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L'indagine
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E-book225 pagine3 ore

L'indagine

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Info su questo ebook

Un cubo di metallo scintillante sembra prendere il volo mentre viene sollevato da un braccio meccanico.
In una città superstite alla guerra, scissa e in via di disfacimento, un improbabile Agente Q scava nel passato di una vittima illustre, sulle tracce di un sicario delirante.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2021
ISBN9788833468334
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    Anteprima del libro

    L'indagine - Matteo Pizzolante

    indagine_fronte.jpg

    L'indagine

    La polilogia amara – Parte prima

    di Matteo Pizzolante

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    ISBN 978-88-3346-833-4

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Narrativa – Intrecci

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    L'indagine

    La polilogia amara – Parte prima

    Matteo Pizzolante

    AliRibelli

    Indice

    Quando luccica

    Sogno n. 1, l’arrivo

    1. Il risveglio

    2. Un fagotto nella luce

    3. Piccole cose

    Sogno n. 2 direzione Baiamonti

    4. Il Porto Vecchio

    5. Un cubo lucente

    Sogno n. 3 le mani

    6. Le radici del capo

    7. In treno

    8. I referti

    Sogno n. 4 per iniziare

    9. La casa di X

    10. Rapporto 12-03-’22

    Quando tremula

    Sogno n. 5, le ali nere

    11. La cifra negativa

    12. Q contro Q

    13. Blue

    Sogno n. 6, come un Dio

    14. Un uccello sgradito

    15. Deposizioni, testimonianze, note informative

    16. In sintesi

    17. Del saper non scoprire

    Sogno n. 7, come muffa

    18. Nell’attesa

    19. Liquidi e scuri

    20. Huginn

    21. Muninn

    Sogno n. 8, silenzioso

    22. Le priorità

    Quando soffoca

    Sogno n. 9, paziente attesa

    23. Col fiato corto

    24. La lettera di X a Z

    25. La lettera di Z a X

    Sogno n. 10, emerge

    26. Il compito

    27. Eptakatoptron dell’autobus

    28. I segugi

    Sogno n. 11, ruggine

    29. Fuori dal baccello

    Sogno n. 12, latitanza

    30. Vicini

    Sogno n. 13, luccica e tremula

    31. Le conclusioni

    a Irma Sofia

    per tutto ciò che rimane da scoprire

    Quando luccica

    Sogno n. 1, l’arrivo

    ? אם אין אני לי, מי לי

    Il liquido denso che lo sosteneva andava assumendo sempre più la consistenza di una confusa massa di capelli, corvini e lunghissimi.

    Intrecciati dal caso e dal moto, finissimi, salivano e scendevano come un respiro, un movimento di mantice che trascinava il suo peso tra spire soffici che sfumavano di blu, quando una lucciola vi passava vicino.

    Talvolta la lucciola rimaneva stretta tra le volute che ondeggiavano, sino a strapparne le ali, frantumandone la scorza.

    La lucciola si spegneva e, come un galeone, affondava.

    Per sempre.

    Y galleggiava, coperto di stracci.

    Galleggiava e ogni tanto sputacchiava punte di capelli che rimanevano impigliate alle labbra o che solleticavano il naso.

    Avrebbe potuto galleggiare a lungo ma sua nonna Giulia lo chiamò, anche se chiamò potrebbe sembrare troppo perentorio in un contesto come questo ma, confermiamo: lo chiamò e, dopo le ovvie resistenze che il sogno contempla, Y si diresse verso la voce, fendendo vigorosamente quello che un tempo era un mare e, ora, era una chioma.

    Quando ancora non si vedevano che capelli e spuma dall’orizzonte, le acque si aprirono, i lunghi fili neri si separarono seguendo un solco tracciato dall’aria e si riordinarono in fila numerate, sedici, duecentocinquantasei, sessantacinquemilatrecentoquarantanove e Y nacque, vasto e nudo metalmeccanico.

    La prima volta che gli era capitato di nascere non lo ricordava, ma gli era sempre stato detto che sua madre si era svegliata nel cuore della notte, a causa di quella che riteneva una normalissima perdita e che, d’un tratto, una quantità d’acqua pari a quella di un bicchiere pieno era cascata dalla vulva al pavimento.

    Aveva avvisato il suo mondo con un pianto: arrivo, sono un poeta, drogato, saldatore.

    Questa volta però era vestito e non stava nascendo per iniziare a vivere: era già vivo e aveva un impegno, doveva andare dalla nonna.

