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Quando l'Eremita disse
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E-book213 pagine3 ore

Quando l'Eremita disse

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Info su questo ebook

Un ragazzo alla ricerca di una svolta trova in uno strano eremita di città un’improbabile soluzione alla crisi che lo sta erodendo. Non sarà una soluzione lineare né ben definita: il ragazzo dovrà porre sette domande a cui l’Eremita risponderà indirettamente con sette storie, il cui senso – se esse devono averne – è necessario interpretare.
LinguaItaliano
EditoreSimodarme
Data di uscita17 lug 2018
ISBN9788828358206
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    Anteprima del libro

    Quando l'Eremita disse - Simone Dell'Omodarme

    Note

    Come girovagare per un labirinto

    Ah, disse l’Eremita. È proprio una magnifica giornata. Proprio una magnifica giornata, questo disse, sedendo su una panca di legno.

    Fuori pioveva a dirotto.

    Nella baracca il chiasso era a tratti assordante.

    Le parole venivano di tanto in tanto abbattute, con violenza categorica, come sotto una gragnuola di bastonate.

    Prego, prego. Siedi, fece l’Eremita allargando le braccia ossute come per donare all’ospite tanto gradito uno sconfinato paesaggio di sedie e cuscini.

    In realtà la stanza era più che spoglia.

    Il visitatore, dopo un’occhiata veloce, si sedette a terra.

    Ti racconterò, sospirò l’Eremita – non sappiamo se di piacere o di fastidio – sette storie.

    Tacque. Era abituato a farlo. Per il ragazzo – venuto fin qui ad ascoltarlo, ultimo e definitivo ripiego per risolvere i suoi enigmi – quel silenzio era come fumo caldo nei polmoni.

    È come girovagare per un labirinto, proseguì l’Eremita, accortosi della sua bocca paralizzata, secca come il granito, forte come una morsa, ingenerosa come l’oscurità, bocca muta la cui voce si irraggiava solo dentro quella testa quasi calva. Un labirinto vero, dico. Di quelli misteriosi, tetri, ingannevoli, infiniti e ipnotici. Un labirinto con la L maiuscola, non un gioco per bambini. Un ininterrotto susseguirsi di svolte e fondi chiusi, trabocchetti e trappole, scale e botole. Lì dentro ti senti schiacciato dall’inutilità; ogni decisione ha il suono falso della rassegnazione. Ma non è tutto. Vedere la fine è terrificante. Non so se capisci cosa intendo. Terrificante. Come la morte per la vita. Stessa identica precisa cosa. Anni di tornanti, di scelte, di abitudini; tutto si accumula; lo scopo, la conclusione un tempo netta in testa – uscire dal labirinto, essere partoriti infine da quell’uscita – scivola al di là della coscienza, viene relegata in qualche fondo fangoso della mente. Camminare e svoltare sono le uniche attività che contano davvero e se per un barlume di secondo sembra riaccendersi in mente l’obiettivo finale, subito è come se volesse sfuggire, che non si facesse toccare. Così, vedi, dopo una svolta uguale alle altre, trovarsi davanti l’uscita è terrificante. Agghiacciante. Quella soglia sembra impossibile da attraversare, anche se è ciò che avevamo atteso, cercato, agognato, sognato; anche se ogni passo mirava ad essa. Come la morte al termine della vita, inevitabile e giusta, conclusione priva di certezza per noi che conosciamo unicamente labirinti.

    Detto questo l’Eremita parve assopirsi.

    Poi, mossa da cobra, disse repentino: Hai sette domande. Risponderò con sette storie. E questo sarà tutto. Quando uscirai da qui, lo so, non sarai per niente soddisfatto. Forse, in futuro, ripensando a tutto questo, lo sarai. Non lo so. Non sono un veggente. Non vedo nel futuro. Vedo solo nel presente, che è già qualcosa.

    Tacque un istante, con un furtivo sospiro. Disse: Non sono in molti a saperlo fare.

