis?» Dopo aver posto per tre volte la stessa domanda, la donna si convinse che la persona che le aveva risposto era effettivamente quella con cui desiderava parlare. «Doddooore» spiegò allora «io sono su una sedia a rodelle!»

    «Lo so, signora...» Tenendo il cellulare premuto sull’orecchio, Gubernatis si avvicinò al suo televisore a led Panasonic da 55 pollici. Lo spense con il tasto. La notte prima l’aveva messo in stand-by.  «Ho compilato io stesso la domanda per fargliela dare.»

    «Ma io non riesco neanche a camminare!»

    «Altrimenti non le avremmo procurato la sedia a rotelle» disse lui, scuotendo piano la testa, mentre estraeva con attenzione dal lettore il dvd de La donna che visse due volte. Uno dei suoi film preferiti. Adorava i vecchi film degli Studios, soprattutto quelli di Alfred Hitchcock, del quale possedeva la collezione completa.

    «Non faccio in tempo ad arrivare in bagno!» replicò lei.

    Era il caso di armarsi di pazienza: la signora Armillà telefonava come minimo una volta ogni dieci giorni e si lagnava sempre delle stesse cose. Solo una parte del cervello di Gubernatis era necessaria per risponderle. Senza fretta, infilò il dvd nella sua custodia. Era ancora in perfette condizioni, nonostante lo avesse visto decine di volte. Congedando con una banale rassicurazione la signora Armillà e promettendo di passare a trovarla, lo ricollocò nello scaffale della libreria dedicato alla sua passione per i vecchi film, tra Notorius e Intrigo Internazionale. Gli altri scaffali erano zeppi di romanzi.

    Era quasi ora di uscire di casa, ormai.

    Passando nell’ingresso, studiò per un attimo la sua immagine riflessa nello specchio a figura intera attaccato alla parete tra l’attaccapanni e il portaombrelli. La stagione permetteva ancora il completo di lino. Gubernatis non era bello, ma poteva comunque vantare una figura signorile e interessante. E anche ora che l’umor nero avanzava strisciando per riempire le sue giornate, lui non rinunciava a mostrarsi impeccabile, fuori casa.

    Lo inorgogliva soprattutto il fatto di dimostrare meno dei suoi cinquantadue anni. Massimo Bianchi, uno dei suoi colleghi dello studio associato di via dei Gigli, ne aveva cinque meno di lui, eppure appariva più anziano, con la sua aria trasandata e quel suo affilato pizzetto sale e pepe. Era afflitto anche da un’ernia del disco che lo trasformava, di tanto in tanto, in un vecchio brontolone scorbutico.

    In quelle occasioni soltanto Adelaide, un’altra collega che lavorava insieme a loro, riusciva a gestirlo. Massimo e Adelaide erano amici da tempi immemorabili, fin dagli anni dell’università e avevano preparato insieme innumerevoli esami. Questo li aveva senz’altro aiutati a conoscersi e a sopportare le idiosincrasie l’uno dell’altra.

    Gubernatis era amico di entrambi, a modo suo naturalmente: amava stare per conto proprio. A volte, però, invidiava la loro complicità.

    Si trovava meno in sintonia con la loro altra storica collega, Roberta Curcio, e con Stefano De Luca, il giovane pediatra che li aveva affiancati due anni prima: quest’ultimo, in particolare, gli piaceva poco: non si lamentava mai di battibecchi con l’anziana madre demente o di lombaggini, ma era una grande faccia da schiaffi. Le pazienti lo adoravano, ovviamente.

    Quella mattina, in ogni caso, Gubernatis avrebbe anche fatto a meno di trovarsi in sintonia con chiunque, così come di recarsi in ambulatorio. Aveva un travolgente bisogno di trascorrere qualche giorno in solitudine. Aveva bisogno di ferie. Mancava poco ormai, ancora due settimane e poi sarebbe partito. Nel frattempo si sarebbe concesso un week-end al mare in Toscana, a casa di sua sorella Carmen. Le giornate, però, erano sempre più lunghe da passare.

    Il clima non aiutava.

    Villa Reso era ancora invasa da un caldo cocente, che tendeva a mitigarsi solamente nelle sere già buie di metà settembre. Di giorno l’aria immobile che ristagnava per le sue strade sembrava invitare a una gita al lago, a nemmeno dieci chilometri di distanza. Cinque in linea d’aria. I duri del divano sceglievano invece di godersi il gelo condizionato dei loro appartamenti, semibui dietro alle tapparelle abbassate. In giro non si vedeva nessuno, come fosse ancora piena estate.

    Anche nessuno, negli ultimi tempi, per Gubernatis era troppo.

    Il cellulare squillò di nuovo. Country western.

    Gubernatis sospirò. «Pronto?»

    «Dottore, io volevo prenotare una visita domiciliare urgente con lei, perché dall’altro ieri mi fa male lo stomaco.»

    Nessuna presentazione. Dritta al punto. Li detestava quando facevano così.

    «Mal di stomaco? Non riesce a venire in ambulatorio?»

    «Ho preso l’appuntamento per questo pomeriggio, ma poi ho pensato che è meglio se lei passa di qui e mi dà subito qualcosa. Nel pomeriggio devo andare a giocare a canasta con le amiche.»

    «Annulli la canasta, signora» ribatté lui. «Inizi a bere un bel tè caldo al limone, poi ci vediamo più tardi in ambulatorio.»

    «Ma...?»

    «Dica.»

    «Il tè lo posso bere ghiacciato?»

    «No, ghiacciato no. Arrivederci.»