    La vecchina, nel frattempo, aveva smesso di chiamarlo ma avrebbe ricominciato presto, di certo, appena si fosse assicurata che la zuppa non stesse bruciando o avesse assestato due energiche bastonate a quel sacco di pulci d’un cane, che tutti si ostinavano a chiamare sacco di pulci d’un cane. Si, avrebbe certamente ricominciato a chiamarlo di lì a poco, con una voce roca e stentata, eppure perentoria, nonostante il contesto fosse o ci sembri poco consono all’uso della parola perentorio. Non poté però trattenersi dal rallentare il passo mentre si dirigeva verso il luogo da cui la nonna lo aveva chiamato. Non sapeva quale fosse quel luogo, dove fosse.

    Ora, sulla spiaggia, la voce della vecchia era scomparsa, a destra e a sinistra si stendeva una sabbia nuda e grigia, su cui le onde appena scivolavano.

    Da qualche parte la voce era giunta, lo sapeva: verso qualche luogo sentiva di dover andare.

    Lo sguardo scrutava la spiaggia, il mare sussurrava alle sue spalle, lui procedeva con passo incerto. Dopo essersi allontanato verso sinistra si guardò attorno e notò, a circa venti metri dal bagnasciuga, all’imbocco di una stradina che conduceva verso l’interno, un chiosco di gelati che prima non c’era: basso, in latta bianca, con lamiere sottili rivettate e riverniciate a basso costo. Una tenda a strisce rosse e bianche si agitava lenta, facendo ombra al silenzio che le si accalcava intorno.

    Con passi faticosi, pesanti di sabbia e lenzuola avvinte, arrivò al primo tavolino, con due sedie in metallo e corda verde all’ombra di un ombrello bagnato fradicio, probabilmente bucato poiché dell’acqua filtrava e inzuppava chi vi si riparava dal sole – anche se non pioveva, è vero, ma non si può avere sempre tutto.

    D’un tratto il silenzio esplose di grida, urla e colpi di clacson, il ruggito dei motori impennò e percorse le strade. Le strade: la spiaggia si era ridotta a una sottile striscia lontana alle sue spalle.

    Tutt’attorno era sorta la città, improvvisa e scintillante, lucente e inafferrabile come una vetrina di gioielliere: le auto sibilavano sospese, i passanti come branchi di elefanti aspettavano i segnali al giusto guado; il verde scattava e le figure ciondolanti, coi loro pantaloni cadenti sulle natiche, attraversavano i vacillanti ponti di corda, da cui pendevano cartelli metallici recanti nomi di dentifrici, calzature ed elettrodomestici.

    A volte una pesante lastra di metallo precipitava sulla strada, schiantandosi in mezzo alla folla indifferente e inerme. Alzando lo sguardo non si poteva mai cogliere l’autore del gesto o il luogo da cui la lastra si fosse staccata: era tutto troppo alto e luminoso per essere compreso, troppe vetrine moltiplicavano lo scalpiccio della folla, i suoi visi e le sue luci.

    Oltre la propria testa si estendeva un mondo insondabile al quale la chiassosa fiumana non prestava attenzione alcuna: i corpi fracassati ed esplosi venivano raccolti, il sangue dilavato e nessuno se ne preoccupava oltre.

    Estrasse di tasca una pietra pomice e la strofinò con forza su un manifesto elettorale, facendone scaturire i numeri che aveva sino a quel momento incontrato: il due delle natiche d’elefante; il settantasei delle lampade a risparmio energetico, presenti lungo le vie principali; il novecentoquindici dei respiri percepiti a fianco del monumento ai caduti, inciampati e a tutti i distratti di guerra in genere. Le luci al neon sfolgoravano nomi di stilisti e panini, sfumavano il lampeggiare delle insegne, così come la densità delle stoffe esposte nelle vetrine e ciò che si percepiva chiaramente era il tremore dell’aria, come se la materia tutt’attorno vibrasse per confondersi con altro, ma mai sino in fondo, mai sino al punto in cui l’occhio tremava soffocando, bruciando.

    Riprese a camminare, sospinto da una ressa che improvvisa era sbucata alle sue spalle e premeva leggermente, ma inesorabilmente, con uno stillicidio di spinte e spallate tale da rendere incerta la sua andatura da sonnambulo.

    Salì su una macchina, dal lato del conducente.

    L’auto ovviamente era sua anche se non l’aveva mai vista prima e non ricordasse di possederne una.

    Accese il motore, si mosse per afferrare la cintura di sicurezza e si arrestò: scivolando in modo scomposto e ridicolo passò dal sedile anteriore a quello posteriore, poi si sporse oltre lo schienale vuoto cingendolo con le braccia e avviò la macchina.