    Il ragazzo, venuto fin lì col freddo dell’inverno nelle ossa e poca sostanza nello stomaco, lo azzannò come un’ultima speranza. Il suo sguardo si poteva scambiare per semplice fame.

    L’Eremita, uomo secco ma all’apparenza pieno di forza, riprese a parlare. Le sue parole erano lente. La sera, gelida. La voce che usciva sollevandosi, congelata; rimaneva un attimo nell’aria, evidente, prima di crollare. È tardi. Raccontami la tua storia, così che io possa capire. Poi dormiremo. Nei sogni le cose mi si chiariscono sempre. Più o meno. E domani avrai le mie risposte.

    ....

    Su, su, parla, racconta. Inspirò a fondo, fece un gesto d’invito ripetuto con la mano. Racconta, su. Che impazienza.

    POTRAI?

    " Mai...

    Sento il formicolio delle labbra appena schiuse. La membrana di saliva, tesa, scoppia liberando le onde della mia gola arrochita da un ponderoso, prolungato silenzio. Cupo il mio stato d’animo, tremante il mio corpo fiaccato dal dolore. Cupo persino il cielo che lascio indietro, viaggiando su questo treno verso una tranquillità figlia dalla dimenticanza; atro e minaccioso, offuscato da un manto di nuvole umide, è l’esatto specchio dei miei sentimenti. Sfumano uno nell’altro gli infiniti colori della volta celeste, ma il tono resta sempre oscuro e inviolabile; solo le lacrime della pioggia sul vetro, illuminate dalla luce del mio scompartimento, brillano, urlando la loro fine. Le gocce rigano il vetro, corrono repentine, scivolano via staccando solo una fine scia, sottile rimasuglio, per qualche attimo ancora vive, e poi più niente. Gli alberi poco lontani, seminascosti dal buio della sera, sono scossi da un vento insistente, ruvido come un ricordo doloroso. Le foglie verdi di fine estate ululano chiedendo almeno una breve tregua: cadranno stremate tra qualche mese, si arrenderanno anche loro di fronte a Madre Natura, Sua Signoria, e le Sue Regole antiche e irreprensibili. Urla isterica questa robusta brezza che ripulisce la terra, scrollandola come un tappeto polveroso pieno di lanugine. Il rumore ritmico del treno ne copre ogni altro, tranne il mio sospiro, la mia soffocata, improvvisa affermazione. Un soffio flebile, un ruggito morente, che verrà udito da tre misere persone, miei sconosciuti compagni di viaggio, maschere di morte che certo mi prenderanno per folle. Ma nulla m’importa delle impressioni di quel vecchio, incanutito forse fin troppo in fretta e rugoso sotto due occhi obliqui e spenti; le idee di quella donna squallida e stregonesca, dall’aria così altezzosa, e del suo uomo, debole, reso calvo da una vita piatta condotta in comode posizioni di rincalzo, non possono davvero toccarmi. Non esistono, tutto qui: sono aria e nient’altro, nebbia impalpabile di forma umana, vuoti come immagini cinematografiche, comparse di cinque minuti che scompaiono senza traccia. Non hanno vera voce. Sono senza occhi e senza nome. Fantasmi, manichini senza materia che popolano questo mio nuovo mondo: puro e semplice nulla, si agitano senza possedere neppure un briciolo di vita; morti e sepolti, riescono a parlare ancora, nella loro illusione, ignari di essere figure senza spirito e concretezza.

    Potrai mai essere ancora tanto folle, potrai…?