    Gubernatis riattaccò, raccolse la sua valigetta dal pavimento, prelevò le chiavi della sua Mini Cooper e uscì di casa già irritato.

    Non aveva fatto dieci passi sul vialetto, ancora bagnato di pioggia della sera prima, che udì un altro squillo.

    La colonna sonora della scena della doccia di Psycho spezzò il silenzio del mattino. Per fortuna abitava in una villetta isolata.

    Stavolta era la SIM 1, quella con il suo numero privato.

    Carmen? pensò subito Gubernatis. Ho scordato di chiamarla.

    Sua sorella si sarebbe preoccupata. Aveva dodici anni meno di lui, ma insisteva a trattarlo come un ragazzino.

    Tirò fuori il cellulare dalla tasca e osservò il display.

    ANDREA RUIZ c’era scritto. Era il marito di Adelaide. Strano. Gubernatis non intratteneva rapporti con il marito della collega, che tra l’altro era continuamente in viaggio a causa del suo lavoro.

    «Sì, pronto?»

    «Buongiorno, dottore. Mi perdoni, ma...» l’uomo all’altro capo del filo era dubbioso, non sembrava più sicuro, ora che parlava con Gubernatis, di dover davvero esporre il motivo della sua chiamata. «Volevo chiederle se può fare un salto a casa a controllare se è tutto a posto. Mi trovo su una piattaforma petrolifera al largo del Messico. È da ieri sera che non riesco a contattare Heidi. »

    Il nomignolo imbarazzò Gubernatis, quasi come avesse spiato di nascosto dal buco della serratura la vita intima della collega. Sul lavoro teneva a mostrarsi una donna tutta di un pezzo, mai e poi mai avrebbe consentito a farsi chiamare Heidi. Adelaide e basta.

    «Non mi sono preoccupato, lì per lì...» continuò, intanto, Andrea Ruiz. «Il meteo dava forti temporali lì in zona e… come lei saprà...»

    Guido sapeva: Adelaide odiava i temporali.

    Ruiz proseguì con tono inquieto: «Ho pensato che avesse preso un Tavor come di consueto e fosse andata a letto. Dovevo solo dirle che ero arrivato sano e salvo, c’è un uragano in arrivo qui... Ma non riesco a contattarla neanche oggi. Il suo telefonino sembra spento. Quello fisso a casa squilla, ma risponde sempre la segreteria. Ho chiamato in ambulatorio. Non c’è ancora nessuno, a quanto pare. Avevo il suo numero in memoria da quella serata in pizzeria, così...»

    Diretto verso la sua auto, Gubernatis rifletté sulla situazione.

    «Non credo ci sia da preoccuparsi» disse, con tono calmo. «Con l’epidemia di gastroenterite che è scoppiata in questi giorni a Villa Reso, credo che Adelaide sia stata a tal punto indaffarata da non riuscire a rispondere. È molto ligia al dovere, come lei sa bene.»

    Ruiz non sembrò persuaso. «Lo so... Ma sono in pensiero.»

    «Ha provato a chiamare la vedova De Nittis?» suggerì lui.

    La De Nittis abitava sul loro stesso pianerottolo, lei e Adelaide erano diventate amiche dopo la morte del marito della prima.

    «Naturalmente. È la prima cosa che ho fatto. Non risponde. Ma non è una novità. È sorda come una campana.»

    Gubernatis non voleva essere coinvolto in faccende che non lo riguardavano, tuttavia non poteva esimersi. Adelaide era sempre stata gentile e disponibile con lui. Rallentò il passo, fece scattare la serratura della Mini Cooper, entrò e depositò la borsa sul sedile del passeggero. «Va bene, signor Ruiz. Non si preoccupi. Passo io a casa vostra a vedere se va tutto bene. Scommetto che sarà così.»

    «Grazie. Mi spiace averla disturbata così presto.»

    «No, si figuri. Stavo uscendo... ed è comunque di strada.»

    Si salutarono.

    Gubernatis era titubante. Prima di andare fino a casa sua, decise di chiamare lui stesso Adelaide. Non si sa mai, pensò. I suoi numeri risultavano entrambi irraggiungibili, sia il privato che quello riservato ai pazienti. In effetti, la cosa era abbastanza insolita.

    Suo malgrado si ritrovò invischiato in quella storia.

    Girò la chiave nel quadro, accese il motore e partì.

    Ore 8.50

    Ci vollero meno di dieci minuti per raggiungere via Leopardi passando dal centro. Villa Reso non era così estesa da richiedere più di quel tempo per attraversarla tutta in macchina: venticinquemila abitanti, per la maggior parte pensionati; tre chiese parecchio frequentate dai praticanti, una libreria semivuota, un vecchio cinema malandato, cinque ristoranti, un attivo pornoshop e quasi una ventina di bar, sempre molto affollati nella stagione calda.

    Perso nelle sue elucubrazioni mattutine, Gubernatis parcheggiò la Mini Cooper color avorio davanti al lussuoso condominio dove abitava Adelaide. L’ombra squadrata delle due palazzine di tre piani ciascuna, con il sole ancora basso alle spalle, cadeva su un curatissimo giardino. Alcune gazze saltellavano tra i rami.

    Scese dall’auto, percorse il marciapiede e suonò al citofono.

    Attese. Nessuna risposta. Suonò di nuovo. Niente.

    Gubernatis sollevò lo sguardo verso i balconi soprastanti.

    In casa di Adelaide non c’era nessuno, era chiaro, comunque nessuno che fosse

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