    Come fosse possibile era un mistero, aveva l’impressione di riuscire a infilare le gambe sotto il sedile vuoto del conducente; bisogna anche dire che ora non era in grado di estrarre le gambe da lì sotto, ma fino a che non avesse dovuto scendere questo rimaneva un problema secondario. L’importante era riuscire a frenare, poiché il veicolo, con un interno di radica e tante piccole luci blu e bianche, sfrecciava a velocità sostenuta lungo una discesa tutta curve, un po’ Lisbona un po’ Gorizia, come se qualche divinità o Organismo Internazionale dell’Urbanistica avesse rimescolato pezzi delle due città, incurante di una ipotetica coerenza stilistica ma certamente dotato di un gusto che incontrava quello di Y.

    Il problema era l’auto, la sua velocità: raggiungere i pedali era comunque faticoso e talvolta aveva la chiara sensazione che il volante si facesse più distante, mentre le curve si facevano più strette.

    Improvvisamente ebbe paura e tirò con forza il freno a mano, già immaginando lo schianto, la corsa in ospedale, il decesso, l’arrivo dei cari, i pianti dei parenti, il cordoglio degli amici – eppure non ne aveva.

    Non accadde nulla: l’auto accostò dolcemente davanti ad un albero di alloro, con un ramo che quasi da terra si svolgeva parallelo ad essa per poi salire dolcemente, verso l’alto.

    Una gatta nera sollevò uno sguardo giallo per poi ritrovare il ritmo del suo riposo.

    Decise di procedere e di passeggiare in riva al mare e di parlarci del suo sogno: è meglio, non si dovrebbe parlare e neppure scrivere dei sogni altrui.

    1. Il risveglio

    Aveva un gran mal di testa e cercava di uscire da una sorta di torpore immerso in una oscurità densa e fredda, come dentro un pozzo chiuso. Desiderava anche correre e scalciare, ma ogni movimento sembrava rallentato, imbrigliato a terra: lui correva, si dimenava, tirava dei gran calcioni, ma non poteva mai raggiungere col piede la sua meta e ogni sforzo costava una fatica immensa.

    Uscì dal sogno poco a poco: ne sgusciò fuori, come da una tuta densa, una seconda pelle perfettamente aderente che lasciava ovunque una sensazione di gommosa umidità. Quando aprì gli occhi, la situazione non cambiò poi molto: persisteva il buio più nero e le gambe erano impastoiate. Anche il mal di testa insisteva oltre il sogno e, nel complesso, non avrebbe saputo definirsi sveglio, partendo da queste misere constatazioni.

    Si toccò il viso, con attenzione, trovando il bordo delle palpebre, il bruciore del contatto con le dita, la resistenza setolosa delle ciglia, ed era tutto troppo realistico, forse, per essere solo un sogno. Si decise quindi a supporre d’essere sveglio.

    Gli ci volle un po’ per radunare i pensieri, contenere il mal di testa, abituarsi alla prima evidenza: non sapeva in quale luogo si fosse svegliato.

    Rimase seduto per un tempo indefinito, scosso dai brividi in un’aria scura e fresca su un pavimento duro che riconobbe, forse, come metallo: un pavimento metallico con la superficie solcata da increspature che si incrociavano con regolarità, formando una sorta di reticolo, simile a quelli delle piattaforme che si trovano nelle fabbriche o usati come predellini di autobus e treni. Ma lui tutto questo se lo poteva solo immaginare, nel tentativo di dare un aspetto a quelle che erano solo sensazioni.

    Dove sono?. Si chiese ad alta voce per farsi coraggio e udirsi, cercando di capire se fosse sveglio per davvero. La frase riecheggiò brevemente, subito inghiottita dal buio.

    Hei! Dove sono? C’è qualcuno?.

    Al suo tono di voce più alto rispose un eco più forte che lo circondava giungendo da pareti non troppo lontane. Scalciò e si sentì le gambe pesanti; allungò le mani alle caviglie e si accorse che dalla vita in giù era avvolto in un tessuto pesante, al tatto pareva essere lana umida e spessa: la parte superiore era scomposta a causa dei suoi movimenti e le gambe sembravano esservi legate, come se qualcuno ce lo avesse arrotolato dentro.

    Spaventato armeggiò nell’oscurità, sino a liberarsi completamente da quella morsa. Cercò di riflettere sulla sua condizione, di ricordare come fosse finito in quel luogo e concentrare i cinque sensi per capire dove si trovasse. Troppe cose tutte assieme.