    Tutto è niente, ormai, e di scintillante resta solo la memoria, l’esuberanza senza contorni di una visione del passato; e il tempo e il destino e il caso e l’orrore mi hanno lacerato tra i loro denti affilati come sciabole, lame di torturatori esperti e gorgoglianti dal piacere. Che orrore, che assurdo, che tranello ignobile: lanciato in un mondo senza istruzioni. Sublime il mio primo amore di ragazzo: mendicai affetto, abbandonato da quello della mia famiglia senza tregue né ironia, e sgomento lo ricevetti, altissimo e stupendo, e fu un prodigio divino, l’opera di un progetto superiore e inconoscibile. Chiedevo significato e poesia alla mia esistenza e ben presto vi rinunciai afflitto: le liti roboanti dei miei genitori, le percosse, l’indifferenza, i miei coetanei privi di ogni ideale che non fosse di moda, lo stesso giorno che si ripete inutilmente, l’insoddisfazione e l’insofferenza per un’istruzione fatta per macchine, la privazione di ogni personalità, di ogni passione, la violenza cruda, anche nelle più piccole e sudice cose, il diluvio, le guerre, gli inganni, i dolori, il male come una cappa soffocante e tetra, un Dio che si stenta a credere che possa esistere. Eppure, un giorno di gioia, un giorno di scherzi, conobbi un angelo e mi detti del miscredente: i miei occhi sbadiglianti del primo mattino si sbarrarono dinanzi all’atletica e smodata pienezza di una ragazza, una divinità. Se Shakespeare fosse vivo, forse, solo lui saprebbe esprimerla senza svilirla, non io, che so parlare bene solo quando sogno. I capelli dorati, magnifiche scintille dai mille riflessi, le scendevano sulle spalle e come una soffice cornice – aureola – circondavano il suo volto pallido, quasi latteo; la perfezione disegnata dalle sopracciglia e, sotto, gli occhi d’un azzurro che scolorava nell’indaco – gli occhi, i suoi occhi: così vivi da tramutare tutto il resto in marciume e putredine inacidita da una crudele agonia di morte; così fiammeggianti e mobili da incatenare il mondo in una sosta eterna e bizzarra; così magnetici e fieri che ogni meraviglia, al confronto, aveva il sapore di una ripugnante quisquilia. E poi – e poi – il suo bel naso dai lineamenti delicati, e i tratti della bocca, sempre prodiga di fuoco e di sorrisi, nei quali la calda esultanza di poter essere viva trovava sfogo e si palesava in tutto il suo fascino ammaliatore. E le fossette audaci scolpite da quel riso, un richiamo per il mio cuore infreddolito e all’apice della confusione e della bestemmia. E poi, poi : le mani, sottili e lunghe, sempre così fredde da rabbrividire, il collo regale e il corpo slanciato da gazzella, i seni, le gambe guizzanti, le braccia secchissime che davano quel tocco in più d’originalità, così perfette nella loro stravaganza. Sublime il mio primo amore: con che faccia mi presentai a lei, quanto inconsapevole è stata la mia follia, la mia tragedia. Le parole, per solito restie ad uscire dalle mie labbra sempre stizzite, sgorgarono a fiotti, le onde di un mare burrascoso, tanto che stentai a riconoscerle mie. Fu come bere la pozione di un mago benevolo, fu come resuscitare, un’improvvisa danza, la folgorazione di una fede terrena. Fu un canto, un coro: la sua risposta gentile e dall’allegria imbarazzata di fronte alle mie tempestose avances , così indelicate, così goffamente piene di vergogna; fu un momento di pazzia comune, una burla del fato – già affiatati all’istante, sebbene ambedue colti alla sprovvista da quel giorno che al gracchio della sveglia pareva simile ad ogni altro.

    Potrai mai essere ancora tanto folle,...?