    Intanto star seduti, mantenere la calma, respirare lentamente e in modo regolare.

    Doveva darsi tempo: dandosi tempo si sconfigge l’ansia e si raccolgono le forze per affrontare…

    Oh! C’è nessuno? Dove sono? Dove siete?.

    A carponi cominciò a tastare freneticamente il pavimento. Si distese con circospezione temendo di poter incontrare un ostacolo o, peggio ancora, il vuoto. Mosse gambe e braccia come per nuotare, sfiorando le irregolarità dell’impiantito con i polpastrelli.

    Ne era sempre più sicuro: metallo. Anche l’odore da officina, fatto di grasso e acciaio lavorato, sembrava confermare quest’intuizione. L’aria era umida ma non stantia, il metallo freddo al tatto e nessun rumore sembrava superare quello del suo respiro angosciato.

    Si sforzò di controllarsi, due respiri profondi, un terzo, trattenne il respiro, respirò a fondo ancora e cercò di sentire… no, nulla. Iniziò a muoversi gattonando, e dopo pochi passi si rese conto di non sapere dove stesse andando. Di sicuro era inutile rimanere fermo e non voleva rischiare di alzarsi per finire con la faccia chissà dove.

    Provò piano a sollevarsi in ginocchio: non picchiò il capo. Sollevò le braccia e si mise a muoverle lentamente sopra di sé, cercando di esplorare col tatto quel che gli stava attorno: incontrò solo il vuoto.

    Appoggiò nuovamente le mani a terra e ricominciò ad avanzare.

    Così giunse a sfiorare con le dita un angolo: il pavimento terminava e una parete cominciava a salire.

    Sussultò, senza sentimento: sussultò per aver trovato qualcosa al buio.

    La trama era la stessa, la sentiva scorrere sotto i palmi delle mani, si alzò in ginocchio e, con cautela, continuò a sollevarsi, tenendo una mano tesa sopra la testa ed una mano davanti, poggiata sulla parete fredda, muovendola come un tergicristalli, con esasperante lentezza. Provò a spingere, a cogliere un cigolio o una fessura di luce, ma non accadde assolutamente nulla: attorno a lui il buio persisteva e la superficie era immobile e solida. Tenendo una mano poggiata alla parete sollevò l’altro braccio e compì alcuni modesti salti, sempre più arditi, verso l’alto, senza incontrare alcuna opposizione; stese l’altro braccio davanti a sé e iniziò a ruotare lentamente sul busto, come se, prima o poi, avesse potuto incontrare un corpo o un qualsiasi oggetto. Niente.

    Non sapeva distinguere il ronzio che aveva in testa da quello che avrebbe potuto essere il motore di un frigorifero, ovattato e lontano. Appoggiò l’orecchio alla parete fredda, ma non poté essere certo di udire alcun rumore, oltre il proprio respiro. Batté sulla parete, producendo un tonfo sordo e opaco. Colpì ancora, col palmo intero della mano e fece più danno a questa che rumore attorno.

    Imprecando ricominciò ad urlare e colpire la superficie, sino a stancarsi la gola e arrochirsi la voce.

    Riprese fiato, assestando due ulteriori manate poco convinte.

    La gola si era fatta secca e bruciava, come i palmi delle mani. Il mal di testa riemergeva, sottile, per poi inabissarsi ancora dietro le orbite oculari e le tempie. Riprese a costeggiare la parete: un braccio steso avanti, all’altezza del viso, l’altro teso a toccare con la mano il limite freddo alla sua destra. Passi piccoli e incerti lo conducevano verso nuove porzioni di buio.

    Proprio il tatto gli indicò una novità quando le dita sfiorarono un nuovo elemento nel reticolato: spesso pochi millimetri, forse appena un paio, seguiva un andamento verticale, estraneo alla trama incontrata sino a quel momento, e si estendeva verso l’alto fino a dove poté seguirlo sollevandosi in punta di piedi.

    Ridiscese quel solco sino a terra.

    Si tolse una scarpa e la pose all’incrocio tra quel nuovo segno e il pavimento.

    Ad alta voce parlò con sé stesso: Se la stanza è chiusa ritroverò la scarpa seguendo il perimetro, se mi perdo la ritroverò procedendo a ritroso..

    Si chiese se qualcuno lo stesse osservando o ascoltando.

    È un test?. Gridò per rendersi subito conto che se lo fosse stato avrebbe già fatto la figura del fesso: Se è un test non me lo diranno..

    In ogni caso,

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