    La sua forza trascinante e profetica mi guidò dall’ozio alla vitalità; le sue idee fiere e derisorie furono uno sprone per la mia ingenua voglia di crescere, quel desiderio sfrigolante di confrontarmi in dibattiti accesi, fossero pure irragionevoli; fu un balsamo per la mia irrisoria intelligenza avvizzita nella monotonia, per il mio candido pessimismo. L’imminente divorzio dei miei genitori non fu che una puntura d’insetto, fastidiosa ma insignificante al cospetto di tanta mia folle realizzazione; vagavo con lei, lei che amavo fino al margine della pazzia, e non era un ordinario uscire, un girovagare in cerca di un passatempo estroso o lussureggiante nel quale nascondere il proprio vuoto, ma un comunicare costante, un riempirsi a vicenda, non solo di concetti ma insieme di sensazioni, un accomunare ogni bazzecola, perché ogni bazzecola ha in sé una sua perfezione, un’armonia divina, un piccolo pezzo di puzzle da incastonare con raziocinio nel tutto. Come due vasi comunicanti che danno l’un l’altro per essere eguali in altezza. Lei, uno spirito libero, s’infervorava esaltando giustizia e morale ed io, assorto, ascoltavo tale scorrere di sentimenti, udibili solo nell’ipocrisia e nelle frottole della gente che ama rassicurarsi nell’inganno, che innalza la rettitudine per poi infangarsi nella disonestà. Io mi crogiolavo nel suo fervore, ne assaporavo il gusto speziato e raro, assetato bevevo dal fresco zampillio della sua mente; e mi univo a lei, con meno vigore, con meno genio, ma con la stessa follia, oscurando per qualche attimo il mondo. Santo cielo! Come il ricordo è ispessito dalla sofferenza e mi appare nitido! Sublime, sublime la mia prima notte tra le sue braccia: fuggii tremante dalla finestra, un insignificante ragno piagnucoloso, tremante dalla frustrata impotenza dinanzi alle urla bestiali dei miei familiari; fuggii per trovare conforto. La pena, l’adrenalina, accrebbero la mia sensibilità: ho memoria di un cielo limpido illuminato da una pallida mezzaluna, rammento d’aver scrutato Venere e le sue pulsazioni, la ruvidezza della corteccia d’un leccio al quale appoggiai per qualche minuto la schiena, il corposo odore di una bistecca che m’arrivò alle narici e mi fece voltare la testa annusando l’aria, la ghiaia che calciavo lontano ad ogni mio poderoso passo, la fretta ingorda d’ascoltare la tranquilla voce della mia amata e la sua allegria contagiosa. La fatica che quasi mi sconfisse quando cercai d’entrare dalla sua finestra, arrampicandomi come un insetto, e la sua cristallina risata di divertimento, le sue mani tese, le sue mani aperte, il sollievo alla sola sua vista, l’amorevole sostegno delle sue parole e poi il reciproco dono dei nostri corpi. Io, inebriato, io, io mi sentii nuovo, mi sentii lì, non riesco a pensarlo. Dormire tra le sue stesse lenzuola, osservarla dormiente, serena, la sua pelle serica e liscia abbandonata al sonno, il suo lento respiro ronzante, lo stretto contatto tra di noi, le nostre gambe, la tenerezza del suo viso, la sua mano dal dolce peso, i capelli arruffati in buffo modo, le sue labbra che spesso avevo lambito con gusto, il letto forse fin troppo soffice, la mia foto naufraga sul suo comodino disordinato, il latrare insistente del cane dei vicini, l’enorme ombra dei libri alle pareti, la pace, la spossatezza, la paura d’essere scoperti, le lacrime, l’assopimento delicato che m’irretì man mano. Al mattino le baciai le palpebre serrate e il sorriso riapparve sul suo volto, perché la vita per lei era un semplice sorriso ampio.

    Potrai...?

    Maledetto quel mattino

    quel mattino

    quel mattino

    quel mattino crudele e ingiusto che sprizzava vita da ogni stelo d’erba, da ogni breve refolo di vento e che con spudoratezza ci raggirò malefico e si tinteggiò del colore del diavolo, se esso ne avrà mai uno.

    Maledetto quel mattino

    quel mattino limpido e rugiadoso così carico di invitanti promesse mai mantenute. Ah, quella bellezza cristallina, un diamante: le sue sopracciglia mobili ed espressive, la liscia fronte che s’increspava mostrando mille pieghe diverse, la sua gioia luminosa, gli occhi come stelle incendiate. Gli estesi prati della campagna e quel silenzio tambureggiante che s’insinuava nell’animo come il continuo rodere d’un tarlo e noi, mano nella mano, immobili, senza dover giocare una con l’altro per esserne soddisfatti; quella voglia improvvisa di correre spalancando le braccia in un gesto feroce; la sorprendente realtà che trasudava dal mondo, l’indecenza della natura, i colori infiammati, i colori. Lo ricordo bene: la sua bicicletta lilla davanti alla mia che volava volteggiando per la strada nera asfaltata di fresco. Lei che pompava energica sui pedali facendoli scricchiolare; l’epidermide alabastrina del suo corpo contrastava col cremisi della maglietta e con l’amaranto dei calzoncini; le ruote, puliti e lucidati di recente i raggi, mi abbagliavano di tanto in tanto, sfolgoranti. E poi: il suo cappellino arancio e blu, il verdeggiare della vegetazione, gli alberi imponenti e maestosi a far ombra al nostro cammino; lei che mi sfidava, provocandomi, stuzzicandomi a seguirla: voleva solo sorpassare, sorpassare tutto, andare oltre e sentire sulla pelle ogni filo della libertà del vento, nuotarvi fino ad esserne sfinita, berla e affogarvi esultante. Adorava spingersi sempre un po’ più oltre, era il suo stile: se le fosse scivolato tra le dita l’infinito avrebbe ricercato qualcosa di più grande e poi di nuovo, e poi ancora. Dio, se volava su quella via. Dio, quante immagini limpide, quanto strazio. Quella macchina defraudatrice che come un mostro degli inferi le rovinò contro ruggendo, i miei copertoni laceri e raggrinziti, la sgommata furiosa, io che non credo, non posso farlo, i freni stridenti, lo scemare della velocità fino all’arresto completo, l’eterno precipitare, l’impatto con l’irriguardoso cemento, la mia corsa disperata, la fugace figura d’una inorridita faccia d’uomo, il mio interminabile accorrere in soccorso, il suo viso angelico contratto e contrariato, schiacciato, lordo di sangue, lei esanime e senza respiro, senza sorriso, non più lei, il fiume scarlatto traboccante, i capelli che s’arrossavano, non più lei, lei morta. E l’afrore della morte che inonda ancora le mie narici.

    Potrai...?

    Scarlatto come i sedili imbottiti di questo treno che vorrebbe condurmi verso una tranquillità figlia della dimenticanza; scarlatto il sangue del mio pugno che stringe spasmodico l’unico concreto ricordo, la sua catenina dorata, quella che teneva tra le labbra mentre s’impegnava in un pensiero; umidi i miei occhi rossi per l’ira infruttuosa e il pianto; lei che s’illudeva davvero un Dio che si stenta a credere che possa esistere l’allegria sublime il mio primo amore dov’è allora questa giustizia? la sua bici frantumata quel mattino quel mattino... non restano che brandelli.

    Potrai...?

    Non posso evitare un singhiozzo di sofferenza repressa; tra i denti digrignati e stretti fuoriesce il poco fiato che m’avanza in corpo.

    Potrai...?

    Sono molto stanco. E il tempo non mi ha neppure dato la possibilità di scorgere un qualche umano difetto in lei.

    Potrai?

    ... più! ", disse il ragazzo.

    Mai più!, scandì ancora, mentre il treno rallentava tartagliando e veniva inghiottito da una nuova stazione.

    Un impalpabile spettro dotato di parola

    Terminato il racconto il ragazzo chinò il capo. Non vi erano lacrime nei suoi occhi, solo tristezza e la percezione di un’ingiustizia. La fatica del dolore e la sua vaghezza improvvisa cominciavano a sfinirlo.

    Bene, disse l’Eremita. "Bene, bene, bene. Bene. Tu hai capito come parlare con me, non c’è dubbio. Bene. Ora è tempo di mettersi a dormire. Sì, sì. Domani sarà una giornata

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